Cesare Cases concluse la
sua carriera di professore universitario il 16 maggio 1990 a Torino,
tenendo lezione a un pubblico vasto e attento. Il testo fu pubblicato
il mese successivo su “linea d'ombra” onde ne ho ripreso un ampio
stralcio. (S.L.L.)
Queste manifestazioni
sono sempre un po’ equivoche perché pretendono di essere
un’“ultima lezione” (e io ho scrupolosamente ingannato i miei
studenti presentandogliela in questo modo), mentre in realtà
assomigliano al canto 46 dell'Ariosto. Giunto in porto dopo lunga
anche se poco perigliosa navigazione, il docente universitario vede
una quantità di vecchi conoscenti che lo festeggiano allineati sulla
riva e li riconosce uno a uno, esclamando come l’Ariosto: “Oh di
che belle e sagge donne veggio,/ oh di che cavallieri il lito
adorno./ Oh di che amici, a chi in eterno deggio/ per la letizia
ch’han del mio ritorno!”. Non starò a elencare le dame e i
cavallieri che riconosco tra gli astanti, ma qualcuno devo pure
menzionarlo, e ricordare anzitutto che molti che oggi qui riveggo
hanno assistito anche alla partenza della nave, cioè alla mia
prolusione accademica a Pavia il 12 marzo 1968.
Prolusione memorabile per
più di una ragione. Fu quasi certamente l’ultima prolusione
accademica tenuta in una facoltà umanistica per molti anni. La
rivolta studentesca imperversava dappertutto e di lì a pochi giorni
doveva estendersi anche a Pavia. Ma in quel momento Pavia era ancora
un’oasi di tranquillità e mi ricordo che un giovane collega, il
grecista Diego Lanza, mi raccontò come a Milano non volessero
credere che lui doveva recarsi a Pavia allo scopo di assistere a una
cerimonia che sembrava appartenere a un passato irrecuperabile. La
mia navicella, che presto doveva affrontare la tempesta, cominciò a
muoversi in una situazione di eccezionale bonaccia, addirittura sotto
il segno del ritorno al patrio suolo. Milanese, tornavo dalle mie
parti dopo molti anni di assenza e pochi giorni prima di me aveva
tenuto la sua prolusione l’italianista Dante Isella, che era stato
presentato dall’ottima preside, la latinista Enrica Malcovati, con
particolare fervore perché, come ella sottolineò, aveva entrambi i
genitori lombardi. Di me non poteva dire altrettanto, avendo io una
madre piemontese, e poi essendo germanista ero troppo compromesso con
il Barbarossa per salire sul carroccio della lega lombarda. Ma ebbi
ugualmente l’abbraccio della Preside che mi legò al collo una
medaglia dell’ uni versità di Pavia. La prolusione fu poi del
tutto degna della sua eccezionalità. Parlai dei rapporti tra
Lichtenberg e Volta nell’aula voltiana, una bellissima aula
neoclassica in cui il grande scienziato aveva tenuto le sue lezioni.
Mi ero preparato bene sull’argomento e per quanto talvolta il piede
forcuto mi uscisse da sotto la toga accademica, in complesso sembravo
degno di portarla.
Sarebbe stata però una
vittoria contro la natura, che forse non mi predestinava alla
carriera accademica e che secondo Orazio ritorna anche quando si
tenta di espellerla con il forcone. Nelle severe aule pavesi avrei
dovuto consacrarmi interamente alla scienza. Così non fu. Portato
più verso l’insegnamento che verso la ricerca, quei pochi studenti
della Facoltà di Lettere che seguivano i corsi di tedesco mi
intimidivano più che stimolarmi e con il movimento studentesco, per
cui provavo simpatia, avevo rapporti quasi esclusivamente politici.
Per questa e per altre ragioni accettai volentieri la proposta, che
risaliva al compianto Sergio Lupi prima della sua morte precoce ed
era caldeggiata dal preside Quazza e da altri amici, di passare a
Torino alla Facoltà di Magistero, allora frequentata da moltissimi
studenti di lingue (rarefattisi negli ultimi anni per una di quelle
misteriose ragioni che regolano le variazioni di afflusso alle nostre
università) e imperniata sulla didattica, grazie all’apertura
verso le esigenze dei discenti voluta dal preside e incarnata dalle
allora assistenti e ora colleghe Ursula Isselstein e Anna Chiarloni,
separate poi dalle vicende accademiche (in quanto la Chiarloni passò
alla Facoltà di Lettere) ma riunite qui sulla proda dell’aula 39 a
celebrare quelli che Mallarmé chiama i tristi addii dei fazzoletti
insieme ad altre valorose collaboratrici che mi hanno assistito e
spesso totalmente surrogato in questi vent’anni sia
nell’insegnamento linguistico che in quello letterario: Renata
Buzzo Margari, Consolina Viglierò, Grete Buchgeher Coda. Né si
limitano a sventolare fazzoletti, poiché, grazie soprattutto
all’attività di curatrici delle due prime, mi hanno fatto trovare
all’approdo un volume a me dedicato che contiene un’antologia
della lirica tedesca del Novecento con interpretazioni di eminenti
colleghi molti dei quali sono qui presenti: un analogo dunque del
volume sul romanzo del Novecento curato da Baioni, Bevilacqua, Magris
e me per i settant’anni di Ladislao Mittner. Di questo volume, e
delle molte fatiche durate per prepararlo, mi è grato ringraziarle
qui pubblicamente, così come dell’idea di avermi voluto
festeggiare con un libro destinato non a pochi intendenti, ma a molti
discenti, grazie anche all’appendice di Ursula Isselstein che è un
primo tentativo di trattazione dei problemi della metrica tedesca a
uso degli studenti italiani. Non posso quindi che rallegrarmi di aver
trovato a Torino, sia come collaboratori che come studenti di
Magistero, pochi o punti cavalieri e molte di quelle belle e sagge
donne che l'Ariosto prediligeva.
Il nome appena rammentato
di Ladislao Mittner mi richiama al dovere, cui ottemperò non
l’Ariosto, sibbene Goethe, almeno per accenni, nella “Dedica”
del Faust, forse ispirata a quel canto ariostesco, di
ricordare dopo la fine della navigazione i nomi di coloro che l’hanno
favorita senza poter essere qui tra noi: Mittner anzitutto, il
maestro di tutta una generazione di germanisti; il mio maestro
personale Carlo Griinanger; Alessandro Pellegrini, mio predecessore a
Pavia; Sergio Lupi, maestro dei colleghi di lettere Claudio Magris e
Luigi Forte e delle colleghe torinesi; ma soprattutto i giovani amici
che per età e virtù avrebbero avuto tutti i diritti di lasciarsi
molto addietro la navicella della mia vita se la loro non fosse stata
travolta da un destino crudele. Penso a Mazzino Montinari, a Giorgio
Sichel, a Furio Jesi, a Ferruccio Masini e ad altri immaturamente
scomparsi. Il compassato tono accademico con cui li evoco serve a
celare la commozione che mi afferra al loro ricordo.
È questa del resto
talvolta la funzione della screditata toga accademica e del non meno
screditato tono paludato, poiché contrariamente alle opinioni
correnti anche i professori sono spesso esseri umani. Più difficile
mi riesce celare il piede biforcuto passando a trattare l’argomento
annunciato, poiché già il titolo tradisce visibilmente l’ironia.
La tradisce doppiamente: nella forma, poiché l’insigne germanista
genovese Giovanni Angelo Alfero, rendendo in italiano il titolo della
prolusione tenuta da Schiller all’Università di Jena Was heisst
und zu welchem Ende studiert man Universalgeschichte? con Che
cosa sia e a qual fine si studi storia universale, non solo
manteneva l’omissione dell'articolo, normale in tedesco ma a mio
parere illegittima in italiano, ma usava quel congiuntivo
latineggiante nell’intitolazione che sembra difficilmente
sopportabile perfino a un passatista come me. Del resto l’esempio
più celebre di questo uso resta il famoso volumetto Perché la
letteratura italiana non sia popolare in Italia di Ruggero
Bonghi, di cui si disse che dava la risposta già nel titolo, grazie
appunto a quel congiuntivo sentito già come obsoleto in quel tempo
(1855). Ma l’ironia sta anche nel titolo che presuppone certezze
scientihche e didattiche in cui oggi stenteremmo assai a sperare.
Schiller tenne le due conferenze, poi riunite in una, il 26 e il 27
maggio 1789, dunque quasi esattamente 201 anni fa. Non c’è bisogno
di ricordare quale avvenimento fosse alle porte, tale da segnare
l’inizio di un nuovo capitolo della storia universale, anche se
oggi si pretende che ne andrebbe espunto come quello che sarebbe
servito da freno anziché da stimolo al progresso civile.
Schiller non poteva
prevedere tale avvenimento, ma certo il suo discorso è pervaso da un
pathos ottimistico che accetta pienamente le più sfrenate speranze
illuministiche, tanto che ripubblicando la prolusione nel 1792, cioè
nello stesso anno in cui “le Sieur Gilles” (come veniva chiamato
nel documento) era stato nominato cittadino onorario della Repubblica
Francese, egli dovette attenuare qualche espressione. Per esempio là
dove si legge: “La società statale europea sembra tramutata in una
grande famiglia. Gli inquilini possono essere nemici gli uni degli
altri, ma, speriamolo, non possono più dilaniarsi”, lo speriamolo
è un’aggiunta. Oppure quando si parla della pace religiosa
instaurata da Carlo V e rotta dalla guerra dei Trent’anni, si dice
che “una nuova pace generale (cioè quella di Westfalia) dovette
ristabilirla per secoli”, ma nella prima edizione si diceva
imprudentemente “per l’eternità”. Già i secoli erano
abbastanza inverosimili, ma qui, con la constatazione che Schiller
era un inguaribile ottimista storico, possiamo abbandonarlo al sub
destino di storico, che non fu facile, perché fu subito contestato
da un preesistente ordinario di storia e costretto a chiamarsi
professore di filosofia pur continuando a insegnare storia. I frutti
di questo insegnamento furono due libri sulla storia della rivolta
dei Paesi Bassi e sulla guerra dei trent’anni di cui Niebuhr si
chiedeva come si potessero seriamente chiamare opere di storia e che
in effetti oggi servono soltanto a commentare i drammi che Schiller
scrisse su questi sfondi storici. Resta il fatto che Niebuhr, storico
scientifico, era poco leggibile, e quindi volendo si potrebbe fare
una digressione, valida anche per la storia letteraria, sul conflitto
tra storia come scienza e storia come narrazione, recentemente
indagato per le nostre discipline in un libro di Remo Ceserani,
intitolato appunto Raccontare la letteratura.
Ma più interessa allo
scopo dichiarato di definire, per quanto umanamente possibile di
questi tempi, l’essenza o lo spirito della letteratura tedesca, la
prima parte dello scritto schilleriano, in cui ancora non si parlava
di storia ma solo dell'atteggiamento che il nuovo professore
richiedeva dagli studenti di fronte agli studi, e che poteva essere
quello del “dotto di professione (come Alfero traduce la più
vigorosa parola tedesca Brotgelehrte, “dotto che pensa al
pane”) ovvero quello della “mente filosofica” (philosophischer
Kopf). Il primo, afferma Schiller, al suo ingresso nella carriera
accademica non trova cosa più importante che distinguere
accuratamente quelle scienze che egli definisce professionali da
tutte le altre che dilettano lo spirito soltanto come spirito. Tutto
il tempo che egli dedicasse a queste ultime, riterrebbe di sottrarlo
al suo mestiere avvenire e non potrebbe mai perdonarsi questa
sottrazione.” “Uomo degno di compassione — esclama poi Schiller
—, che col più nobile di tutti gli strumenti, con la scienza e con
l’arte, non vuole e non opera cosa più alta di quella che il
bracciante compie con lo strumento più modesto.” “Come
diversamente — prosegue il nostro pensatore—stanno le cose per la
mente filosofica! Con la stessa cura con cui il professionista del
sapere scinde là sua scienza da tutte le rimanenti, egli cerca
invece di estenderne il campo e di ristabilire il vincolo di questo
con tutti gli altri campi — ristabilire, dico, poiché soltanto
l’intelletto che astrae ha posto quei limiti, ha separato l’una
dall’altra quelle scienze.”
“Linea d'ombra”,
giugno 1990
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