«Se c’è una ragione per la quale scrivo, / è perché qualcuno mi salvi da me stessa»
(Alejandra Pizarnik, 30 luglio 1962)
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Questo
lillà si spoglia.
Cade da se stesso
e occulta la sua vecchia
ombra.
Morirò pressappoco così
Alejandra Pizarnik, una
delle voci più intense e originali del Novecento argentino, ha
suscitato interesse e adesioni appassionate, ma anche vivaci
polemiche: forse perché incarna uno spirito libero in tutti i sensi
e il concetto di libertà stesso custodisce semi di discordia.
Alejandra nasce a Buenos
Aires, in Argentina, il 29 aprile del 1936, secondogenita di una
famiglia di ebrei russi, studia Lettere e Filosofia e in seguito
Pittura con Juan Battle Planas. Vive e sente senza filtri,
vulnerabile soprattutto di fronte a se stessa.
Stabilisce rapporti di
amicizia con numerosi intellettuali in America e in Europa. Dal 1960
al 1964 risiede a Parigi, dove lavora per la rivista «Cuadernos» e
collabora con numerose case editrici. Alcune persone le sono molto
vicine; fra queste Olga Orozco, Julio Cortázar, Octavio Paz, la
poetessa Cristina Campo alla quale Alejandra dedica versi e con la
quale stabilisce un intenso scambio epistolare. In una serie di
lettere databili dal 1964 al 1970, Cristina le scrive della
tradizione ebraica, invitando Alejandra ad avvicinarsi ad essa, ad
incontrare altre persone e a ripensare all’esodo da sé come una
via di salvezza: fino a quando esodo e inabissamento non
coincideranno, fino ad essere «in grado di udire l’applauso di una
sola mano».
I principali lavori della
Pizarnik risalgono al periodo in cui torna a vivere a Buenos Aires.
Sono di questa epoca, infatti, I lavori e le notti, Estrazione della
pietra della pazzia e L’inferno musicale.
Nel 1969 esce La
contessa crudele (o sanguinaria), testo in prosa. Lo stesso anno
riceve una borsa di studi Guggenheim, dopo due anni vince quella
Fullbright. Traduce, fra gli altri, Antonin Artaud, Aimè Cesaire,
Yves Bonnefoy.
In Artaud trova un suo
corrispettivo: «Artaud sono io. La sua lotta con il silenzio, con il
sentimento d’abisso assoluto, di vuoto, con il suo corpo alienato,
come non associarlo alla mia lotta?» (Diario, 25 dicembre
1959, venerdì).
Studia storia delle
religioni all’Università della Sorbona.
Le sue opere testimoniano
con efficacia le varianti stilistiche dell’autrice, che raccoglie
talvolta in brevissime liriche un’unica metafora che segnala il
contrasto tra la spavalderia del mondo esteriore e un’intimità
ferita: «Scrivere una poesia – dice Alejandra – è riparare la
ferita fondamentale, lo squarcio». Oppure sceglie il poème en
prose, o la sentenza, o la pagina di diario. «Parlo come si parla in
me. Non la mia voce che si ostina ad assomigliare a una voce umana ma
l’altra voce che attesta che non ho smesso di abitare nel bosco».
Questa giovane donna
ospita in sé un immenso abisso, come un fiore del male dalle radici
piantate nel vuoto. Un vuoto fatto di inquietudine, disagio e
consapevolezza che tenta di placare attraverso una passione quasi
ossessiva per la lettura e per la scrittura.
Sarebbe riduttivo
indicare nella sua ricerca di identità, data la sua origine di ebrea
russa e la sua condizione di figlia di immigrati in Argentina, la
genesi del suo complesso e disperato approccio all’esistenza anche
se questo tema doloroso la scorterà per tutta la vita. Una serie di
ragioni manifeste e nascoste preparano una sorta di sottobosco della
coscienza nel quale crescono giorno dopo giorno i semi insensati di
un addio alla vita. Anche se non è ragionevole pensare che tutta la
sua poesia si possa spiegare come un percorso verso una morte
cercata, sembra, a 36 anni per un’overdose di Seconal il 25
settembre del 1972, dopo quattro mesi trascorsi in un ospedale
psichiatrico e anni di depressione e di tentativi di suicidio.
Il suo paese fu
risucchiato nella dittatura in una spirale di torture e violenze che
inghiottì decine di migliaia di vite, trasformando l’Argentina in
un labirintico castello di Csejthe dimora della Contessa Bathory,
protagonista dell’unica opera in prosa della poetessa. Oggi molti
rintracciano nel libro La Contessa Sanguinaria l’inquietante
profezia dello sterminio che ha violentato la gioventù di un paese e
fatto scempio della sua innocenza.
Lo stile della Pizarnik,
solo in apparenza semplice, quasi contratto, nasconde in realtà una
ricerca letteraria accurata, che guarda a Nerval e Blake, maestri
della poesia visionaria, onirica e notturna.
Ci sono poeti che
sembrano dover rappresentare con la loro esistenza l’icona della
morte. Della morte indossano la livrea ombrosa, ed essa dimora
latente in tutti i loro gesti e nella loro impossibilità di ridere
davvero. Il suo sorriso infatti, appare malinconicamente autoironico
e incapace di celebrare le vuote ritualità dell’esistenza.
Ricostruire la sua biografia al di fuori della scrittura non sembra
possibile. Non vi sono, infatti, eventi significativi. Pochi sono gli
incontri di cui parla Alejandra. Gli amori sono raccontati solamente
nella loro impossibilità. La solitudine è sempre presente nelle
pagine che tradiscono il sentimento di perdita, d’abbandono senza
fine. Il vuoto tuttavia richiama la materia. Sembra questa una delle
ragioni più plausibili per le quali la poesia della Pizarnik è
stata considerata materiale, fisica, talvolta quasi “animale”.
Forse in assenza di un’esistenza che fatica a realizzarsi, la
poesia diventa una rappresentazione della vita negata.
La ricerca di una
“perfezione poetica” per Alejandra Pizarnik è in contrasto con
ciò che vive, che è perennemente incompiuto. La consapevolezza di
un’innocenza perduta, le dà la misura del non ritorno,
dell’impossibilità di tracciare strade nuove che riscattino
l’anima e i sogni.
dal sito "Enciclopedia delle donne"
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