Nel gennaio dell'anno
1947 si ebbe in Italia un singolare evento culturale. Che non scosse
però tutto il Paese. Aveva altro per la testa. Nel gennaio 1947
l'Italia non aveva ancora la sua Costituzione. La stava preparando
un'Assemblea Costituente, eletta il 2 giugno dell'anno prima. Quando
si era deciso - contestualmente - di mandare a casa la Monarchia e di
proclamare la Repubblica. Tutto era da ricostruire, tutto era
precario. Non si sapeva da che parte rigirarsi per aiuto e consiglio.
La copertina della “Domenica del Corriere” (numero 3 del 19
gennaio 1947) mostrava Alcide De Gasperi in piedi dinanzi al
Congresso americano. Dov'era andato a chiedere aiuti per l'Italia. Li
avrebbe ottenuti, anche in grazia della sua dignitosa, austriaca
compostezza. Non ci sono statistiche, ma di certo la frase che più
si sentiva borbottare in giro era: "Si stava meglio quando si
stava peggio". Con chiaro riferimento al Fascismo, che pure
veniva ufficialmente aborrito. In effetti, si stava piuttosto male.
Ci si arrangiava. In cucina trionfava l'arte degli avanzi.
Frigoriferi e scaldabagni erano di là da venire. Gli uomini si
radevano un giorno sì e un giorno no. Per pigrizia. Ma anche per
risparmiare sul sapone da barba e sulle lamette: costosissime e
taglientissime. Le donne - specie le ragazze, specie nei piccoli
centri - portavano una benda bianca arrotolata intorno al polpaccio,
quando avevano il loro periodico, femminile malessere. Per indicare
la loro indisponibilità al mondo? Per segnalare la loro preziosa
fragilità? E chi può dirlo, chi lo sa. Nelle città le camionette -
romantiche ed approssimative - stavano cedendo il passo, non senza
qualche episodio di eroica resistenza, ai mezzi pubblici che
tornavano timidamente ad affacciarsi sulle strade. Ci si consolava
con il Varietà. In ogni spettacolo di varietà - piccolo, medio o
grande - c'era una scena ricorrente, di rigore. Si presentavano sul
proscenio i rappresentanti dei vari partiti - comunisti,
repubblicani, socialisti, liberali, azionisti, democristiani - e
promettevano di non discutere più, di non litigare più. Di
procedere d'amore e d'accordo. Poi compariva il comico per dire: ve
lo credevate, ehé Ma figuriamoci, questi continueranno a litigare
ancora. Quindi gran finale: "W Trieste italiana" fra
applausi scroscianti (Trieste, difatti, non era ancora tornata all'
Italia).
In quell'Italia rustica
ed arcaica, risentita e incerta; ancora sgomenta per la fine del
Fascismo, ancora non abituata alla pratica della democrazia ("ma
perché non si mettono d' accordo, invece di discutere?") chi
volete che badasse alle riviste letterarie? Eppure c'erano. Eppure
facevano discutere: s'intende, fra quei pochi o pochissimi che le
compravano. Usciva per esempio una volta al mese “La Rassegna d'
Italia”, diretta da Francesco Flora. Un professore di gran nome.
Autore di una monumentale Storia della Letteratura Italiana:
molto citata, molto temuta, e quindi pochissimo letta, nelle scuole
di ogni ordine e grado. Fu nel numero di gennaio del 1947 che
l'evento si materializzò. Sotto forma di uno scritto di Benedetto
Croce. Il Senatore Croce. Il sereno, olimpico filosofo Benedetto
Croce. Altro che sereno. Altro che olimpico, il senatore Croce. Quel
suo scritto (Rancori letterari sotto vesti politiche) era una
stroncatura feroce, una strapazzata impietosa. Ai danni di chi? Ai
danni - lo anticipo - di una persona che non se lo meritava. Di uno
studioso e scrittore di gran valore. Di una delle stelle del
firmamento letterario italiano nella prima metà del Novecento. Di
Giuseppe Antonio Borgese. Che si era fatto conoscere con la Storia
della critica romantica in Italia (1905). Si era affermato con La
vita e il libro (1910-1913). Si era fatto amare per un singolare
romanzo, Rubé, pubblicato nel 1921. Poi, siccome il Fascismo
proprio non gli piaceva, se n' era andato ad insegnare in America.
Che cosa gli rimproverava
Benedetto Croce, che pure gli era stato amico, ne aveva promosso la
carriera agli inizi? Tutto. Di tutto. Di essere intellettualmente
dotato, ma poco applicato. Intelligente forse, ma poco diligente.
Come dicono le professoresse di certi scolari disobbedienti. Di
essere stato sì, all'estero; ma non già per studiare nelle
biblioteche ("Egli non studia da oltre quarant'anni"). Di
essere superficiale, narcisista, esibizionista. Fors'anche
opportunista. E poi, santiddìo, aveva scritto per i giornali. "Poco
paziente e poco attento lettore delle opere di cui giudicava e per le
quali non cercava la verità ma la ' trovata' che gli servisse per l'
articolo". Che vergogna. È vero, aveva scritto anche quel
romanzo Rubé di cui era difficile - proprio difficile,
persino a Benedetto Croce - negare l'importanza. Ma il Senatore Croce
lo fulminava con un epigramma: "Per comporre il romanzo di un
malato / dal più cupo egoismo travagliato / grande fatica Borgese
non fé / copiò se stesso e si chiamò Rubé".
Si dà ora il caso che il
romanzo Rubé di Borgese venga scoperto, tradotto e pubblicato
dai francesi. Con convinzione, con entusiasmo. "Une grande
oeuvre, unique". In questi termini ce ne informa René de
Ceccatty in Le Monde di venerdì 9 giugno. Ecco una buona ragione per
andare a cercare in biblioteca quella grottesca stroncatura crociana
del dopoguerra. Ecco una buonissima ragione per leggere o rileggere
quel romanzo incriminato (da Croce, ieri) ed oggi dai francesi
esaltato. Non è difficile. Può farlo chiunque. Il Rubé di
Borgese si trova in libreria, ristampato ancora una volta l'anno
scorso nei Classici Moderni Oscar Mondadori. E non costa molto. 400
pagine per 13.000 lire. Alla rilettura, il Rubé di Borgese si
conferma come uno dei cinque (o sette), romanzi veramente
significativi del Novecento italiano. Tiene bene il suo posto, fra Il
fu Mattia Pascal di Pirandello (1904) e Gli indifferenti
di Moravia (1929: gli altri, cominciando ovviamente da La
coscienza di Zeno di Italo Svevo del 1923, li aggiunga ciascuno
come vuole, secondo il suo gusto).
Ci sono, nel Rubé
di Borgese le case e le strade, gli uomini e le cose: soprattutto i
sentimenti di quel tempo. Ci sono gli umori e i torvi malumori dei
primi decenni del Novecento. C'è quella diffusa nevrastenia
psicomotoria, quella insofferenza per tutto, quella insoddisfazione
di tutto che aveva contagiato la borghesia intellettuale di allora.
"Quella infelicissima borghesia intellettuale e provinciale":
come si esprimeva Giuseppe Antonio Borgese, proprio lui, che a quel
ceto sapeva benissimo di appartenere. Socialismo comunismo fascismo
diventano obiettivi e strumenti intercambiabili per placare questa
irrequietezza febbrile e generica. Andiamo a prenderci la Libia,
adesso che la grande proletaria si è mossa. Ma no, organizziamo un
bello sciopero generale. Ma sì, andiamo a combattere con gli arditi
sul Piave. Ma no, occupiamo le fabbriche. Ma sì, facciamola questa
Marcia su Roma. Di questi umori instabili e rabbiosi anche Filippo
Rubé, giovane avvocato siciliano trasferitosi sul Continente, è
ampiamente infetto. È indolente e frenetico. Oscilla fra abulia e
impazienza. Di qui i suoi amori sbagliati, il matrimonio
sbagliatissimo, le ambizioni strozzate, una carriera atrofizzata. È
un inadatto alla vita. È "un uomo mancato". Benedetto
Croce aveva ragione; questo è "il romanzo di un malato / dal
più cupo egoismo travagliato". Ma dimenticava - con molta
ingiustizia - don Benedetto che il Rubé di Borgese è un
malato che sa di esserlo. Che di esserlo non si compiace per nulla.
Non si piace per niente. Non si perdona di esser fatto com'è fatto:
"Io lo so dove sarebbe la mia redenzione; diventare contadino e
vangare la terra; operaio, magari alla Adsum; marinaio in un veliero
che ci metta sei mesi a fare la traversata. Ma chi mi prende? Ma che
mestiere so fare? Se sono un buono a nulla! Se sono un
intellettuale!". La sua vicenda umana, romanzesca non sa di
autoesaltazione. In nessun punto, in nessun momento. Piuttosto di
espiazione.
Gran bel romanzo, il Rubé
di Borgese. Se non è proprio un capolavoro, è solo perché l'autore
è intelligente ahimè, troppo intelligente. Laddove lo scrittore -
non lo diceva Flaubert? - dev'essere un po' sempliciotto, un po'
"bete". Il romanziere Giuseppe Antonio Borgese è
più intelligente dei personaggi che inventa. Più intelligente della
vicenda che descrive. Più intelligente - e questo è proprio
imperdonabile - persino del lettore. Costruisce il suo sistema di
rimandi, di appuntamenti, di risonanze interne (ogni romanziere lo
fa) ma poi lo esplicita. Lo esibisce. Come quando fa in modo che Rubé
incontri prima un giudice che si chiama Sacerdote, poi un sacerdote
vero e proprio. Invece di lasciare che sia il lettore a scoprire la
corrispondenza, e a trovarla eventualmente significativa, la rivela:
"Da Sacerdote sono caduto in sacerdote". Una volta scontati
questi difetti, però, Rubé rimane un gran bel romanzo.
Indispensabile per capire un bel pezzo di Storia d'Italia. E gran bel
personaggio rimane il suo autore, il saggista-scrittore Giuseppe
Antonio Borgese.
Perché allora tanta
diffusa diffidenza, tanta ostilità accumulata contro di lui: nel
1947 e negli anni successivi? Sospetto che una ragione ci sia. Non è
molto bella. Non è molto onorevole. In un saggio Il caso Borgese
apparso nel numero aprile-giugno di Nuovi Argomenti il giovane
ardimentoso critico Massimo Onofri la tira fuori. Una ragione che non
vale certo per Croce. Vale per gli altri, numerosissimi nemici,
incoraggiati purtroppo da Croce, che Borgese ha avuto. Eccola:
"L'opposizione di Borgese al Fascismo che lo portò, con
pochissimi altri, ad abbandonare la cattedra universitaria pur di non
giurare fedeltà al regime, doveva necessariamente procurargli, oltre
che l'ovvio odio dei fascisti, il risentimento di quei colleghi che
invece giurarono e che, finita la guerra, furono costretti a
riconoscere in lui un esempio di moralità rimasta sempre integra".
Dal 1947 ci separano dei
decenni, forse dei secoli. Sono cambiate tante cose, forse tutte.
Abbiamo gli scaldabagni, i frigoriferi, le automobili, il fax e la
televisione. Gli uomini si fanno la barba ogni giorno con l'Internet
(così dicono). Le donne non hanno più di quei problemi che usavano
segnalare avvolgendo una fascia attorno al polpaccio. Anzi, per via
delle autostrade informatiche e in grazia della realtà virtuale, la
loro stessa natura, la loro fisiologia è cambiata (così si dice).
Ma certe forme - non virtuose - di ostilità malevola nei confronti
di chi è più bravo di noi, di chi si è comportato meglio di noi,
sono ancora lì. Sono ancora qui. Per poterle riconoscere nella
realtà "culturale" di ieri, il giovane critico Massimo
Onofri ha dovuto incontrarle anche nella realtà "culturale"
di oggi. È stato bravo a scoprirlo. È stato bravo a dirlo.
“la Repubblica”, 11
luglio 1995
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