Mi raccontava anni fa
Francesco Mongiardo (gli americani lo pronunciavano “Frank
Majority”), scalpellino, figlio di minatore immigrato dalla
Campania in West Virginia: “Mio padre sbarcò a New York nel 1902.
Dopo passato il controllo immigrazione, l’hanno mandati alla
stazione centrale e lì nessuno sapeva l’inglese, e gli hanno messo
delle targhette al collo con la destinazione – come bestiame,
insomma. E li hanno marcati per il West Virginia. L’hanno messi sul
treno, e spediti in West Virginia.”
Li chiamavano blue
trains: treni con i finestrini verniciati di blu, così che gli
immigrati spediti a destinazione ignota non vedevano neanche dove
stavano andando. Continua Frank Majority: “Arrivarono che era
notte. A Beckley, credo, nel centro dei giacimenti di carbone. E lì
accanto, lungo i binari, c’erano fornaci aperte che bruciavano il
carbone per fare il coke. I fuochi accendevano il cielo e mio
padre non aveva mai visto niente del genere. Vedevano quei fuochi e
quando scesero dal treno videro un nero, grande e grosso, con una
sbarra d’acciaio in mano, tutto sudato, che lavora il coke, e
pensarono: Siamo arrivati all’inferno, e questo è il diavolo.
Erano ragazzi, non avevano mai visto una cosa simile, in un paese
sconosciuto…”.
L’inferno in West
Virginia c’era per davvero: nel 1903, il console d’Italia
protestò presso il governo americano (erano altri tempi!) per le
condizioni di semi-schiavitù in cui erano tenuti gli immigrati
italiani in West Virginia. Non solo loro: “Medievale West
Virginia!,” inveiva Mary “Mother” Jones, leggendaria
sindacalista dei minatori americani: “quando arrivo in paradiso,
voglio parlare a Dio del West Virginia.”
In West Virginia, nel
1921, c’era la guerra civile: i minatori in rivolta armata si
scontravano con gli eserciti privati dei padroni (i “contractors”
di allora), e la nascente aviazione militare americana sperimentava
su di loro la guerra aerea e i bombardamenti (per fortuna, in modo
fallimentare). Nel 1912, a Paint Creek e Cabin Creek, i minatori si
erano ribellati contro il potere feudale delle compagnie minerarie,
la complicità delle istituzioni, la violenza della repressione, e
per la prima volta avevano conquistato i diritti sindacali. E il 6
dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, il più tragico disastro
minerario della storia degli Stati Uniti aveva ucciso 361 uomini, di
cui 171 italiani, provenienti soprattutto dal Molise, dall’Abruzzo,
e poi da tutte le regioni dell’Italia meridionale.
Il Ministero degli Esteri
ricorda il centenario di questa “tragedia dimenticata” (non da
tutti, non da tutti!) con una ricca e documentata pubblicazione. Mi
fa un po’ dissonanza la carta patinata, il “comitato per le
celebrazioni” (celebrazioni?) zeppo di autorità. Ma mi commuove la
poesia in epigrafe, del poeta immigrato Efrem Bartoletti, figlio di
mezzadri umbri, per la fosca ingenuità del tono (“Quale bocca
infernal fumida e nera \ e ripiena di Morte e di sciagura…”) ma
anche perché è datata Hibbing, Minnesota, 1912 – lo stesso anno
dello sciopero di Pant Creek e Cabin Creek, e la stessa città
mineraria dove, trent’anni dopo, sarebbe nato Robert Zimmerman,
detto Bob Dylan.
Soprattutto, sono di
grande utilità l’appendice documentaria e molti dei saggi che
costituiscono la parte più importante del libro. Così, Norberto
Lombardi colloca Monongah in un contesto terrificante di massacri sul
lavoro, con migliaia di vittime, compresi tantissimi italiani: “La
tragedia di Monongah è… solo l’apice di un percorso cadenzato di
lutti e di dolore… che denota una strutturale esposizione ai rischi
e la mancanza di efficaci regole d protezione e di controlli.”
Potrebbe averlo scritto adesso: Monongah non è lontano da Newurgh,
dove morirono 38 mintaori nel 1886, o da Fairmont, dove nel 1968 ne
morirono 78 minatori. Il disastro più recente, in Wet Virginia, è
del 2006: dodici morti. Ma ho fra le mani il ritaglio di un giornale
di quelle parti che dice, i disastri con molte vittime fanno notizia,
ma in miniera si muore uno alla volta, tutti i giorni (ci vuole la
strage della Thyssenkrupp a Torino perché media e politici si
accorgano dei nostri morti quotidiani).
Ancora: Andreina De
Clementi collega la vicenda degli italiani di Monongah alle ragioni
storiche dell’emigrazione dalle campagne italiane; Rudolph Vecoli
riassume la storia delle lotte e descrive le condizioni feudali a cui
si ribellavano i minatori (“In queste company towns i baroni
del carbone controllavano tutto, le capanne, le botteghe, i servizi
sanitari, le scuole e le chiese, e talvolta anche lo stesso pensiero
dei lavoratori. La paga degli operai non era in dollari correnti ma
in script della compagnia”, redimibili solo allo spaccio aziendale
dove ogni aumento di salario era compensato da un equivalente aumento
dei prezzi. Stefano Luconi allarga lo sguardo a tutte le lotte degli
operai italiani negli Stati Uniti, dai sigarai siciliani in Florida
alle operaie tessili di Lawrence in Massachusetts (dove inventarono
la frase “vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose”): una
storia davvero cancellata da a un’immagine oleografica,
conservatrice e sbagliata degli italo-americani promossa da
associazioni “etniche” e governanti interessati (d’altronde già
molti anni fa Bruno Cartosio aveva parlato di queste vicende come
componente di quel movimento operaio internazionale che troppo spesso
viene spezzettato nelle narrazioni storiche paese per paese). E poi,
l’appendice documentaria, con quei laceranti elenchi di nomi, le
lettere, la scrittura faticosa delle lettere dei migranti riprodotte
anastaticamente e quella burocratica delle istituzioni, il tira e
molla sugli indennizzi fra Washington, Stati Uniti e comuni come
Duronia del Sannio o Torella del Sannio, le fotografie, le lapidi, i
monumenti commemorativi…
Una classica canzone di
Alfredo Bandelli sugli emigranti li chiamava “i deportati della
borghesia.” Deportati, importati, contrabbandati, rispediti
indietro, ammazzati, archiviati se va bene con duecento dollari alle
vedove o ai figli. Il paragone fra gli italiani emigrati e i rumeni o
senegalesi immigrati è troppo inevitabile per avere bisogno di
sottolinearlo. A me invece viene in mente un’altra cosa. Nello
stesso anno in cui l’aviazione bombardava i minatori in West
Virginia, gli aerei inglesi bombardavano a tappeto la città di
Baghdad. Io credo che anche i morti di Monongah nel 1907 e quelli
nell’Irak di oggi sono collegati, parte dello stesso processo: una
rivoluzione industriale, una modernità, un dominio di classe che fin
dall’inizio hanno mangiato energia, e per continuare a mangiarne
massacrano le persone, dell’alto con le bombe nelle guerre per il
petrolio in Medio Oriente o nel profondo delle miniere per il
carbone. Ne sono morti ancora un centinaio, pochi giorni fa, in Cina.
il manifesto, 13.12.2007
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