«Di spose ottime e
costumate donne rigurgita l'Italia e troppo ci vorrebbe a registrarne
i trapassi, ma quante ne trovi tra cotestoro, che abbiano saputo
conquistare i cuori di tutta l'Italia e di metà dell’America e
siano state capaci di creare tanti angioli di bianca perfezione e
tanti microcosmi di nera malvagità». Così Giovanni Papini, in un
articolo sul “Resto del Carlino” del 4 dicembre 1916, fulminava
Carolina Invernizio, la regina del feuilleton italiano, con un
necrologio intinto nell’acido.
Il successo popolare
delle sue storiacce terrificanti aveva suscitato l'attenzione dei
letterati del tempo. Marino Moretti le dedica una poesia intrisa di
nostalgia adolescenziale e Guido Gozzano nel 1912 si reca a casa sua
insieme al giornalista Emilio Zanzi in occasione del 97° volume da
lei pubblicato. Quando le chiede una fotografia, la Invernizio gli
consiglia di far pubblicare la sua: «Lei è un poeta che ha molto
successo tra le signore perché scrive molto bene, è molto elegante
ed è molto giovane», e motiva il suo rifiuto dicendo: «Io sono una
signora per bene: sono la moglie di un colonnello del commissariato:
non sono una attrice, non sono una ballerina».
In effetti la sua fu una
vita tranquilla e povera di eventi. Nata a Voghera nel 1851, figlia
di un funzionario di Casa Reale, direttore delle gabelle, che con il
trasferimento della capitale a Firenze nel 1865 porta con sé la
famiglia, nel 1881 sposa il tenente dei bersaglieri Marcello
Quinterno, da cui avrà una figlia. A ventisei anni pubblica presso
l’editore Salani Rina o l’angelo delle Alpi (1877), il primo di
una serie di oltre centoventi romanzi in quasi quarant’anni di
attività. Nel 1896 si trasferisce a Torino e nel 1914, in seguito
alla promozione a tenente colonnello del marito, si sposta a Cuneo,
dove muore di polmonite nel 1916.
Moglie esemplare e madre
affettuosa, borghese onesta e cattolica fervente, ama le pellicce
eleganti e i cappellini ornati di piume di struzzo, e ha la
civetteria, perdonabile in una signora perbene come lei, di
posticipare la data di nascita di sette anni, un peccatuccio di
vanità smascherato soltanto in occasione del convegno di Cuneo a lei
dedicato e curato con inaspettato successo da Guido Davico Bonino e
Giovanna Ioli nel 1983.
Ispirate alla cronaca
nera e ai resoconti giudiziari, le sue storie di baci e lacrime,
pugnali e veleni, carezze e spasimi, vendette e tradimenti,
cortigiane dissolute e madri sventurate, ladri dell’onore e loschi
avventurieri, concluse dopo mille peripezie con la punizione dei
colpevoli e il trionfo degli innocenti, facevano palpitare il cuore
delle sue «gentili lettrici», soprattutto sartine, modiste,
cameriere, portinaie, ma anche donne della piccola e media borghesia.
«Macchine per sognare» costruite con titoli ad effetto, da
consumata esperta di marketing: La sepolta viva, Il bacio
di una morta, Il cadavere nel Po, La morta nel baule,
con un’ossessione necrofila da far invidia a Poe.
Nell’Italia umbertina e
giolittiana l’analfabetismo raggiungeva il 90 per cento e nella
capitale subalpina il 70, per cui era un’abitudine diffusa la
lettura ad alta voce nelle portinerie delle puntate che uscivano
sulla “Opinione nazionale” di Firenze e poi sulla “Gazzetta di
Torino”, non solo dei romanzi di Carolina Invernizio, ma anche dei
modelli francesi a cui si ispirava, Sue, Hugo, Ponson du Terrail,
Montépin, Ohnet.
La casalinga di Voghera
scrive cinque ore al giorno ogni mattina e, come Simenon, impiega non
più di una settimana per ogni romanzo, con minime correzioni. Usa un
lessico povero, una sintassi da maestrina, aggettivi banali, ignora
il chiaroscuro, la sfumatura, esaspera i contrasti con l’uso delle
figure retoriche dell’antitesi, dell’iperbole e del-l’ossimoro
(«angelo tenebroso», «orrida gioia», «terribile piacere»,
«deliranti carezze»).
Questa «onesta gallina
della letteratura popolare», come la definì Gramsci, credeva
nell’«efficacia del romanzo nell’educazione delle masse»,
fedele a una vocazione pedagogica tipica della cultura dell’epoca,
da De Amicis a Carducci. La triade Dio-Patria-Famiglia, fulcro
ideologico dell’Italia postunitaria, viene utilizzata dalla
Invernizio per esaltare soprattutto il mito della famiglia,
attraverso i valori dell’onore e del decoro, dove trionfa la donna
come angelo del focolare. L’uomo, che sia un giovane onesto o un
seduttore libertino, è soltanto un burattino manovrato da lei, utile
alle esigenze della trama e nulla più.
Non c’è traccia nei
suoi romanzi dell’Italia di Crispi e di Giolitti, con gli scandali,
le repressioni, le imprese coloniali, e sono rari i riferimenti a
eventi storici: l’attentato a Umberto I ne Il figlio
dell’anarchico (1901), il processo alla Contessa Lara in Lara
l’avventuriera (1909), la guerra di Libia in Odio di arabo
(1912), e la Grande Guerra ne La fidanzata del bersagliere
(1916).
Col suo «faccino da
gatto soave» (Toti Scialoja) sapeva infiammare l’immaginazione
femminile che, come ha rilevato Ceronetti, «non è eccitata da quel
che è curioso, ma piuttosto dalla ripetizione dell’usuale»,
cesellando come merletti truculenti delitti d’alcova, mentre
Salgari sul le rive del Po fantasticava di duelli e arrembaggi.
“Tuttolibri – La
Stampa”, 4 marzo 2011
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