Due Poletti |
In fondo in fondo, il
tanto bistrattato ministro del lavoro Giuliano Poletti un pregio ce
l’ha: nei suoi profili e curricula non si è mai spacciato per
laureato, limitandosi a presentarsi come un onesto diplomato
agrotecnico, a differenza della sua collega Valeria Fedeli,
plenipotenzaria di istruzione e università che non ha neanche un
diploma di maturità, ma si faceva chiamare dottoressa.
Poletti è uomo tutto
d’un pezzo, sempre fedele (non Fedeli) alla causa: consigliere e
assessore Pci e Pds dalla Romagna a Bologna, prima presidente
Legacoop a Imola, poi in Emilia Romagna, quindi vicepresidente
nazionale e infine presidente nazionale dell’Alleanza cooperative
italiane. E non basta, il suo fiore all’occhiello è la
vicepresidenza della Federazione italiana di pallamano, la sua vera
passione. È di origine proletaria, anzi contadina, preferisce darsi
alla pallamano che all’ippica.
Anche il giovane Manuel
ha seguito la carriera del padre nei meandri delle consociate
postcomuniste: corrispondente dell’Unità prima di andare a
dirigere la mitica testata Sette sere, settimanale ravennate della
Cooperativa Media di Romagna accreditata di una tiratura di
cinquemila copie, sostenuto grazie a un contributo di appena
cinquecentomila euro di fondi pubblici. A Ravenna, mica a Berlino, o
a Londra, o a Barcellona e questa è la prova provata che i cervelli
italiani non fuggono come codardi ma stringono denti e combattono
nella provincia italiana.
Per di più, Manuel
Poletti, splendido quarantenne, non smette di studiare e annuncia di
vedere la laurea in fondo al tunnel. Siccome non è ancora laureato
non può neanche temere di far parte dei cervelli in fuga (per un po’
ci ha provato, ma smascherato è stato costretto a tornare in
Romagna), a differenza di quelli fuggiaschi paraculi imboscati a
Berlino, Londra, Barcellona che se volessero restare a casa non
avrebbero che da ingegnarsi e magari andare a dirigere un
quindicinale dell’Arcicaccia a Crotone o un trimestrale dell’Unipol
a Carbonia, lo Stato italiano non farebbe certo mancare il suo
aiutino con un assegno da mezzo milione.
È che non vogliono,
perché, come diceva giustamente l’ex ministro Padoa Schioppa, sono
solo dei bamboccioni, e per chi sa l’inglese come la mai abbastanza
compianta ex ministra delle ex pensioni Elsa Fornero, dei choosy.
A differenza di sua figlia che aveva due posti fissi e una certa
familiarità con le fondazioni bancarie.
Da dove bisognerebbe
cominciare a far pulizia? Da chi si finge laureata per poi
aggiungere, buttata la maschera, che la laurea non serve a una
minchia se si vuole fare il ministro – pardon, la ministra –
della pubblica istruzione e dell’università? Oppure da chi chiede
scusa ma non si dimette, per aver detto che i cervelli in fuga è
meglio perderli che trovarli, dunque restino dove sono fuggiti perché
tanto l’Italia democratica dei Renziloni non chiederà
l’estradizione? O da chi dice – ma è sempre quello di prima –
che bisogna andare subito alle elezioni per evitare una seconda
travata ai referendum contro il jobs act della Cgil? O forse dovremmo
cominciare dal nuovo ministro renziano indagato per spionaggio di
governo?
Che siano ministri ed ex
ministri giovani o – absit iniuria verbis – anziani, fatto
sta che odiano i giovani non ministri e si incazzano se gli si
rivoltano contro, al punto da scendere in campo per difendere la
Costituzione. Tutti i succitati ministri ed ex sono orgogliosi dei
loro figli, chi perché lavora, chi perché guadagna, chi perché fa
la recita. Lotti è stato costretto ad accelerare la partecipazione
alla recita del suo rampollo, ci fa sapere, per occuparsi delle sue
vicende giudiziarie. Non c’è più morale. I loro sono gli unici
giovani che conoscono, degli altri se ne fottono, o al massimo si
chiedono increduli: “Perché ci odiano tanto?”
Bisognerà pur domandarsi
come sia potuto succedere, in poco più di trent’anni, che quella
che si chiamava sinistra sia passata dalla questione morale al centro
della politica all’immoralità della politica. Con o senza
cervello, verrebbe voglia di fuggire all’estero. E invece restiamo
qui a rompere i cabasisi, e dovranno ancora sopportarci anche se
faremo di tutto perché siano loro ad andarsene. Magari a giocare a
pallamano.
Dal sito “il manifesto
di Bologna”, 24 dicembre 2016
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