Il cuore
nell’Ottocento e la testa nel Novecento; i dolci sogni d’amore e
le miserie dei rapporti quotidiani; la riservata eleganza e i giochi
grossolani.
Giacomo Puccini, del quale ricorre oggi il settantesimo anniversario della morte, fu davvero un uomo «doppio», diviso.
Le sue opere continuano a mietere successi (la Bohème è ancora il melodramma più eseguito in tutto il mondo). Proviamo a indagare una delle ragioni. Le donne, per esempio.
Giacomo Puccini, del quale ricorre oggi il settantesimo anniversario della morte, fu davvero un uomo «doppio», diviso.
Le sue opere continuano a mietere successi (la Bohème è ancora il melodramma più eseguito in tutto il mondo). Proviamo a indagare una delle ragioni. Le donne, per esempio.
Alle quattro del mattino,
il 29 novembre di settanta anni fa, Giacomo Puccini morì. Un
collasso sopraggiunto dopo l'asportazione di un tumore alla gola lo
stroncò nella clinica di Bruxelles dove già si sperava di vederlo
salvato. Aveva 66 anni e un’estenuata voglia di vivere, o meglio
una persistente ansia di morire. Ci sono due particolari che
colpiscono nella fine del nostro operista tanto amato dalle folle
quanto visto con sospetto, se non con avversione, da molta parte
della critica: primo, la morte di tumore, malattia tanto
novecentesca, lui cosi radicato nella tradizione operistica
dell’Ottocento; secondo, il tumore che lo colpi proprio alla gola,
luogo eletto della vocalità e di quella vocalità esasperata che
proprio lui aveva portato a vette impensabili. Si potrebbe ritrovare
in questo gioco di sincronie il segno di quanto l’artista fosse
congeniale alla nostra epoca, ancora così in bilico tra vecchio e
nuovo, immersa in una doppiezza un po’ schizoide che stenta a
produrre una diversa armonia.
Una doppiezza che Giacomo
riversò sia nella vita che nell’arte. Se il vitalismo toscano lo
trascinava a godersi la vita, a fiondarsi nella caccia tanto delle
anatre quanto delle donne, il tarlo della malinconia fin de siécle
lo riportava tra le soffici morbosità del decadentismo. Se il nuovo
corso della musica europea inaugurato da Wagner, proseguito da
Debussy e scardinato da Schoenberg, lo attirava, sia pure con
reazioni diverse, la melodia della tradizione italiana lo teneva
incatenato come un terreno sicuro sul quale appoggiare i propri
sentimenti. Ma sotto ribolliva quell'orchestra in cerca del nuovo,
ansiosa di rompere le righe, di raccontare il frantumarsi di tutte le
certezze. E dietro l’apparenza fine e sin troppo sensibile del
musicista scalpitava il bambino irriverente, il toscanaccio che, con
coprolalia mozartiana, si divertiva a verseggiare «cacca di Lucca è
sempre senza pecca...».
È stato detto che
Puccini non amava le donne. Mosco Carner, nella sua celebre
biografia, dipinse un Giacomo prigioniero del complesso materno,
quasi un omosessuale latente. Se in Verdi serpeggiava il complesso
del padre (vedi eroine ed eroi sempre in lotta con l’autorità
maschile), ratificato nel complesso edipico da Freud, al giro di boa
del Novecento con i suoi fermenti di rinascita femminile, ecco in
agguato la Madre. Anzi la Grande Madre junghiana, ovvero il femminile
divorante, tanto più divorante quanto più mascherato sotto le vesti
della dolcezza e della seduzione.
Di questa ambiguità le
figure femminili pucciniane grondano. A cominciare da Tosca, virago
dolcissima e selvaggia nella sua gelosia, pronta a sedurre, persino a
uccidere ma fatalmente preda della sua stessa materia. E persino
un’ingenua ricamatrice come Mimì nasconde sotto la sua cuffietta
una rapidità a farsi conquistare dallo squattrinato poeta che svela
un’abilità a tessere tele di ragno sentimentali. Per arrivare fino
a Turandot, la meno ambigua di tutte, perché dichiaratamente
cattivissima; una sorta di Walkiria che, anziché battersi con
giavellotto ed ascia contro i suoi pretendenti, li distrugge col
gioco dell'intelligenza. Un’equazione donna intelligente-donna
pericolosa che si è vista in diversissime salse (fino a Basic
Instinct, ad esempio). Vero è che Puccini non amava le
intellettuali, né le muse ispiratrici alla Alma Mahler, per
intenderci. La compagna della sua vita, Elvira, fuggita dal marito
per seguire il musicista alle prime armi, non aveva certo la statura
di una Mathilde Wesendoch, il grande amore di Wagner. Aveva compiuto
un grandissimo atto di coraggio, lei piccola borghese di un piccolo
paese di provincia, lasciando la casa coniugale per unirsi a Giacomo,
ma in quel gesto aveva consumato probabilmente tutta se stessa. Il
resto della loro unione fu un tormento senza estasi, un inferno. Lei
non capiva nulla di musica, lui non la metteva a parte dei suoi
fermenti interiori, la tradiva continuamente inseguendo gonnelle, più
per stanca tradizione di «virilismo» che per filosofico
dongiovannismo. Lei impazziva di gelosia. Fino alla misera tragedia
che li portò in tribunale e su tutti i giornali quando la giovane
cameriera Dora si suicidò per le accuse infami rivoltele dalla
gelosissima signora Puccini. Li salvò da devastante scandalo il
ridotto tam-tam dell'epoca e un rapporto nevrotico che li
inchiavardava alle rispettive impotenze. Lui a vivere un rapporto
profondo, totale con una donna, lei a ritrovare se stessa.
È facile, persino troppo, individuare nei deliri parossistici di Turandot, nel suo gelo, l’eccesso di Elvira, cosi come nella «povera» Liù il sogno di una donna capace di totale dedizione, una dedizione che non chiede nulla, ma solo offre se stessa per la felicità dell’altro. Non l’amore eroico e spudorato delle donne verdiane, ma il dolente dissolversi di un femminile che non ha più nulla da rivendicare. Per la prima volta con Turandot le due donne non sono ambigue. Un colpo di scena finale doveva riportare Turandot dal gelo al calore grazie all'amore. Ma quel colpo di scena, come è stranoto, Puccini non riuscì a comporlo. Morì con la carta da musica tra le mani. Un nodo alla gola gli impedì di «cantare» un rapporto d’amore compiuto e felice. Un nodo alla gola che ci stringe ancora, uomini e donne. Ecco perché il «piccolo borghese», il sentimentale, il nevrotico, l’anti-moderno Puccini continua a commuoverci. E a ferirci.
È facile, persino troppo, individuare nei deliri parossistici di Turandot, nel suo gelo, l’eccesso di Elvira, cosi come nella «povera» Liù il sogno di una donna capace di totale dedizione, una dedizione che non chiede nulla, ma solo offre se stessa per la felicità dell’altro. Non l’amore eroico e spudorato delle donne verdiane, ma il dolente dissolversi di un femminile che non ha più nulla da rivendicare. Per la prima volta con Turandot le due donne non sono ambigue. Un colpo di scena finale doveva riportare Turandot dal gelo al calore grazie all'amore. Ma quel colpo di scena, come è stranoto, Puccini non riuscì a comporlo. Morì con la carta da musica tra le mani. Un nodo alla gola gli impedì di «cantare» un rapporto d’amore compiuto e felice. Un nodo alla gola che ci stringe ancora, uomini e donne. Ecco perché il «piccolo borghese», il sentimentale, il nevrotico, l’anti-moderno Puccini continua a commuoverci. E a ferirci.
l'Unità, 29 novembre 1994
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