Antonia Pozzi |
Milano
Quando Antonia Pozzi
arrivò, la mattina del 2 dicembre 1938, la neve aveva rivestito di
bianco la campagna intorno all'abbazia di Chiaravalle. Lasciò la
bicicletta e si sedette a pochi metri da una roggia, come in
Lombardia chiamano i piccoli corsi d'acqua che traversano i campi.
Aveva con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sola
sorsata d' acqua e poi si sdraiò sulla neve, dove la trovarono
ancora viva. Morì poche ore dopo. "Polmonite", fece sapere
il padre, un avvocato milanese possessivo ed ambizioso, sposato ad
una nobile discendente di Tommaso Grossi, sacerdote di un rito
mondano che bandiva il suicidio e che l'indusse a frugare nei
cassetti dove la figlia custodiva le sue carte, a cancellare,
tagliare, anche bruciare e poi emendare e ricopiare col proposito di
consegnare al secolo un'Antonia Pozzi come voleva che fosse, una
poetessa tragica, che cantava la natura e la morte, ma mondata di
quelle che riteneva impurità del vivere.
Antonia Pozzi si suicidò
a 26 anni. La gran parte delle sue poesie sono edite: la principale
raccolta si intitola Parole ed è uscita recentemente da
Garzanti in una versione ampliata rispetto alle precedenti, a cura di
Alessandra Cenni e Onorina Dino (pagg. 424, lire 42.000). Ma ancora
restano degli inediti: le carte della poetessa vennero donate dal
padre della Pozzi alla Congregazione delle suore del Preziosissimo
Sangue di Monza, insieme alla splendida villa settecentesca di
Pasturo, in Valsassina, con tutti gli arredi e i libri che Antonia
inondava di annotazioni. Molto restie, le suore a volte cedono alle
insistenze di chi, per studio, vuol vedere quei quaderni. A niente,
invece, sono valsi finora gli sforzi perché sfociasse in una
pubblicazione la tesi di laurea di Elena Borsa, una giovane filologa
allieva di Maria Corti, che ha curato l'edizione critica dell' intero
"corpus" poetico di Antonia Pozzi. Alla poetessa milanese,
che non ha ancora il risalto che la sua voce merita, è ora dedicata
una piccola ma bella mostra organizzata da "Archivi del '900"
(Via De Grassi 11, Milano), in cui sono raccolte le edizioni delle
sue opere, alcuni manoscritti e soprattutto molte delle fotografie da
lei realizzate, una specie di proiezione visiva dei suoi versi.
Antonia inizia a scrivere
poesie a diciassette anni e fra i primi versi spiccano quelli
dedicati ad Antonio Maria Cervi, il professore di latino e greco del
liceo Manzoni, un uomo piccolo e per nulla fascinoso, di cui si
innamora. È attratta - ricorda Elvira Gandini, una sua amica di
allora - dalle sue lezioni sull'etimologia e sulla flessione delle
parole, che le appaiono organismi dotati di vita. Cervi è uno
studioso di talento. Forse non è del tutto consapevole di cosa provi
per lui quella studentessa dalla sensibilità acuminata, longilinea e
un po' legnosa, che riversa nella poesia il fallimento di una vita
che sognava diversa. Un giorno Antonia e il suo professore si
ritrovano a Napoli per una gita al Museo archeologico. In famiglia,
però, la relazione è contrastata in ogni modo. L'avvocato Pozzi
convoca Cervi e gli ingiunge di abbandonare la figlia. Ma è lo
stesso Cervi che fa un passo indietro e chiede il trasferimento a
Roma (si è anche detto, ma è improbabile, che sia stato il padre di
Antonia a fare in modo che il professore cambiasse sede). In ogni
caso la passione di Antonia non scema. "Amore, amore mio, tanti
baci, sai, continuamente sognavo di dare e di ricevere nella mia
adolescenza, quando ero sola e cattiva, ma erano sogni torbidi come
un delirio", gli scrive nel gennaio del '30. "L'altro
giorno mentre ti baciavo, l'anima mia era limpida come una tazza
d'acqua". La corrispondenza dura almeno fino al febbraio del 34,
accompagnata dall'avversione del padre di lei, un'ostilità che si
manifesta persino dopo la morte di Antonia, quando l'avvocato Pozzi
si trova per le mani le poesie dedicate al professore e con un
rabbioso tratto di penna cancella quel nome (e questa amputazione la
ritroviamo ancora nell'edizione di Parole del 1989).
Dal 1930 si apre per
Antonia una nuova stagione. Iscritta alla facoltà di Lettere della
Statale, frequenta i corsi di filosofia tenuti da Antonio Banfi, in
particolare le lezioni di estetica, ed entra a pieno titolo nel
gruppo dei suoi allievi prediletti, una straordinaria officina del
pensiero dove troviamo Vittorio Sereni, Giulio Preti, Remo Cantoni,
Alberto Mondadori, Enzo Paci e Luciano Anceschi. Maria Corti, di
qualche anno più giovane e studentessa di Benvenuto Terracini,
ricorda quei seminari nella vecchia sede in Corso di Porta Romana,
che iniziavano alle 11 di mattina e si prolungavano ben oltre
l'orario stabilito, proseguendo sotto i portici oppure a casa di
Banfi. "Banfi era elegante e ironico", racconta la Corti,
"incantava quasi diabolicamente: nel sorriso e nel modo in cui
passeggiava parlando di Proust o di Kant celava un forte tratto di
narcisismo". Ascoltavano le lezioni anche Ernesto Treccani e
Guido Morselli, studente di Legge, di cui Banfi era stato insegnante
al liceo Parini. Figure diverse tra loro. "Preti assomigliava
molto alla Pozzi, per la tragicità interiore che manifestava, ed era
il più geniale di tutti", rievoca la Corti. "Paci era
ambizioso, Anceschi incarnava il prototipo dello studioso solare".
Con Banfi la Pozzi si laurea discutendo una tesi su Flaubert, che
verrà poi pubblicata a cura del filosofo.
Eppure Banfi non era
stato tenero con la giovane allieva. Un giorno, racconta Elvira
Gandini, lei gli portò da leggere alcune sue poesie. "Si calmi,
signorina", fu l'altezzosa replica messa per iscritto dal
celebre professore. La Pozzi non è la sola, fra gli studenti di
Banfi, a scegliere il suicidio. Ricorda Maria Corti che prima di lei,
nel 1935, si uccide Gianluigi Manzi ("Io sono una donna",
scrive la Pozzi nel suo diario, "ma devo essere più forte del
povero Manzi che si è ammazzato per una ragione uguale alla mia").
Nel 1972 Giulio Preti va a morire a Djerba, in Tunisia, senza portare
con sé le pillole cui è legata la sua sopravvivenza. Morselli si
spara un colpo alla tempia nel 1973. Cantoni muore di propria volontà
nel 1978. Nessuno si spinge a indicare con precisione cosa abbia
indotto Antonia Pozzi al suicidio. Provò a uccidersi già un'altra
volta, ma i genitori arrivarono in tempo a salvarla. Aveva contratto
la depressione e con la morte conviveva da tempo, fin da quando era
uscita dall'adolescenza: ne sono prova molti suoi versi e tante
annotazioni di diario. Con fatica ne ha parlato una volta Dino
Formaggio, al quale la Pozzi era affezionatissima, che forse amava,
compagno di passeggiate e di chiacchierate lungo la strada che da
Milano porta a Chiaravalle, quella percorsa in bicicletta la mattina
del 2 dicembre 1938. Formaggio citava, a proposito dell'addio di
Antonia Pozzi, le ultime parole di Cesare Pavese: "Perdono a
tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi
pettegolezzi". A Formaggio Antonia scrisse due lettere nella
primavera e nel settembre del 34 accompagnando alcune sue fotografie.
"Caro Dino, l'altro giorno hai detto che nelle fotografie si
vede la mia anima: e allora eccotele. (...) Conservale per mio
ricordo, per ricordo del nostro incontro (...). Caro, caro Dino, che
tu almeno possa foggiare la tua vita come io sognavo che divenisse la
mia: tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù". Formaggio
evoca una "indistinzione immaginativa tra sogno e realtà".
La Corti risale a quello "sguardo distaccato, a quell'occhio
freddo di chi vede la Terra dall' aldilà". La Gandini
ricostruisce il dramma collettivo di quegli ultimi anni Trenta con il
fascismo che stringe ogni spazio di libertà e vara le leggi
razziali, colpendo uno degli amici più affettuosi di Antonia, Paolo
Treves. Ma non si può escludere l'atmosfera familiare, con una madre
molto debole e un padre autoritario e simpatizzante per il regime.
Antonia ha un mondo di
affetti e di valori tutto diverso, ma non riesce a realizzare né ad
esternare la sua ribellione - se non nella poesia, dove compare più
la natura che non le persone e dove si affollano le metafore dell'
acqua e dei monti, a indicare una ricerca di sé che confina con l'
annullamento. L'avvocato Pozzi, borghese esemplare, non può
ammettere che i versi di Antonia ingombrino il ricordo che vuole
lasciare di lei. E così manipola le carte e, fra le altre, massacra
a colpi di penna una poesia che solo ora si può leggere, Canto
della mia nudità, in cui esplode un corpo liberato dagli
impacci: "Oggi, m'inarco nuda, nel nitore / del bagno bianco e
m'inarcherò nuda / domani sopra un letto, se qualcuno / mi prenderà.
E un giorno nuda, sola, / stesa supina sotto troppa terra, / starò,
quando la morte avrà chiamato".
“la Repubblica”,12
giugno 1999
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