Il sito del
quotidiano “la Repubblica” pubblica senza firma una notizia che
viene dalla Città del Vaticano e riguarda un'intervista rilasciata
dal Papa al settimanale cattolico belga “Tertio” sul tema della
comunicazione e dell'informazione.
Dalla
sintesi riportata può desumersi che a Bergoglio piace la metafora
della “merda”, ma non osa pronunciare la parola. Dice che i
media devono essere "limpidi e trasparenti" e non devono
"cadere nella malattia della coprofilia". È un modo di
comunicare contorto, assai diverso da quello del Gesù dei Vangeli,
che consigliava di chiamare le cose con il proprio nome, senza
ricorrere a perifrasi, reticenze o eufemismi. Se la metafora della
merda per indicare qualcosa di sporco ed inquinante sembra essenziale
al gesuita argentino, farebbe bene ad usare la parola; altrimenti
faccia a meno della metafora senza ricorrere alle parole difficili e
ai termini tecnici.
Ma un
gesuita resta gesuita anche se diventa papa.
La nostra
ripulsa di fronte all'intervista non riguarda tuttavia solo lo stile.
Ricorrentemente la Chiesa cattolica e i suoi vertici hanno denunciato
l'irresponsabilità dei giornalisti per attaccare le libertà di
pensiero e di espressione. Era una delle argomentazioni che
accompagnava nel Sillabo di
Pio IX la condanna come errore del secolo della libertà di stampa. E già allora i polemisti gesuiti agitavano la bandiera della verità
contro la libertà.
Analoghi
discorsi negli anni 50 del Novecento si leggevano nei notiziari delle diocesi
italiane come sulla “Civiltà cattolica” o sull'“Osservatore
Romano”. Erano gli anni dei trionfi democristiani, del “regime
clericale”: i preti, i gesuiti e i baciapile si agitavano quando
“L'Espresso” o “Il Mondo” (oltre all'“Unità” e a “Paese
sera”) denunciavano la speculazione edilizia nella capitale, il
progressivo rimpinguarsi delle casse vaticane grazie a piani
regolatori addomesticati e - all'ombra della croce - le carriere
degli spregiudicati politicanti Dc, i Petrucci e gli Andreotti per
esempio. Papa Pio, nel suo apostolato sulle “comunicazioni
sociali”, e i suoi cardinali da tutti i pulpiti accusavano la
stampa laica e di sinistra di “disinformare, calunniare gli
avversari politici, sporcare la gente”, come fa il Papa attuale. A
volte, quando non potevano negare la veridicità di quelle campagne
giornalistiche, accusavano i giornalisti di scandalismo, di
“rimestare nel fango”, di dire solo una parte della verità, di
nascondere il tanto bene, le tante cose belle della vita. È, quasi
con le stesse parole, il monito lanciato dall'attuale pontefice. Non
parla di fango, è vero, preferisce i paroloni che alludono alla
merda oggi tanto di moda nelle chiacchiere televisive e nei social
network, ma è la stessa solfa. Per lui, infatti, i media devono
"essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere nella
malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo
scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità”.
Bergoglio
per esemplificare parla di uomini pubblici rovinati dalle mezze
verità o dal recupero di vecchie notizie su colpe già espiate. In verità non si
sbaglia quando denuncia la spregiudicatezza di certi “comunicatori”
che usano l'informazione come strumento di lotta politica e certe
campagne di disinformazione tese ad orientare l'opinione pubblica in
una direzione piuttosto che un'altra. Abbiamo tutti presenti le
sconcezze di Feltri e il cosiddetto “metodo Boffo” e ci sono, di
sicuro, leggi da rendere più efficaci, divieti dall'esercizio del mestiere di giornalista da
rendere permanenti per chi viola le leggi sulla diffamazione e
l'etica professionale. Ma bisogna aggiungere che “Wikileaks”, per
esempio, è impresa benemerita e che anche Vatileaks ha avuto la sua
pubblica utilità; e bisogna ringraziare i giornalisti che lo hanno fatto per aver reso pubblici gli intricati affari della Curia vaticana, anche
senza parlare – contemporaneamente – delle opere di bene che la
Chiesa cattolica finanzia.
Il giornalismo d'inchiesta e di denuncia è
un fondamento della vita democratica: si deve pretendere la
veridicità, non necessariamente la completezza. Ma per il
gesuita argentino, non è così: se, ad esempio, si scopre e si denuncia che un sindaco prende
tangenti dai costruttori, non bisogna tacere anche le eventuali offerte che
costui fa per orfanotrofi e altre benefiche imprese. Che
ragionamenti sono? La stampa è un cane da guardia e denuncia le
magagne del potere, anche clericale: il giornalista ha tutto il
diritto di scegliere le notizie da comunicare secondo la sua
sensibilità e secondo le sue gerarchie, senza addolcirle e attenuarle. Chi ha altre verità da
aggiungere per completezza e precisione deve poter trovare il modo di farle
arrivare ai lettori e ai telespettatori, ma il giornalista in questione non ha
compiuto alcun misfatto, ha solo fatto uso della propria libertà.
È deprimente che, mentre si preannunciano leggi per spingere gli operatori dell'informazione all'autocensura con la paura di pesanti ritorsioni economiche, un papa che si presume innovatore e vicino al popolo lanci le sue accuse soprattutto contro l'informazione che denuncia i potenti e taccia, invece, di tutte le orribili, squallide e morbose disquisizioni sui delitti più atroci della cronaca nera che riempiono di sé soprattutto il medium più popolare, la tv, la quale dedica ad essi ore di particolareggiate trasmissioni.
Ma la cosa più grave (e per me disgustosa) dell'intervista è quando Bergoglio afferma "la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia". Questo significa che non sono cessati il paternalismo e l'autoritarismo cattolico, non è cessata l'idea che le donne e gli uomini, specialmente nei ceti popolari, vivano in uno stato permanente di minorità, siano bambini da proteggere, non solo dai malvagi che potrebbero approfittarne, ma anche dai loro stessi bassi istinti. Non sono molto lontani gli anni in cui con la censura e la proibizione la Chiesa cercava di difendere i popolani dalla stessa istruzione, da libri, giornali, spettacoli, film; oggi, per la progressiva secolarizzazione delle società, è costretta ad tollerare libertà che un tempo considerava peccaminose, ma l'atteggiamento verso il popolo considerato immaturo e incapace di discernimento, di autogoverno, di scelte responsabili non è mutato. Verrebbe perciò voglia di rovesciare la frittata e di rivolgere a lui, al pontefice che pontifica, la beffarda domanda che il popolano di Giuseppe Gioachino Belli rivolge a un cardinale in un celebre sonetto (Er galateo cristiano): «Je piasce, Eminentissimo, la mmerda?».
È deprimente che, mentre si preannunciano leggi per spingere gli operatori dell'informazione all'autocensura con la paura di pesanti ritorsioni economiche, un papa che si presume innovatore e vicino al popolo lanci le sue accuse soprattutto contro l'informazione che denuncia i potenti e taccia, invece, di tutte le orribili, squallide e morbose disquisizioni sui delitti più atroci della cronaca nera che riempiono di sé soprattutto il medium più popolare, la tv, la quale dedica ad essi ore di particolareggiate trasmissioni.
Ma la cosa più grave (e per me disgustosa) dell'intervista è quando Bergoglio afferma "la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia". Questo significa che non sono cessati il paternalismo e l'autoritarismo cattolico, non è cessata l'idea che le donne e gli uomini, specialmente nei ceti popolari, vivano in uno stato permanente di minorità, siano bambini da proteggere, non solo dai malvagi che potrebbero approfittarne, ma anche dai loro stessi bassi istinti. Non sono molto lontani gli anni in cui con la censura e la proibizione la Chiesa cercava di difendere i popolani dalla stessa istruzione, da libri, giornali, spettacoli, film; oggi, per la progressiva secolarizzazione delle società, è costretta ad tollerare libertà che un tempo considerava peccaminose, ma l'atteggiamento verso il popolo considerato immaturo e incapace di discernimento, di autogoverno, di scelte responsabili non è mutato. Verrebbe perciò voglia di rovesciare la frittata e di rivolgere a lui, al pontefice che pontifica, la beffarda domanda che il popolano di Giuseppe Gioachino Belli rivolge a un cardinale in un celebre sonetto (Er galateo cristiano): «Je piasce, Eminentissimo, la mmerda?».
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