Non è bene lasciarsi
indurre nella tentazione di far le pulci all'articolo di Placido,
appassionata recensione di un libro di Norberto Bobbio appena uscito
e dedicato a quegli intellettuali politici che il filosofo torinese
individuava come maestri e a quelli che sentiva come compagni. È
forse possibile trovare in Placido qualche eccesso di semplificazione
storiografica, che salta oltre distinzioni significative. Ma una cosa
è la filologia, un'altra è la politica, e lo spessore
etico-politico del testo di Beniamino Placido a me pare indiscutibile
e – per di più – attualissimo a più di trent'anni di distanza.
(S.L.L.)
Dal quotidiano "Non mollare", Firenze 1946 |
Ci si chiede spesso come
faccia questo nostro paese, bellissimo e misterioso, a sopravvivere,
a volte addirittura a prosperare: diviso com'è in bande che lo
percorrono, lo aggrediscono, lo taglieggiano. Non mi riferisco
soltanto alla P2: essa non è che l'ultima (per ora) incarnazione
dell'indomabile tendenza degli italiani ad associarsi in bande, a
proporsi - se del caso a imporsi - come banditi (anzi "banditti",
come dicevano i viaggiatori stranieri dell' Ottocento, avidi del
nostro pittoresco).
Com' è allora che questo
nostro paese di "banditti" (o presunti, o aspiranti tali)
se la cava sempre, riesce sempre a riemergere, non fa mai (quasi mai)
naufragio? Di spiegazioni ne sono state proposte tante, tutte
ampiamente imperfette. Forse bisogna avere il coraggio di proporre
un' altra ipotesi, che quest'ultimo libro di Norberto Bobbio Maestri
e compagni (Passigli, pagg. 300, lire 25.000) autorevolmente
giustifica. L' ipotesi è che non tutte le bande sono cattive. Che ci
sono state e ci sono nel nostro paese - a fare da contraltare a
quelle cattive e pessime - delle "controbande" di uomini
corretti, interessati alla giustizia ed al buon funzionamento delle
istituzioni. Anzi: alla Giustizia e alla Libertà.
Dell'esistenza di una
almeno di queste associazioni segrete (ma non tanto) siamo sicuri. È
quella di cui si intravede il profilo in proprio quest' ultimo libro
di Bobbio: la banda del Partito d' Azione. Alla sua ideologia, alla
sua "cultura", alla sua area di influenza appartengono i
"maestri e compagni" descritti in queste pagine: da Piero
Calamandrei ad Aldo Capitini, da Eugenio Colorni a Leone Ginzburg, da
Augusto Monti a Gaetano Salvemini. E vi appartiene in prima linea
Norberto Bobbio, maestro, compagno, punto di riferimento essenziale
di noi tutti, da sempre.
Per chi non lo sapesse,
per chi - nato tardi - non l'abbia ancora imparato, va spiegato: che
la "banda" del Partito d'Azione nacque negli Anni Trenta
come una confraternita intellettuale interessata al liberalsocialismo
di Carlo Rosselli; che si impegnò nell'antifascismo militante; che
diede un contributo essenziale alla Resistenza con le formazioni di
"Giustizia e Libertà" (erano quattro gatti, ma quando
venne il momento scesero tutti e quattro in campo per fare il loro
dovere, anche se penoso, anche se faticoso. Erano quattro gatti, ma
si diedero tanto da fare da lasciare l' impressione di essere molti
di più).
Nel dopoguerra, i quattro
gatti intellettuali liberalsocialisti fondarono il "Partito d'
Azione": il "ridicolo partitino d' Azione", come lo
definiva sbrigativamente Guglielmo Giannini. Se ogni cosa piccola è
di per sé ridicola, allora il fondatore dell' "Uomo Qualunque"
aveva ragione. I quattro gatti del Partito d' Azione si erano
contati, alle prime elezioni del dopoguerra, ed avevano constatato -
con amarezza - che molti li stimavano, pochi li votavano. Per questo
(anche per questo) poco dopo, al congresso di Roma del 1947, il
Partito d'Azione si sciolse. La componente più liberale (Parri-La
Malfa) si avvicinò al Partito Repubblicano. La componente più
socialista (Riccardo Lombardi in testa) confluì nell'area
socialista.
Questo dicono i libri di
storia. Ma mentono. I quattro gatti del Partito d'Azione si sciolsero
come partito, ma rimasero uniti (magari senza dirselo, magari senza
saperlo) come "setta", come "banda". Si
dispersero, si disseminarono un po' in tutti i partiti politici, ma
continuarono ad ammiccarsi a riconoscersi, a parlarsi, a polemizzare
fra di loro. Ad esercitare la loro funzione di vigilanza critica
ovunque si trovassero. I nostri nemici lo hanno sempre saputo.
Dico "nostri"
con una punta di imbarazzata, evidente immodestia. La mia prima
militanza politica, poco più che infantile - ma entusiasta, dopo lo
svezzamento dal fascismo - si è svolta nel Partito d'Azione. Ma non
avendo potuto (o saputo) far nulla allora, so che passerò la vita a
cercare di meritarmela, quella giovanile iscrizione alla "banda".
I nostri nemici, dicevo, lo hanno sempre saputo. Hanno sempre
individuato gli "azionisti" a colpo sicuro, dovunque
fossero andati a finire: eccoli lì gli intellettuali, gli esigenti,
i rompiscatole, i "visipallidi". Un intellettuale esigente,
intransigente, qualche volta provvidenzialmente "rompiscatole",
dotato oltretutto di un viso pallido ed arcigno, è Norberto Bobbio.
Eccoli lì, i "pazzi malinconici", i visipallidi azionisti
che "non sanno quello che vogliono, ma lo vogliono subito".
Ebbene, il libro di
Norberto Bobbio fa giustizia, definitivamente, di questa vecchia
ridicola accusa. Sicché non sapevano quello che volevano, uomini
come Piero Calamandrei ed Augusto Monti, come Ferruccio Parri e Guido
Calogero, come Tristano Codignola ed Ernesto Rossi? Andiamo! Lo
sapevano benissimo. Volevano la democrazia. E la volevano subito
perché bisogna volerla sempre; anzi bisogna costruirla sempre;
perché ogni giorno la democrazia è insidiata, ogni giorno è in
pericolo. È la nostra tela di Penelope. Qualcuno delle bande avverse
nottetempo la disfa. E noi, che siamo una banda ma lavoriamo alla
luce del sole, ogni giorno riprendiamo in mano la tela.
È possibile descrivere,
sia pure sommariamente, la cultura del Partito d' Azione, quale
risulta da queste memorie di Bobbio? Ci si può provare, isolando tre
punti. Primo: nella cultura del Partito d'Azione non c'è posto per
le vongole. Preciso: nessuna prevenzione nei confronti di questo
benemerito mollusco. Ma una ferma avversione per "l'Italia alle
vongole". Suppongo che qualche lettore si sia sorpreso quando ha
incontrato questa espressione nell'articolo scritto da Eugenio
Scalfari in morte di Berlinguer (la Repubblica, 10 giugno 1984). E
forse una spiegazione era necessaria. Eccola: "l' Italia alle
vongole" era una espressione cara ai visipallidi del Mondo
quando - negli Anni Cinquanta e Sessanta - volevano indicare - e
criticare - l' Italia mangiona e pasticciona, approssimativa e
compiaciuta, delle grandi scorpacciate (gastronomiche e ideologiche)
e delle digestioni sonnolente.
Ma qual è l'antidoto
alle vongole? Il peperoncino, mi immagino. Ne ho avuto conferma
apprendendo qualche giorno fa, in un "ricordo" di Gaetano
Afeltra (“Corriere della Sera”, 5 giugno) che Raffaele Mattioli,
il grande banchiere-letterato amico del Partito d' Azione, si portava
sempre appresso un vasetto di peperoncino essiccato, e lo offriva ai
banchieri di New York, e lo offriva ai professori di Cambridge.
Certo: perché il peperoncino (che assumo qui nel suo valore
simbolico, come ho fatto prima con le vongole) è un condimento
aspro, abrasivo: stimola la digestione, tien desto l'intelletto.
Saremo "visipallidi" ma stiamo meglio in salute
dell'italiano qualunquista, pasciuto e pletorico. Secondo: in questa
cultura non c'è posto per le "filosofesserie", come le
definiva Gaetano Salvemini, al quale Bobbio dedica uno splendido
ritratto. Non c'è posto per quel pasticciato delirio
pseudofilosofico (tanto diffuso anche oggi) che funziona, diceva
Salvemini, come un filtro alla rovescia: in cui le idee entrano
chiare ed escono confuse. Gli uomini come Bobbio amano la chiarezza,
la precisione, la ragione. Terzo: gli uomini come Bobbio amano la
democrazia. È la loro vera passione. Ma non pensano che essa si
esaurisca negli istituti che ne garantiscono il funzionamento
formale. Questi istituti (ovviamente irrinunciabili) hanno senso se
aiutano a costruire una democrazia sostanziale, a promuovere
l'uguaglianza fra gli uomini: Giustizia e Libertà, per l'appunto.
Ed è questa tensione
alla democrazia piena che ispira a Norberto Bobbio le pagine più
belle. Alle quali rinvio. Ma spero di aver fatto abbastanza per
segnalare l'esistenza di questa "controbanda" di
visipallidi. Che c'è. Che esiste. Che resiste. Che ha un suo Capo.
Anzi, un Grande Vecchio. Noi visipallidi siamo pallidi anche perché
- confessiamolo - abbiamo paura. Di comportarci male, in qualche
circostanza difficile che potrebbe sopravvenire, domani. Ma finché
ci sarà questo Grande Vecchio che è, oltretutto, il più giovane di
tutti, avremo sempre un po' meno paura. Un po' più di speranza. Un
po' più di fiducia.
“la Repubblica”, 2
agosto 1984
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