14.2.18

Il Fortini ininterrotto (Massimo Onofri)

Il solido e foltissimo volume di Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994 che Bollati Boringhieri ha da poco mandato in libreria, a raccogliere centocinquantasei pezzi, di cui solo tre postumi, è davvero bello. Non foss'altro per quel molto di interlocuzione, di disposizione al dialogo, su cui il curatore Velio Abati, nella lunga introduzione, scrive parole interessanti: per contraddire magari la proverbiale oscurità da sempre attribuita a Fortini, quando non era egli stesso a rivendicarla vigorosamente, come nel corso d'una memorabile polemica con Parise, il sostenitore integerrimo della semplicità e della chiarezza. Riflettiamo ancora un attimo su questa disponibilità al dialogo, sulla nozione stessa di dialogo, per come Fortini l'ha intesa: proprio certe sue dichiarazioni infatti, rilasciate a Neva Agazzi nel 1988 per Cooperazione, possono consentirci, credo, una prima veloce approssimazione al ritratto del più risentito e utopico dei saggisti italiani del secondo Novecento, di una delle intelligenze più brusche e perentorie che abbiano calcato la scena culturale.
Fortini sta parlando del funerale di Pinelli: «Ma quello che chiamammo '68 e in realtà fu il '66 ed il '67, fu un periodo straordinario, non soltanto per quello che gli studenti chiedevano per le strade o la classe operaia cominciò con qualche ritardo ad intendere, ma per quello che accadeva anche al di fuori di questo: si avvertiva nelle case, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro. Potrei chiamare questo aspetto, senza ironia, «cinese», dove ognuno insegna ad ognuno e ognuno parla a tutti e tutti s'impara da tutti. Questo per me è uno degli aspetti fondamentali di quello che una volta si chiamava rivoluzione; una sorta di enorme dialogo ininterrotto».
Le illusioni che, nel 1988, Fortini ancora nutriva sulla rivoluzione cinese e i suoi miti assemblearistici, la fede che ribadiva per una certa pedagogia da volontà generale, sono di quelle che potrebbero facilmente indurre all'irritazione: senza dire, poi, della mancanza d'ironia, orgogliosamente rivendicata, e che potrebbe costituire, a tutt'oggi, il principale atto d'accusa contro la sua intelligenza. Ma le cose non sono così semplici: a cominciare proprio da quell'ironia che è diventata, ormai, il più facile degli alibi tra gli intellettuali per dissimulare il cinismo funereo, la disponibilità a servire tutti i padroni. M'è capitato di scriverlo già: Fortini ha fatto dell'ideologia, sin da subito, il suo specialissimo piranesiano carcere d'invenzione. Sicché, in quel regime di restrizione, la realtà gli veniva continuamente sottoposta ad un feroce processo di distorsione ottica, non perdendo nulla, però, della sua forza d'impatto: come appunto avviene nel passo citato, laddove, se si parla di dialogo in termini di automistificazione maoista, continuano a vibrare le note di un'autentica pedagogia democratica, d'una vibratile partecipazione alla vita nazionale che, negli anni ultimi, soffertissimi ma vigili, l'avrebbero condotto a riflettere con accanimento sulla scuola, sulle ragioni della didattica e della manualistica. Magari per pronunciare frasi come queste, di sobria e laicissima civiltà, che chiudono il volume: «Se dovessi fare un augurio per il nostro paese, vedrei meglio, anziché una figura come Pasolini, una leva di storici, filologi, sociologi, pedagoghi orientata, soprattutto, a trasformare la scuola. La formula? Per favore, non troppo genio. Quel che valeva prima per i traduttori, oggi si dovrebbe applicare anche per gli scrittori e gli intellettuali in genere. Sarebbe necessaria, in altre parole, una profonda ecologia della cultura».
Insomma: il messianismo di Fortini contemplò di sicuro un salto nel vuoto dell'utopia. Ma quel salto, invece che accecarlo, gli procurò un singolare disturbo della vista, che lo portò a vedere là dove molti brancolavano. Questo libro, spalancato com'è su un numero non piccolo di questioni, ne è l'ennesima riprova. Prendete la riflessione sul ruolo della critica letteraria, tema costante in Fortini che, nel 1960 su “Nuovi Argomenti”, in anni di critica marxista e strutturalismo (e dunque di mitologie scientistiche), guadagnava parole di grande lucidità e suggestione: «Il critico giudica se stesso molto più di quanto non giudichi gli altri. (Anzi, è questo a fondare la legittimità del “giudizio di valore”, che molta critica tende oggi a rifiutare). Mai come per il critico sembra vero il motto evangelico: “Beato chi non condanna se stesso in quello che approva”». Parole che non solo ribadiscono la piena assunzione di responsabilità e la rivendicazione, alla critica vera e antagonista, del giudizio di valore (quando tutti, incamminati sulle strade trionfali del progresso scientifico, se ne liberavano come d'un inutile se non dannoso anacronismo), ma che ponevano le basi più sicure per valutare nella sua effettualità il lavoro del critico, per definirne le eventuali aspettative di grandezza (tra i più promettenti critici menzionati delle più giovani generazioni spicca, su tutti, Cases, quindi Baldacci e, sorprendentemente, Bàrberi Squarotti). Certo, Fortini si muoveva dentro una tradizione di umanesimo marxista che faceva risalire alla cultura romantica, presupponendo un'idea di totalità di tipo lukacsiano, ai cui parametri riferiva il rapporto critica letteraria-società (e politica). Ma questo non gli impedì di formulare, in polemica con le opposte e speculari ideologie del «neobbiettivismo» e del «neosoggetivismo» (rappresentata, quest'ultima, dall'ex amico Pampaloni e da un giovane Citati), la più persuasiva definizione della critica militante (o «contemporaneistica») che sia stata data in Italia, ravvisandone già il suo punto più vero di confluenza nella saggistica: «Esercitare la critica, svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora, per questa concezione, è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo o dallo studioso di “scienza della letteratura”; è la voce del senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già fra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le attività particolari, le “scienze particolari”, da un lato, e l'autore e il suo pubblico dall'altro».
Tale indicazione a favore della saggistica (e del senso comune: chi se lo sarebbe aspettato?) in un marxista, che non era disposto a rinunciare «alla lucidità e coerenza della discorsività storiografica e scientifica», va sottolineata: tanto più che Fortini era diffidente nei confronti d'una tradizione che, in Italia (da Cecchi a Longhi), aveva per lui significato «arbitrio, falsa eleganza, belletrismo». E va sottolineata soprattutto per come sono poi andate le cose quanto a bilanci e revisioni: se è vero che l'ex discepolo Berardinelli (il quale, su Fortini, ha scritto le pagine più intelligenti e feroci) avrebbe speso molto di sé per riflettere sul genere della saggistica, per dimostrarne l'eccellenza anche in Italia. Sentite quello che Fortini già scriveva, proprio a dissodare il terreno che sarebbe stato poi così ben coltivato da Berardinelli, sottolineando per altro l'importanza, nella prosa critica, dell'«espressività» e del «controllo lessicale-espressivo»: «mi chiedo se è possibile che ad una formalizzazione del discorso critico o “scienza della letteratura” possa non corrispondere anche una “forma”, nel senso letterario della parola. M'è sempre parso che, almeno da noi, lo studio della saggistica come forma sia stato trascurato».
Se ho insistito sulla questione generale della critica letteraria, questo non deve far dimenticare che per Fortini il problema doveva sempre essere ricondotto ad un fatto di critica della cultura, quando non di filosofia. Ne fanno fede le tante pagine dedicate a Hegel, Marx, Nietzsche, Lenin, Croce, Gramsci, Lukàcs, Benjamin, Adorno, Brecht, Sartre. Ma non vorrei chiudere il discorso senza accennare alla presenza viva dei tanti amici e nemici, a cominciare dall'odiosamato Pasolini: Vittorini e Montale (presentissimi), Sereni e Calvino, il maestro Noventa, Cases, Mengaldo, Asor Rosa e Segre, per dire solo di alcuni. Sono pagine che si spalancano sul carattere d'un uomo che, ci dicono, fu difficilissimo e tortuoso. Vale la pena d'indugiare: magari sul bellissimo dibattito che Fortini ebbe nel 1966 con Bo, Ferrata e Crovi, per “Terzo Programma”, in occasione della morte di Vittorini. Quel Vittorini di cui, ancora nel 1992, poteva addirittura dire: «Vittorini torna frequentemente nei miei sogni. Oggi forse so spiegarmene la ragione e non è una ragione propriamente letteraria. Era il suo profilo, non so, c'era qualcosa di sessuale in quel suo profilo, qualcosa che non tornava. Il suo stesso giovanilismo, le difficoltà che aveva con i figli, la tragedia della morte del figlio che aveva trattato peggio. Vittorini era tutt'altro che casto, però aveva un'oscura vocazione alla castità. Era...angelico».
Sono parole di compiaciuta e provocatoria antipsicanalisi. E fanno pensare alla storia d'un uomo complicatissimo che forse, per tutta la vita, inseguì l'autenticità: sacrificandola però ai tempi impossibili del socialismo irrealizzato.


“l'Unità”, 25 maggio 2003

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