Il solido e foltissimo
volume di Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste
1952-1994 che Bollati Boringhieri ha da poco mandato in libreria,
a raccogliere centocinquantasei pezzi, di cui solo tre postumi, è
davvero bello. Non foss'altro per quel molto di interlocuzione, di
disposizione al dialogo, su cui il curatore Velio Abati, nella lunga
introduzione, scrive parole interessanti: per contraddire magari la
proverbiale oscurità da sempre attribuita a Fortini, quando non era
egli stesso a rivendicarla vigorosamente, come nel corso d'una
memorabile polemica con Parise, il sostenitore integerrimo della
semplicità e della chiarezza. Riflettiamo ancora un attimo su questa
disponibilità al dialogo, sulla nozione stessa di dialogo, per come
Fortini l'ha intesa: proprio certe sue dichiarazioni infatti,
rilasciate a Neva Agazzi nel 1988 per Cooperazione, possono
consentirci, credo, una prima veloce approssimazione al ritratto del
più risentito e utopico dei saggisti italiani del secondo Novecento,
di una delle intelligenze più brusche e perentorie che abbiano
calcato la scena culturale.
Fortini sta parlando del
funerale di Pinelli: «Ma quello che chiamammo '68 e in realtà fu il
'66 ed il '67, fu un periodo straordinario, non soltanto per quello
che gli studenti chiedevano per le strade o la classe operaia
cominciò con qualche ritardo ad intendere, ma per quello che
accadeva anche al di fuori di questo: si avvertiva nelle case, nelle
famiglie, nei luoghi di lavoro. Potrei chiamare questo aspetto, senza
ironia, «cinese», dove ognuno insegna ad ognuno e ognuno parla a
tutti e tutti s'impara da tutti. Questo per me è uno degli aspetti
fondamentali di quello che una volta si chiamava rivoluzione; una
sorta di enorme dialogo ininterrotto».
Le illusioni che, nel
1988, Fortini ancora nutriva sulla rivoluzione cinese e i suoi miti
assemblearistici, la fede che ribadiva per una certa pedagogia da
volontà generale, sono di quelle che potrebbero facilmente indurre
all'irritazione: senza dire, poi, della mancanza d'ironia,
orgogliosamente rivendicata, e che potrebbe costituire, a tutt'oggi,
il principale atto d'accusa contro la sua intelligenza. Ma le cose
non sono così semplici: a cominciare proprio da quell'ironia che è
diventata, ormai, il più facile degli alibi tra gli intellettuali
per dissimulare il cinismo funereo, la disponibilità a servire tutti
i padroni. M'è capitato di scriverlo già: Fortini ha fatto
dell'ideologia, sin da subito, il suo specialissimo piranesiano
carcere d'invenzione. Sicché, in quel regime di restrizione, la
realtà gli veniva continuamente sottoposta ad un feroce processo di
distorsione ottica, non perdendo nulla, però, della sua forza
d'impatto: come appunto avviene nel passo citato, laddove, se si
parla di dialogo in termini di automistificazione maoista, continuano
a vibrare le note di un'autentica pedagogia democratica, d'una
vibratile partecipazione alla vita nazionale che, negli anni ultimi,
soffertissimi ma vigili, l'avrebbero condotto a riflettere con
accanimento sulla scuola, sulle ragioni della didattica e della
manualistica. Magari per pronunciare frasi come queste, di sobria e
laicissima civiltà, che chiudono il volume: «Se dovessi fare un
augurio per il nostro paese, vedrei meglio, anziché una figura come
Pasolini, una leva di storici, filologi, sociologi, pedagoghi
orientata, soprattutto, a trasformare la scuola. La formula? Per
favore, non troppo genio. Quel che valeva prima per i traduttori,
oggi si dovrebbe applicare anche per gli scrittori e gli
intellettuali in genere. Sarebbe necessaria, in altre parole, una
profonda ecologia della cultura».
Insomma: il messianismo
di Fortini contemplò di sicuro un salto nel vuoto dell'utopia. Ma
quel salto, invece che accecarlo, gli procurò un singolare disturbo
della vista, che lo portò a vedere là dove molti brancolavano.
Questo libro, spalancato com'è su un numero non piccolo di
questioni, ne è l'ennesima riprova. Prendete la riflessione sul
ruolo della critica letteraria, tema costante in Fortini che, nel
1960 su “Nuovi Argomenti”, in anni di critica marxista e
strutturalismo (e dunque di mitologie scientistiche), guadagnava
parole di grande lucidità e suggestione: «Il critico giudica se
stesso molto più di quanto non giudichi gli altri. (Anzi, è questo
a fondare la legittimità del “giudizio di valore”, che molta
critica tende oggi a rifiutare). Mai come per il critico sembra vero
il motto evangelico: “Beato chi non condanna se stesso in quello
che approva”». Parole che non solo ribadiscono la piena assunzione
di responsabilità e la rivendicazione, alla critica vera e
antagonista, del giudizio di valore (quando tutti, incamminati sulle
strade trionfali del progresso scientifico, se ne liberavano come
d'un inutile se non dannoso anacronismo), ma che ponevano le basi più
sicure per valutare nella sua effettualità il lavoro del critico,
per definirne le eventuali aspettative di grandezza (tra i più
promettenti critici menzionati delle più giovani generazioni spicca,
su tutti, Cases, quindi Baldacci e, sorprendentemente, Bàrberi
Squarotti). Certo, Fortini si muoveva dentro una tradizione di
umanesimo marxista che faceva risalire alla cultura romantica,
presupponendo un'idea di totalità di tipo lukacsiano, ai cui
parametri riferiva il rapporto critica letteraria-società (e
politica). Ma questo non gli impedì di formulare, in polemica con le
opposte e speculari ideologie del «neobbiettivismo» e del
«neosoggetivismo» (rappresentata, quest'ultima, dall'ex amico
Pampaloni e da un giovane Citati), la più persuasiva definizione
della critica militante (o «contemporaneistica») che sia stata data
in Italia, ravvisandone già il suo punto più vero di confluenza
nella saggistica: «Esercitare la critica, svolgere il discorso
critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una
concreta e determinata occasione. Il critico allora, per questa
concezione, è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo
o dallo studioso di “scienza della letteratura”; è la voce del
senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già
fra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le
attività particolari, le “scienze particolari”, da un lato, e
l'autore e il suo pubblico dall'altro».
Tale indicazione a favore
della saggistica (e del senso comune: chi se lo sarebbe aspettato?)
in un marxista, che non era disposto a rinunciare «alla lucidità e
coerenza della discorsività storiografica e scientifica», va
sottolineata: tanto più che Fortini era diffidente nei confronti
d'una tradizione che, in Italia (da Cecchi a Longhi), aveva per lui
significato «arbitrio, falsa eleganza, belletrismo». E va
sottolineata soprattutto per come sono poi andate le cose quanto a
bilanci e revisioni: se è vero che l'ex discepolo Berardinelli (il
quale, su Fortini, ha scritto le pagine più intelligenti e feroci)
avrebbe speso molto di sé per riflettere sul genere della
saggistica, per dimostrarne l'eccellenza anche in Italia. Sentite
quello che Fortini già scriveva, proprio a dissodare il terreno che
sarebbe stato poi così ben coltivato da Berardinelli, sottolineando
per altro l'importanza, nella prosa critica, dell'«espressività» e
del «controllo lessicale-espressivo»: «mi chiedo se è possibile
che ad una formalizzazione del discorso critico o “scienza della
letteratura” possa non corrispondere anche una “forma”, nel
senso letterario della parola. M'è sempre parso che, almeno da noi,
lo studio della saggistica come forma sia stato trascurato».
Se ho insistito sulla
questione generale della critica letteraria, questo non deve far
dimenticare che per Fortini il problema doveva sempre essere
ricondotto ad un fatto di critica della cultura, quando non di
filosofia. Ne fanno fede le tante pagine dedicate a Hegel, Marx,
Nietzsche, Lenin, Croce, Gramsci, Lukàcs, Benjamin, Adorno, Brecht,
Sartre. Ma non vorrei chiudere il discorso senza accennare alla
presenza viva dei tanti amici e nemici, a cominciare dall'odiosamato
Pasolini: Vittorini e Montale (presentissimi), Sereni e Calvino, il
maestro Noventa, Cases, Mengaldo, Asor Rosa e Segre, per dire solo di
alcuni. Sono pagine che si spalancano sul carattere d'un uomo che, ci
dicono, fu difficilissimo e tortuoso. Vale la pena d'indugiare:
magari sul bellissimo dibattito che Fortini ebbe nel 1966 con Bo,
Ferrata e Crovi, per “Terzo Programma”, in occasione della morte
di Vittorini. Quel Vittorini di cui, ancora nel 1992, poteva
addirittura dire: «Vittorini torna frequentemente nei miei sogni.
Oggi forse so spiegarmene la ragione e non è una ragione
propriamente letteraria. Era il suo profilo, non so, c'era qualcosa
di sessuale in quel suo profilo, qualcosa che non tornava. Il suo
stesso giovanilismo, le difficoltà che aveva con i figli, la
tragedia della morte del figlio che aveva trattato peggio. Vittorini
era tutt'altro che casto, però aveva un'oscura vocazione alla
castità. Era...angelico».
Sono parole di
compiaciuta e provocatoria antipsicanalisi. E fanno pensare alla
storia d'un uomo complicatissimo che forse, per tutta la vita,
inseguì l'autenticità: sacrificandola però ai tempi impossibili
del socialismo irrealizzato.
“l'Unità”, 25 maggio
2003
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