Quello che segue, e che
risale a quasi cinque anni fa, è uno degli ultimi scritti di Pino
Ferraris, studioso e dirigente del movimento operaio, una lezione di
metodo per oggi e per domani. (S.L.L.)
Alcune riflessioni a
caldo, prendendo spunto da due interventi all’interno del dibattito
che si è sviluppato, all’inizio di dicembre, dai gruppi che si
sono incontrati al Mammut di Napoli per discutere del “sociale”,
della sua condizione, degli sviluppi che probabilmente prenderà e di
quelli che sarebbe bene tentare di imprimergli.
Il primo è offerto dal
racconto di Marina Galati della Comunità Progetto Sud di Lamezia
Terme che ha confrontato due episodi di mobilitazione sociale
(l’occupazione dell’Azienda sanitaria per ottenere diritti negati
ai disabili) concentrati nella stessa località ma in epoche diverse.
In esso si sottolineano con forza i mutamenti nella configurazione
della questione sociale che sono venuti avanti in questi ultimi tempi
e che richiedono nuovi modi del fare società.
L’esperienza riportata
parla della transizione da una mobilitazione sociale di strati
marginali e minoritari della società (i venti disabili che
occuparono l’azienda trent’anni fa) a una recente iniziativa che
ha coinvolto più ampie fasce sociali (comprese le famiglie, gli
operatori sanitari stessi e addirittura una parte della polizia
municipale che hanno occupato l’azienda alla fine dello scorso
anno), frutto di nuove alleanze tra aree storiche di marginalità
sociale e nuove figure sociali “vulnerate” dalla crisi in atto.
Per tentare di indicare
il senso generale del mutamento riprendo metafore approssimative
utilizzate dalla sociologia. Nei decenni passati si parlava della
“società dei due terzi”, cioè di una società che vede la vasta
maggioranza della popolazione integrata verso l’alto in una
condizione di sicuro benessere. Solo una fascia residuale di rischio
e di disagio sociali rimane nel basso. Il problema si riduce alla
gestione verso l’integrazione delle aree della marginalità. Oggi
si parla invece della “società dei quattro quinti”: una fascia
molto ristretta della società (un quinto) si colloca in alto con
reddito elevato e sicuro, mentre il resto (i quattro quinti) appare
come una platea di popolazione vulnerabile e vulnerata che circola
tra occupazione a rischio, lavoro precario, disoccupazione e redditi
decrescenti e incerti. La novità dirompente dei processi sociali che
la crisi ha accelerato e radicalizzato è la destabilizzazione del
“centro” della società, di quelli che si consideravano “ceti
medi” (classe operaia garantita, piccola borghesia, aree di
terziario autonomo e dipendente…).
La metafora del 99% degli
occupanti di Wall Street coglie in termini militanti e in una
prospettiva unificante questo passaggio, mentre il “tea party”
esprime una reazione chiusa e populista alla minaccia della mobilità
discendente. Infatti dopo generazioni e generazioni che hanno
considerato come naturale e irreversibile il movimento verso una
mobilità sociale ascendente ora il futuro spaventa: non solo
l’ascensore della mobilità sociale verso l’alto si è fermato,
ma scende precipitosamente. Questo è lo shock della crisi che
viviamo: la destabilizzazione degli stabilizzati.
In questa situazione una
parte di coloro che si consideravano i “secondi dentro la società
dei primi” oggi si ribellano al declassamento attraverso la loro
aggressiva distinzione dagli “ultimi”. L’Europa della crisi è
percorsa dalla protesta degli “indignati”, ma anche dalle
proiezioni xenofobe delle destre populiste.
È in questo contesto che
l’esperienza calabrese che ci è stata raccontata (nella Calabria
della “caccia al nero” di Rosarno) assume un carattere esemplare
di costruzione di alleanza tra “marginali” e “vulnerati” che
a mio avviso deve essere il cuore di ogni intervento sociale nel
presente.
Non basta più essere i
portavoce degli emarginati ma occorre dare direttamente la voce a
queste nuove convergenze. La logica associativa dell’alleanza tra i
diversi mi sembra che debba essere ispirata al principio federativo
che ripudia l’inquadramento burocratico dall’alto e ogni astratta
pretesa omologante.
L’altro stimolo alla
riflessione viene dall’esperienza degli operatori sanitari
dell’associazione Jerry Masslo, sulla via Domiziana. Il racconto
che abbiamo ascoltato intreccia l’illustrazione di pratiche mediche
orientate al soggetto sofferente, fortemente centrate sulla gestione
di un rapporto attivo tra medico e paziente, con una esplicita
critica di quella che possiamo chiamare la “medicina normale”.
La medicina contemporanea
vive una paradossale contraddizione: il massimo successo dei
risultati tecnologici (farmacologia, diagnostica, chirurgia) coincide
con un momento altamente critico del rapporto medico-paziente, che
non solo è parte integrante del processo terapeutico ma che
rappresenta anche l’identità professionale del medico. La
convergenza tra superbia tecnologica e aziendalismo sanitario mettono
in crisi una professione dai forti contenuti etici e relazionali che
non riesce più a incontrare i pazienti come “soggetti”, i quali
non sono solo portatori di problemi ma anche di risorse per la loro
soluzione.
La criticità della
professione medica diventa esemplare della crisi più ampia delle
attività orientate all’intervento sociale, l’azione educativa
come quella assistenziale o della pubblica amministrazione. Gran
parte delle attività di welfare vedono il predominio dell’offerta
delle prestazioni: il destinatario è considerato come un contenitore
vuoto nel quale, con crescente parsimonia, “si buttano” servizi.
Credo che nella medicina
come nell’educazione, come in tutti gli interventi di welfare
occorra coniugare una innovazione delle pratiche con una critica e
autocritica delle culture professionali oggi prevalenti. Ogni
intervento sociale, a mio avviso, dovrebbe essere volto a trasformare
gli “utenti” passivi di prestazioni esterne in soggetti capaci di
esprimere le proprie energie latenti, di riprendere l’iniziativa,
di trovare sempre possibili spazi di autonomia.
Mi pare che problemi di
efficacia, di risparmio di risorse e di espansione della cittadinanza
democratica convergano nella capacità di dare rilevanza al lato
attivo, competente e propositivo della domanda sociale facendo sì
che l’“oggetto” delle pratiche di tutela politico-amministrativa
entri sulla scena come “soggetto” portatore di risorse proprie e
dei suoi taciti saperi.
Direi che ciò che più
manca nelle condotte sociali è l’arte dell’ascolto,
l’accompagnamento al “far da sé” e il rispetto dei diritti
della persona.
La gestione della crisi
del welfare che vediamo in atto non aiuta ad andare in questa
direzione. Anzi tende ad aggravare le stesse carenze e distorsioni di
ciò che abbiamo alle spalle. Da un lato il sociale diventa sempre
più materia prima di attività di impresa: si tratti di business
privato, di aziendalismo della sfera pubblica o della
imprenditorialità del sedicente no profit.
Il nome “terzo settore”
è ormai pura copertura ideologica della lobby di un sistema di
“imprese” che ha i suoi attori principali nella Lega delle
cooperative e nella Compagnia delle Opere. Il diritto sociale in
questi casi si deforma in capacità di accesso del “cliente” al
mercato sociale.
Nei vuoti crescenti
lasciati dal “mercato sociale” prende spazio l’assistenza
selettiva, l’attività oblativa, l’intervento caritatevole del
“capitalismo compassionevole”. In questo caso i diritti sociali
tendono a subire una regressione ottocentesca verso il favore
concesso al bisognoso postulante.
In ambedue i casi non si
perde solo la dimensione del “diritto” ma la dimensione della
socialità. Ciascuno, abbandonato a se stesso, deve cavarsela, deve
imparare ad arrangiarsi.
Prima dell’affermazione
dello Stato assistenziale si confrontarono due culture e pratiche del
self-help: quella del “far da sé individualistico” di Samuel
Smiles fondato sulla laboriosità, il risparmio, il carattere del
singolo e quella del “far da sé solidaristico” come fondamento
di una ascesa sociale cooperativa dei lavoratori nella trasformazione
degli assetti sociali esistenti. Ambedue, senza negare un ruolo
sociale dello stato, si opponevano allo statalismo: lo Stato “padre”
facilmente diventa lo Stato “padrone”.
Colui che elaborò e mise
in pratica in Italia il “far da sé solidaristico” fu Osvaldo
Gnocchi-Viani, fondatore delle Camere del lavoro e della Società
Umanitaria di Milano, nei cui Statuti si affermava che “lo scopo
dell’istituzione è quello di mettere i diseredati in condizione di
rilevarsi da sé medesimi”. È chiaro l’intento di rompere il
nesso assistenza- dipendenza e di affermare il valore irrinunciabile
dell’autonomia dei soggetti.
Contro il degrado verso
l’arrangiarsi solitario del “cliente” o del “postulante” vi
è oggi solo la risposta di una cittadinanza attiva capace di
associare, di fare società, capace di praticare l’obiettivo, di
incominciare a costruire con le proprie forze ciò che rivendica, di
anticipare nel presente ciò che vuole per il futuro.
Solo se costruisco ho
diritto ad avere un sostegno a costruire, solo un operare sociale che
realizza una valenza pubblica può richiamarsi al principio di
sussidiarietà. Se si vuole affermare questa forma di socialità
antistatalista occorre opporsi in modo netto all’uso strumentale,
improprio e abusivo del concetto di sussidiarietà come copertura di
operazioni di esternalizzazione dall’alto di funzioni pubbliche, di
appalti, sovente opachi, di sfere di intervento pubblico al
cosiddetto privato sociale.
Non è un caso se accade
che le iniziative di cittadinanza attiva solidale oggi si richiamino
sovente all’esperienza storica del mutualismo. Il mutualismo
riprende alcuni principi di fondo di grande attualità: il valore
dell’autogestione, la capacità positiva di realizzare in basso e
non solo rivendicare verso l’alto, il legame tra problemi degli
ambiti di vita e l’esperienza di lavoro, infine l’affermazione
del principio di solidarietà che si distingue sia dalle pratiche di
oblazione dall’alto sia dalla pur lodevole virtù personale
dell’altruismo.
C’è una
contemporaneità genetica tra l’insorgere dell’idea di
solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista.
Nel 1848 parigino i giornali operai modificarono la triade “libertà,
uguaglianza, fraternità” sostituendo quest’ultima con la parola
“solidarietà”.
Nell’Enciclopedia di
Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in poche righe
che rinviano al concetto di “obbligatio in solidum” del diritto
romano. Molte pagine dell’Enciclopedia sono invece dedicate alla
parola “fraternità” con una ricostruzione storica che la
riconduce a due tradizioni: quella dell’unità di sangue tra
“fratelli d’arme” e quella della fratellanza cristiana che
unisce intorno al Padre divino: fratelli in quanto figli della
patria, fratelli in quanto figli di Dio. Di fronte all’insorgere
della questione sociale, “fratellanza” diventa la parola della
carità cristiana e della filantropia massonica.
Nella storia della
maturazione politica e associativa delle società di mutuo soccorso,
la sostituzione del termine “fraternità” con quello di
“solidarietà” intende affermare e realizzare un’autonoma
relazione orizzontale tra uguali, rifiutando rapporti verticali di
dipendenza dall’oblazione paternalistica.
Non c’è conflittualità
tra diritti sociali e mutualismo. L’apporto del mutuo soccorso
nella fase aurorale dell’affermazione di diritti sociali è
indubbio. All’intero della cerchia dell’associazione il vincolo
di reciprocità statutariamente affermato faceva sì che il singolo
lavoratore di fronte alle sventure della vita per la prima volta
cessasse di cadere nella condizione del bisognoso che implora
benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore
del diritto al sostegno solidale dell’associazione.
Forme di nuovo mutualismo
non possono quindi essere viste come interventi di supplenza di
diritti negati dalla crisi e dal restringimento del welfare, ma come
azione diretta positiva volta a rendere esigibili diritti elusi, a
promuovere nuovi diritti e, soprattutto, tesa ad affermare un
rapporto radicalmente mutato tra pubblica amministrazione e società,
che veda emergere il protagonismo dei soggetti, il loro potere di
partecipazione solidale alle scelte e alle decisioni che riguardano
le loro esistenze.
La società contemporanea
spezza legami sociali e costruisce di fatto e ideologicamente le
derive individualistiche. Vengono oscurate e impedite le
insopprimibili esigenze umane di sociabilità. Dentro il terremoto
economico e la crisi dei sistemi politici irrompono oggi movimenti
sociali di grande ampiezza, imprevisti e innovativi: le rivolte arabe
e le agitazioni sociali all’interno di Israele, gli indignati
spagnoli e gli occupanti di Wall Street.
L’esperienza americana
mi sembra di grandissimo interesse per la qualità politica e sociale
di questo movimento. Tra i molti aspetti originali che si possono
cogliere (il linguaggio, la composizione sociale, i contenuti
politici) vorrei, a conclusione del mio intervento, sottolineare
quello che ritengo più significativo ed esemplare. Una generazione
di giovani cresciuti nell’universo virtuale e immateriale dei
videogame e di internet, rovesciando criticamente l’uso delle nuove
tecnologie, passa all’incontro reale, materiale.
Si parla degli occupanti
di Wall Street come di un movimento “corporeo”. Di gente che è
trascorsa dalla connessione a distanza alla prossimità fisica: lo
stare insieme sotto le tende, le lunghe conversazioni faccia a
faccia, lo scaldarsi reciprocamente e il mangiare insieme…
Questo transitare dal
contatto immateriale alla solidarietà corporea indica, a mio avviso,
una possibilità tutta nuova che apre al futuro: dentro la società
della rete si utilizza la “connessione” per produrre
“associazione”.
Gennaio 2012, dal sito in
ricordo di Pino Ferraris ( http://www.pinoferraris.it/
)
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