Cinquanta anni ci
separano dal 1968, tanti quanti separano quell’anno dalla prima
guerra mondiale e dalla rivoluzione di ottobre. Un abisso storico.
Sufficiente a decretare la piena inattualità di quella stagione.
Anche se, come i movimenti degli anni ’60 e ’70 non mancarono di
fare, dal passato, anche il più inattuale, è pur sempre possibile
trarre ispirazione. Dalla comune di Parigi e perfino dalla ribellione
spartachista.
Gli anni della
contestazione sono diventati insomma, di decennale in decennale, un
periodo storico indagato, ricostruito, interpretato a più riprese e
da diversi punti di vista. Oppure l’oggetto di nostalgie talora
compiaciute, talaltra risentite. Non resterebbe dunque che mettersi
nella scia della tradizione storiografica o memorialistica più
vicina alla nostra sensibilità politica in cerca di qualche aspetto
e significato rimasto fino ad oggi in ombra. Se non fosse che un
riferimento costante a quell’anno pervade insistentemente tutta la
più recente storia politica in buona parte del mondo. Si tratta
dell’odio per il ’68, reale o immaginario, schiacciato su questa
o quella lettura del suo «spirito», della «leggenda nera» che gli
è stata ricamata addosso e che, più o meno manifestamente, sottende
il discorso pubblico dominante e gran parte delle cosiddette
«riforme» dell’ultimo trentennio. È dunque l’attualità di
questa avversione che meriterebbe di essere presa in esame.
Ad ogni anniversario
rifiorisce contrapponendosi alle celebrazioni, una pubblicistica
alquanto mediocre che si vorrebbe «controcorrente» anche se, in
realtà, asseconda pienamente il «revisionismo» dominante. Neanche
un autore originale e acuto come Mario Perniola è sfuggito a questo
vezzo con il suo Berlusconi o il ’68 realizzato del 2011,
nel quale fa del rifiuto della cultura, delle competenze e di ogni
limite oggettivo la cifra caratteristica del mondo sessantottino.
Questa pubblicistica, non solo italiana, è accomunata dal guardare
agli eventi, alle idee e agli stati d’animo dei movimenti
dell’epoca in un ottica essenzialmente nazionale che, nel
frammentare il fenomeno per poter emettere la propria sentenza, perde
completamente d’occhio la complessità del passaggio storico nella
sua dimensione globale.
Ad ogni buon conto i
fustigatori del’68 si dispongono lungo due direttrici argomentative
prevalenti. La prima imputa alla gioventù ribelle di quella stagione
la responsabilità di aver aperto la strada, con il suo
individualismo narcisistico e la sua insofferenza nei confronti di
ogni regola, nonché con il suo radicale antistatalismo, alla
deregulation neoliberista e al trionfo della competitività. Pionieri
di un anticomunismo insidioso e vincente nel suo sventolare le
bandiere rosse e brandire la falce e il martello. Un punto di vista
non dissimile, in fondo, da quello espresso dai sovietici sulla
Primavera di Praga.
La seconda corrente
accusa invece i contestatori di aver coltivato germi totalitari
(Unser Kampf dello storico tedesco Goetz Aly che stabiliva
improbabili similitudini tra i giovani del ’68 e quelli ’33), o,
tutto al contrario, di un anarchismo che minava ogni ordine sociale e
disciplina produttiva. In sostanza di aver mandato a rotoli il buon
funzionamento della vita in società. Attendiamo al varco chi farà
risalire al 1968 l’origine delle molestie sessuali. Agli uni e agli
altri presta ripetutamente i suoi servigi il sermone della
psicoanalisi alla moda che, afflitto dall’eclissi della figura
paterna, reclama regole, limiti e autorità. Talvolta a nome di un
perbenismo anticapitalistico, talaltra del perbenismo punto e basta.
La discreta confusione mentale che regna nei due campi, sovente
contigui o intrecciati, impedisce di attribuirli univocamente alla
destra o alla sinistra.
Ma non è tanto questa
pubblicistica, tutto sommato marginale, quanto una teoria
ininterrotta di scelte politiche concrete a incarnare l’avversione
per il ’68 e a decretarne l’attualità. La lunga sequenza delle
riforme della scuola e dell’università che di fallimento in
fallimento le ha condotte alle misere condizioni in cui versano oggi
non si spiegherebbe se non attraverso questo filo conduttore.
Nessun’altra logica se non quella di cancellare lo spettro del
Sessantotto può dar conto di un’insistenza così povera di
risultati.
Irregimentare i corsi di
studio nell’incertezza crescente degli sbocchi professionali,
moltiplicare gli sbarramenti e i numeri chiusi di fronte a un calo
progressivo degli iscritti, burocratizzare le procedure, istituire
pleonastici e gravosi apparati di controllo che spacciano l’arbitrio
per «meritocrazia», affidarsi a una domanda delle aziende sempre
più misera e aleatoria sono tutte scelte di natura squisitamente
ideologica al servizio di un ordine astratto e irreale alle prese con
i fantasmi del passato. Per non parlare del vertiginoso aumento delle
tasse universitarie (che non colpiscono il numero insignificante dei
ricchi, ma il vasto ceto medio impoverito) motivato da quella gretta
concezione secondo cui lo studio non rappresenta una condizione
generale di crescita dell’intera società ma un puro e semplice
investimento di capitale a beneficio dei singoli in carriera.
Come spiegare, poi, il
ritorno prepotente dell’etica del lavoro nell’epoca della sua
crescente scarsità, precarietà, intermittenza? Quanto peggio pagato
e povero di diritti tanto più esaltato nel suo «valore morale».
Quanto più sostituito dalle moderne tecnologie, tanto più imposto
come fattore di riconoscimento sociale da conquistarsi con fatica e
abnegazione. Questa enfasi, in aperta contraddizione con la natura
attuale delle forze produttive, non si spiega se non come una resa
dei conti con chi pretendeva che il lavoro non dovesse più
costituire il centro della vita, il principio di identità dei
singoli e la base privilegiata della rappresentanza politica. Con chi
ne considerava l’eclissi come una conquista di civiltà.
Il Sessantotto insomma,
contro «l’uomo a una dimensione». L’alternanza scuola-lavoro
incarna perfettamente quel principio di «addestramento» (cosa ben
diversa dall’acquisizione effettiva di competenze) che la cultura
critica degli anni ‘60 aveva radicalmente preso di mira come grave
minaccia alla libertà di scelta e modalità di integrazione
subalterna nella gerarchia sociale. Alla critica del lavoro che c’era
subentra l’esaltazione del lavoro che non c’è. Alla conquista
del welfare, la disciplina punitiva del workfare.
La deregulation
neoliberista assurdamente considerata, almeno sul piano
antropologico, una conseguenza dell’individualismo libertario di
fine anni ’60, in realtà di libertario non conteneva assolutamente
nulla. Si è accompagnata infatti a una iper-regolamentazione della
vita quotidiana, a un proliferare infinito di censure, divieti,
diritti proprietari, motivati dalla volontà di porre fine alle
pretese di autodeterminazione delle soggettività politiche emerse
proprio in quegli anni e di ricondurre ogni esercizio di libertà
alla dimensione privatistica dello scambio mercantile. Né servirebbe
spendere troppe parole per spiegare come tutte le politiche condotte
sotto la bandiera della «tolleranza zero» e della sicurezza non
siano state semplicemente una crociata draconiana contro la
criminalità o le cosiddette «classi pericolose», ma una
criminalizzazione a tappeto di ogni devianza e ogni conflitto che il
decennio dei movimenti avevano valorizzato.
Per concludere questa
provvisoria ricognizione delle politiche e delle ideologie che
continuano a fare della resa dei conti con il Sessantotto buona parte
della loro ragion d’essere, non si può certo tralasciare la
riscoperta dei «valori tradizionali» nella chiave di un conformismo
xenofobo e identitario che rovescia nel suo contrario quella scoperta
dell’Altro che negli anni ’60 e ’70 aveva rappresentato un
principio critico nei confronti dell’autocelebrazione
dell’Occidente e delle sue politiche di rapina mascherate da
progresso.
La persistenza dello
spettro sessantottino è una delle diverse spie che meglio rivelano
la natura del capitalismo contemporaneo. Il neoliberismo, infatti, a
differenza del suo antenato liberale, si manifesta nella forma della
controrivoluzione. Caratteristica di una controrivoluzione non è
tanto il ripristino delle condizioni che precedevano l’insorgenza
rivoluzionaria (a prescindere dal suo grado di radicalità o di
successo) quanto la neutralizzazione o la messa sotto controllo dei
possibili fattori di cambiamento, in un processo articolato di
delegittimazione delle soggettività ribelli. Una controrivoluzione,
in altre parole, non restaura un assetto ma un corso della storia
ritenuto alterato e deviato dall’illusoria ricerca di
un’alternativa. E imputa a quella ricerca effetti grotteschi o
disastrosi. È dunque la facoltà stessa di ricercare che essa
intende abrogare. Non è un caso che un controsenso come il «non ci
sono alternative», sia diventato la colonna sonora preferita
dall’establishment.
Sia chiaro, la
controrivoluzione neoliberista si è trovata a fare i conti con una
storia ben più lunga e potente della stagione a cavallo tra gli anni
’60 e ’70, che tuttavia ha rappresentato l’ultimo momento in
cui un diverso corso (diverso anche dal socialismo d’anteguerra e
dalla sua discendenza) fu spasmodicamente sperimentato. Per questa
ragione l’«odio per il ’68» occupa un posto così importante
nel discorso pubblico e influenza ancora a distanza di mezzo secolo
le riforme politiche destinate a garantire l’ordine del mercato e
l’autorità dello stato che gli fa da cornice. Del 1968 si può
insomma pensare tutto quello che si vuole, dilettarsi a celebrarne le
virtù modernizzatrici o stigmatizzarne le distruttive illusioni, a
patto di non perdere di vista gli effetti di quella demonizzazione
implicita che ne sottende financo la celebrazione.
Ogni politica di «legge
e ordine» ha assoluto bisogno di un tempo del caos con il quale
misurarsi, del ricordo di un mondo turbolento e minaccioso che faccia
risaltare la pacificazione che essa promette sorvolando sugli
inconvenienti che comporta. Alla stagione dei movimenti è toccato in
sorte questo compito. Il «libro nero» del Sessantotto ci rivela ciò
che oggi i poteri costituiti aborriscono e temono. È la ragione per
cui vale la pena di sfogliarlo tra un decennale e l’altro.
Il manifesto – 28
gennaio 2018
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