Il 6 dicembre 1907
un'esplosione nei cunicoli della Fairmont Coal Company
uccise
centinaia di persone.
Almeno 171 erano immigrati dal nostro Paese
MONONGAH (West
Virginia)
Erano le dieci e trenta
del mattino del 6 dicembre 1907, quando la miniera di carbone e
ardesia di Monongah saltò in aria. In quel momento c'erano dentro
quasi mille persone, moltissimi italiani. Sopravvissero in cinque. Fu
il più grande disastro minerario d'America. E d'Italia, visto che i
nostri emigranti pagarono un prezzo superiore addirittura a
Marcinelle. Cento anni dopo, siamo tornati in West Virginia per
ritrovare la memoria di una tragedia rimasta senza un perché.
La Storia è passata di
qui cento anni fa e ha lasciato il suo segno su un ripido pendio
erboso. Il cimitero non ha un recinto, le lapidi sono messe nella
terra senza un ordine, sono sparse come fossero state gettate a caso.
Nella pancia della collina sono sepolti molti più uomini di quanti
non si possa immaginare contando le pietre tombali: in un solo giorno
le fu chiesto di accoglierne cinquecento, forse mille. Era il 6
dicembre del 1907. A Monongah, piccolo paesino tra i boschi dei monti
Appalachi, abitavano 3.000 persone, vivevano per la miniera della
Fairmont Coal Company.
Estraevano carbone e
ardesia. Ci lavoravano grandi e piccoli. Ogni uomo regolarmente
assunto e con il bottone di ottone, che riportava la sua matricola,
appuntato sul petto portava con se almeno due aiutanti, erano
adolescenti o bambini, la loro discesa sotto terra non era registrata
da nessuna parte. Pochissimi furono riconosciuti. Arrampicandoci sul
crinale ne troviamo uno: "Qui è che giace Giuseppe Colarusso,
in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10.
Suo fratello Michele pose".
Gli adulti guadagnavano
10 centesimi l'ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla
quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in
baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza,
pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.
Quel venerdì mattina
alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva
le gallerie, non si è mai saputo perché e le inchieste non hanno
trovato responsabili. L'esplosione fu terribile e si propagò per
centinaia di metri dalla galleria otto alla sei. Sopravvissero in
cinque, per gli altri non ci fu scampo. Il boato si sentì a trenta
chilometri di distanza. Ci vollero molti giorni per recuperare i
corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte
irriconoscibili.
Venne allestita una
camera mortuaria nella sede della banca, un luogo di cui nessuno si
fidava tanto che i morti avevano i risparmi arrotolati nella cintura.
Quando fu piena si cominciò ad allineare i cadaveri sul corso
principale. Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca
di qualche segno di riconoscimento. Le scarpe, una giacca, i segni
della barba. Alla fine soltanto 362 ebbero un nome e il diritto alla
lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il
carbone.
Su sei vagoni ferroviari
arrivarono 500 casse di legno. Il sindacato dei minatori disse che
tanti erano state le vittime, i giornali arrivarono a parlare di
mille morti. Di certo ci furono 250 vedove e un migliaio di orfani.
La moglie di Carmine Ferrario era incinta di due mesi quando la
minierà crollò, sulla lapide fece scrivere: "A Carmine nato a
Vacri Chieti, vittima del disastro di Monongah, la moglie desolata
pose". Otto mesi dopo fece aggiungere: "Il figlio Carmine
di mesi uno seguì il padre nella tomba il 9 agosto 1908". La
pietra si era spezzata esattamente a metà, oggi l'hanno aggiustata e
padre e figlio sono tornati insieme.
Fu il più grande
disastro minerario della storia americana. E di quella italiana. 171
dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese. Più che a
Marcinelle, in Belgio dove nel disastro del 1956 morirono 136
italiani. Ben 87 venivano dal Molise, poi dalla Calabria,
dall'Abruzzo e dalla Campania. Ce lo raccontano le lapidi. Scritte in
italiano, piene di errori, piene di disperazione: "A riposo di
Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel
disastro di Monongah nella miniera N 8, nato ha Frosolone di
Campobasso lascia sua madre".
Gente povera,
semianalfabeta, sfruttata. Solo l'anno precedente erano arrivavati ad
Ellis Island, la porta d'ingresso per l'America, più di 300mila
emigranti dall'Italia. Dalla baia di New York li portavano qui per
soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale
americano. La compagnia anticipava i 15 dollari del viaggio, che poi
avrebbe trattenuto dalle paghe settimanali.
Erano giovanissimi e
vivevano quasi da reclusi come racconta il direttore dei Quaderni
sulle Migrazioni, Norberto Lombardi, nel libro Monongah 1907,
una tragedia dimenticata, che il Ministero degli Esteri ha
pubblicato questa settimana. I campi di lavoro erano controllati da
guardie armate, non si poteva evadere, se non prima di aver pagato
tutti i debiti. Anche il cibo si comprava allo spaccio della
compagnia mineraria che tratteneva la spesa dallo stipendio. Così
erano sempre sotto scorta, tanto che circolava una battuta: "Gli
emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale".
Di loro per molto tempo
si era persa la memoria. Le lapidi erano ridotte in uno stato
pietoso, spezzate, semicoperte dalla terra che con la pioggia smotta
ogni inverno verso la strada, ma questa estate sono state recuperate
e ripulite: dopo anni di incuria e dimenticanza il governo italiano
ha spedito 100mila dollari per i lavori.
La storia è passata di
qui e poi se ne è andata con la fine della miniera. Oggi tra queste
colline boscose abitano meno persone dei morti di quella mattina di
cento anni fa. Non sono diventati ricchi, ce lo raccontano le casette
bianche ad un piano in finto legno, le automobili datate, la merce
nei negozi. La storia ha lasciato non solo la West Virginia ma tutta
questa parte d'America, le acciaierie di Pittsburgh hanno spento gli
altiforni, il periodo d'oro cominciato con Andrew Carnegie, l'uomo
che pagò per le sepolture, è finito da un pezzo e il declino non ha
risparmiato nessuno. La miniera ha segnato la storia anche perché da
quel momento cominciò la discussione per mettere nuove regole, la
richiesta di sicurezza. Ma la strage dei minatori continuò, l'anno
dopo, mese dopo mese, in decine di incidenti morirono in 700. In un
secolo rimasero sotto terra 20mila persone solo in questo Stato, e
gli ultimi 14, poco lontano da qui, li hanno persi lo scorso anno.
Ma la memoria è rimasta.
"Come sarebbe possibile dimenticare, ogni famiglia ha un
antenato che era nella miniera quel giorno. Il bisnonno di mio marito
si salvò perché doveva scendere il turno dopo": Diane Masters,
caschetto biondo, è la proprietaria del piccolo ristorante Diary
Kone. Più una gelateria fast food che un ristorante, ma i suoi sei
tavoli sono un'istituzione in paese. Ci sono dal 1960, lei lo ha
preso tre anni fa: "Gli affari vanno bene, anche perché ho
convinto il vecchio proprietario a vendermi con il locale anche la
ricetta segreta per la salsa degli hotdog". È una specie di
ragù leggermente piccante. "Ma il vero campione della memoria è
stato il reverendo". Everett Francis Briggs è morto lo scorso
anno, era nato due anni dopo la tragedia, era cresciuto ascoltando la
storia dell'esplosione che uccise italiani, polacchi, irlandesi,
russi e slovacchi e si è battuto perché non si dimenticasse.
Nel cinquantesimo
anniversario ha aperto una casa di riposo per anziani intitolata a
Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Oggi ci vivono 57 vecchi
non autosufficenti della zona. La dirige suor Mary, che non ha molto
tempo da perdere, sotto il braccio ha un fascio di cartelle cliniche,
ma con la mano libera con tre gesti secchi ci indica la statua della
santa patrona ("Sotto sono incisi i nomi di tutti i caduti"),
il ritratto di un ragazzino minatore ("È originale e mostra che
sotto terra andavano anche i bambini") e la targa che ricorda il
reverendo. Poi apre la porta del suo ufficio e ci congeda: "Buona
fortuna". Nella sua struttura ci sono persone che hanno
combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e per loro ha messo
l'adesivo sul vetro all'ingresso: "Se ami la libertà ringrazia
un veterano". Anche il cimitero è costellato di bandierine a
stelle e strisce, perché tra le tombe dei minatori ci sono anche
quelle dei reduci delle Guerre Mondiali, della Corea e del Vietnam.
Aveva 98 anni quando se n'è andato, non potrà vedere la campana
regalata dal Molise, nata nella fornace della Fonderia Pontificia
Marinelli di Agnone, suonare domani mattina. I ragazzi della scuola
media, che ha come mascotte un leoncino, sono pronti. A turno, ad
ogni rintocco della campana, leggeranno i nomi dei morti. Sul muro
della scuola hanno attaccato uno striscione dipinto a mano su un
lenzuolo bianco: "Noi ricordiamo".
Oltre il fiume West Fork,
sui cui lati stavano le due gallerie della miniera, c'è la città
vecchia, da allora non si è mai ripresa. Il ponte è dedicato a
padre Briggs, sopra ci sono gli striscioni della regione Molise,
scritti in due lingue. Accanto all'ufficio del sindaco e dello
sceriffo, di fronte Blumberg building del 1911, dove oggi c'è il
"Dark Side Karaoke", c'è la statua dell'"Eroina di
Monongah", una donna con il fazzoletto in testa, un figlio in
braccio e l'altro per mano: "In memoria delle mogli vedove e
della madri delle vittime della miniera".
Una di queste si chiamava
Caterina Davia, perse il marito e due figli, ma i loro corpi non
vennero mai trovati. Ogni giorno, per quasi trent'anni, tornò
all'ingresso delle gallerie per portare via un sacco di carbone che
poi svuotava nel suo giardino. Diede vita ad una collina, "la
collina di carbone", che arrivò a sommergerle la casa. Diceva
che lo faceva per togliere loro un po' di peso. E per dare un senso
alla sua follia.
“la Repubblica”, 5
dicembre 2007
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