Una coltivazione di grano tenero della varietà Gentil Rosso |
Tra gli appassionati di
panificazione, pasticceria, pizza e lievitati in genere, da qualche
anno circola il tormentone “grani antichi”, che sta a indicare la
farina ottenuta da grano che non ha subito incroci varietali naturali
per migliorarne le caratteristiche produttive. Al di là
dell’agronomia, tali grani sono interessanti dal punto di vista
storico, organolettico e paesaggistico (le spighe sono alte o nane,
con una gamma di colori che va dall’oro al rosso, dal verde al
marrone scuro) ma, sebbene sia molto di moda, la dicitura
convenzionale non deve invitare a generalizzare. Perché la novità è
proprio questa: un grano al plurale, con tante declinazioni
territoriali.
L’Italia è da sempre
un granaio pieno di diversità, al punto che si potrebbe creare una
mappa regionale con le differenti tipologie di grani locali. A
moltiplicare questa varietà ha contribuito Nazareno Strampelli,
l’agronomo marchigiano che all’inizio del secolo scorso si occupò
del miglioramento genetico dei grani, praticando incroci naturali tra
semi italiani e semi stranieri per ottenere specie più forti e
produttive. Il lavoro di Strampelli – che da un lato creò nuove
varietà poi diffuse rapidamente in tutto il Paese (tra cui il
Senatore Cappelli, celebre tra i gourmet), ma dall’altro fu il
primo tassello verso l’abbandono delle varietà autoctone – venne
poi superato dalle coltivazioni industriali, standardizzate e a resa
ancora più alta.
L’inversione di
tendenza si è avuta negli ultimi quindici anni, quando alcuni
piccoli agricoltori italiani hanno ricominciato a seminare i grani
dimenticati. Giuseppe Li Rosi (terrefrumentarie.it), agricoltore
siciliano, preferisce parlare di grani locali: la sua regione vanta
un primato di diversità, tutte raccolte alla Stazione Sperimentale
di Granicoltura di Caltagirone (granicoltura.it), che dal 1927 si
occupa di preservare le cinquanta specie di grani siciliani. Grazie
al lavoro di agricoltori come Giuseppe, negli ultimi anni i grani
locali stanno tornando nei campi con un’opera culturale e
ambientale che fa bene al territorio e anche a chi se ne nutre: «Il
frumento locale non ha bisogno di essere difeso dalle piante
infestanti con diserbanti chimici, né di funghicidi, ma è in grado
di badare a se stesso: le spighe si difendono da sole le une con le
altre».
In Romagna, Lucia Ziniti
(cantinasanbiagiovecchio.com) ha ripreso la coltivazione del Gentil
Rosso, che da quei terreni era sparito a seguito dell’adozione
delle varietà inventate da Strampelli. Come la maggior parte dei
grani antichi locali, il Gentil Rosso ha un basso contenuto di
glutine e la sua farina ha minor elasticità rispetto a quelle comuni
a cui siamo abituati, ma in compenso è più digeribile e
organoletticamente più ricca. A piena maturazione, le spighe sono
alte fino a 1,60 metri e sembrano giganti rispetto alle spighe delle
coltivazioni commerciali, che arrivano strategicamente all’altezza
di 90 centimetri (perfetta per la trebbiatura). Nelle Marche, Massimo
Mancini (pastamancini.com) ha costruito il suo pastificio in mezzo ai
campi su cui coltiva sia varietà moderne che grani antichi turanici,
così chiamati perché originari del Khorasan – regione a Nord-Est
dell’Iran – e presenti in Italia prima di essere dimenticati in
tempi moderni. La resa è molto inferiore rispetto ai grani
“moderni”: si va dai 45 ai 55 quintali per ettaro per questi
ultimi, contro i 15 quintali per i grani turanici. Una scelta di
qualità, tutela e conservazione, che ha un costo.
Oltre che per le rese
minori, le farine ottenute dai grani antichi hanno prezzi superiori
rispetto alle farine ottenute da varietà moderne perché ogni
passaggio della filiera è più costoso rispetto al processo
industriale. Spesso sono macinati a pietra, come accade al Mulino
Marino (mulinomarino.it) di Cossano Belbo nelle Langhe, dove
dall’inizio del Novecento si usano ancora le macine a pietra
naturale per la lavorazione dei grani “primordiali” (questa è la
definizione che Fulvio Marino ama usare); tale macinazione permette
di preservare le caratteristiche organolettiche, ma se con un
impianto industriale a cilindri si possono macinare fino a 3 mila
chili di farina ogni ora, le macine a pietra naturale producono dai
150 ai 200 chili, e ciò incide al rialzo sul prezzo finale.
Anche gli chef amano la
farina di grani antichi, sia per i loro cestini di pane che per le
creazioni di pasticceria, un po’ per moda, un po’ per le
richieste del cliente sempre più attento alla questione della
digeribilità. In Alta Badia, Andrea Tortora lavora come pasticcere
nella brigata di Norbert Niederkofler presso il ristorante stellato
Rosa Alpina e dice: «Parte del mio lavoro sta proprio nella ricerca
di grani antichi e locali, che uso perché hanno meno glutine e sono
quindi più digeribili».
Al di là della
digeribilità, piacciono tanto perché in fondo rappresentano un
legame con la civiltà rurale a cui apparteniamo.
Pagina 99, 20 febbraio
2016
Nessun commento:
Posta un commento