Leggo spesso con piacere
le riflessioni di Enzo Bianchi, il monaco laico che ha fondato la
comunità di Bose, e simpatizzo per lui quando viene, anche
ferocemente attaccato dai cattolici più tradizionalisti per talune
sue libertà di giudizio e per la volontà di portare più avanti il dialogo tra le religioni e quello tra i religiosi e i credenti in altro. Ma questo suo ricordo, che “posto” come
esempio negativo, non mi è piaciuto affatto. In morte di Adriana Zarri, la
teologa e l'eremita che ricordo assidua collaboratrice del
“manifesto”, quotidiano comunista, Bianchi si vanta di non voler nascondere i dissensi, ma è come se lo
facesse visto che non entra nel merito. Anche la reticenza può
essere peccato mortale. (S.L.L.)
L’uscita, a poche
settimane della morte di Adriana Zarri, del suo Un eremo non è un
guscio di lumaca è l’occasione per fare memoria di questa
cristiana scomoda, che ha saputo fare della propria esistenza una
voce acuta e chiara nella chiesa degli ultimi sessant’anni.
Avendo avuto con lei
molti scambi, soprattutto negli Anni Settanta e i primi Anni Ottanta
del secolo scorso, desidero testimoniare innanzitutto la sua qualità
di donna cristiana che ha saputo vivere la povertà evangelica in una
vita sobria, senza lusso né accumulo di beni. Per sostenersi si è
sempre affidata al suo lavoro - che non le consentiva certo agiatezze
- e all’amicizia di chi l’aiutava nella gratuità a tenere bella
e accogliente la sua casa.
La sua esistenza è stata
quella di una «eremita» ancor prima di raggiungere una dimora
solitaria: la sua incapacità di vivere in una comunità le veniva da
un carattere di grande autonomia, di spiccata singolarità che
rendevano difficile la convivenza quotidiana. Quando agli inizi degli
Anni Settanta abbozzò in tentativo di vita comune con un prete di
profonda spiritualità e profezia, l’idea naufragò prima ancora di
prendere forma. Semplicemente, la solitudine era necessaria ad
Adriana per «vivere dentro»; secondo le sue parole, per essere se
stessa nel faccia a faccia con Dio e con il mondo: la solitudine era
il suo modo di sentirsi in comunione con gli altri.
Nei lunghi anni che visse
non lontano dal mio monastero - ad Albiano prima e poi a Crotte - non
mancarono le occasioni di incontro da cui emergevano la sua passione
per una chiesa fedele al Vangelo e la sua lucidità critica. Non nego
che, pur nutrendo un grande rispetto per la sua qualità cristiana,
non condivisi molte sue posizioni e la franchezza reciproca ci portò
anche a scambi davvero vivaci...
Era soprattutto la
diversa sensibilità ecclesiale a provocare attriti: il nostro modo
di vivere nella chiesa e di criticare le non evangelicità di
cristiani e istituzioni avevano timbri e accenti a volte
profondamente dissonanti. La consapevolezza della sua «anomalia» di
essere donna e teologa la portava a esprimere istanze a volte
graffianti come i suoi amati gatti, altre volte tenere come un filo
d’erba; la conduceva a battaglie di avanguardia e a uscite
inopportune. Ma la sua vita e la sua persona, così ricche di
intelligenza e sensibilità cristiana autentica, meritano un grande
rispetto e un ascolto libero da
pregiudizi.
Si è soliti celebrare le
persone morte solo con elogi e quando si condivide tutto quello che
hanno fatto e detto; altrimenti si sceglie il silenzio. Io credo
invece che la chiesa sia una comunità plurale e che le vie per
vivere il Vangelo al suo interno siano diverse: ciò che mi porta al
silenzio non sono quindi le divergenze o le posizioni che sento
contraddittorie alle mie, bensì gli atteggiamenti di chi non si
guarda dal «lievito dei farisei», l’ipocrisia.
Da questo lievito Adriana
Zarri è sempre rifuggita e per questo ne faccio memoria volentieri!
Il suo libro, che alle pagine più antiche ne aggiunge altre, non
meno aspre e critiche, contiene tutto il mondo di Adriana, le sue
attese e le sue delusioni, l'indignazione e le speranze... Proprio
per questo rivela ancora oggi un animo che ha sempre anelato a essere
cristiano e a desiderare una chiesa degna del suo Signore.
“Tuttolibri – L a
Stampa”, 5 marzo 2011
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