22.9.13

Barbarie. Nella Roma di fine 800 demoliscono Villa Ludovisi (Lucio Caracciolo)

Veduta di Villa Ludovisi. Copia in acquarello (datata 1818) di un originale (1750 ca.)
di Thomas Bowles rappresentante il grande palazzo dei Ludovisi e i giardini adiacenti
Cent'anni fa il più bel giardino del mondo viveva il suo ultimo inverno. Henry James ce n'ha lasciato l'estrema immagine, narrando delle romantiche passeggiate lungo "viali oscuri sagomati da secoli con le forbici", fra "vallette, radure, boschetti, pascoli, fontane riboccanti di calami, grandi prati fioriti, punteggiati qua e là da enormi pini obliqui". Quanti fra coloro che oggi animano via Veneto e s'aggirano tra i palazzotti in stile tardo-rinascimentale o i villini di gusto floreale del Pinciano, sanno che sotto i loro piedi si stendeva fino al 1885 la meravigliosa Villa Ludovisi?

Di quel paradiso botanico e artistico - duecentocinquantamila metri quadrati compresi tra piazza Barberini e Porta Pinciana - non resta pressoché nulla: solo una specie di cubo incassato nel quadrilatero via dell' Aurora - Via Lombardia - via Ludovisi - via Emilia, da cui svettano tristemente un ciuffo d'alberi e cespugli che nascondono il Casino dell'Aurora affrescato dal Guercino; ancora, la fontana dei Tritoni nel giardino dell'ambasciata americana.  E basta.
Un giardino "segreto" della villa. La foto è del 1883,
opera di don Ignazio Boncompagni - Ludovisi.
Com'è potuto accadere che la "perla di Roma", uno dei luoghi più suggestivi della terra, disegnato nel Seicento dall'architetto dei giardini reali di Versailles, il solenne Andrè Le  Nôtre, sia stata eliminata alla stregua di una palude infetta?
Sarà bene tornare al 1885. Un giorno, il principe Boncompagni-Ludovisi apre i cancelli della sua villa a Theodor Mommsen. Con aria afflitta, consegna al venerato storico tedesco una raccolta di dagherrotipi che ritraggono per l'ultima volta i viali ombreggiati da lecci e cipressi, le statue pagane, i giardini segreti e i casini, tutte le meraviglie del suo parco. "Conservi queste immagini", dice all'esterrefatto Mommsen, "perchè la mia villa dovrà scomparire". Don Rodolfo Boncompagni-Ludovisi ha appena stipulato una convenzione con la Società Generale Immobiliare per edificare un quartiere residenziale sui suoi terreni. E' tempo di "febbre edilizia", e il principe ha bisogno di realizzare. Non importa che il piano regolatore preveda la conservazione della villa. Le immobiliari pagano bene, per i proprietari di terreni è l'occasione di fare fortuna. Perfino il governo ha preso di mira da qualche tempo villa Ludovisi. Nel 1884 s'è fatto avanti il ministero dell'Interno, offrendosi d'acquistare parte del giardino per impiantarvi il nuovo complesso del Parlamento: Camera, Senato, Aula Magna per le allocuzioni reali e quant'altro occorre al decoro dello Stato. La trattativa va per le lunghe, e Don Rodolfo ha fretta. Si rivolge allora al Comune - retto dal nobiluomo vaticanesco Leopoldo Torlonia - prospettando l'idea di un vasto quartiere alto-borghese da costruirsi sulle ceneri della sua villa. Il municipio tentenna. Ma poi esso stesso suggerisce di aggirare il vincolo, a patto che tutti i lavori stradali e fognari siano a carico dei privati. Interviene la Generale Immobiliare a chiudere il cerchio: si accolla la costruzione delle strade e l'onere della vendita dei lotti. Il 29 gennaio 1886 è firmata la convenzione triangolare fra Comune, Generale Immobiliare e don Rodolfo Boncompagni-Ludovisi. Un mattino d' inverno del 1886 squadre d'operai irrompono nella villa, livellano i prati, demoliscono le fontane, distruggono i boschi, accendono fuochi, scavano trincee, lavorano la calce.
La "perla di Roma" è perduta per sempre, sotto gli occhi del giovane Gabriele D' Annunzio: "I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati... Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia".
Per ironia della sorte, il ricavato della speculazione, che porta nel giro di trent' anni alla nascita di uno dei più eleganti quartieri romani, è assai inferiore alle aspettative: appena cinque milioni e mezzo, dei quali tre quinti all' Immobiliare, il resto ai Boncompagni-Ludovisi. Lo Stato pone il suo beffardo suggello allo scempio, proclamando villa Ludovisi monumento nazionale... dopo la distruzione. La fine di villa Ludovisi è il momento più oscuro della devastazione dei parchi urbani e suburbani innescata dalla "febbre edilizia", a partire dai primi anni Ottanta. La cinta delle ville patrizie si trasforma in un grande cantiere che corre ininterrotto da Porta del Popolo a Porta San Giovanni. Sotto i colpi delle immobiliari cede pezzo dopo pezzo la "città delle ville" di cui son pieni i diari di viaggio barocchi e romantici: Massimo, Capizucchi, Nari, Magnani, Patrizi, Altieri, Albani, Gonzaga, Olgiati, Strozzi, Bolognetti, Rondanini: l' elenco delle vittime continua a lungo. Il massacro dei giardini romani diventa un caso internazionale. "Gli italiani stanno distruggendo Roma!" protestano Ferdinand Gregorovius e Herman Grimm sulla stampa tedesca, ai primi del 1886.
Il pamphlet contro la speculazione di Herman Grimm
Il disperato appello dei due famosissimi studiosi rimbalza in Italia, accende polemiche, suscita indignazione e recriminazione, divide l' opinione pubblica. Sui giornali stranieri si parla degli italiani come di nuovi Vandali, le devastazioni inferte al volto millenario dell'Urbe sono additate come un delitto contro l' umanità. Se Emile Zola si era indignato per la curèe edilizia a Parigi in un suo libro, qui trova anche di peggio, perché è la storia stessa che si viene a distruggere. Il pittore Hèbert, direttore dell' Accademia francese a Villa Medici, invia al Comune un suo ritratto di "Roma sdegnata". Grimm pubblica un pamphlet sulla "Distruzione di Roma", sorta di inno romantico in morte di villa Ludovisi - "il luogo più bello della terra" - e inveisce contro la "barbarie italiana" che minaccia la Città Eterna. Dove un tempo si scozzonavano i cavalli, dove brucavano le pecore, dove giacevano rovine romane o giardini barocchi - lamenta Grimm - ora sorgono "file di colossali case a sei piani senza nessuna architettura, intese soltanto a dar ricovero agli uomini, e in mezzo a quelle le immense caserme dei carabinieri... In qualunque cantiere voi andiate, o si smuove o s' agguaglia il terreno per guadagnar lotti fabbricativi, o già sorgono nuove case, o le vecchie si demoliscono. File interminabili di carri, portando scarichi o materiale da costruzione, ingombrano le vie e le riempiono di strepito e di sudiciume. Torme d'operai forestieri s'aggirano dappertutto... Un'incomoda agitazione ha preso il luogo dell' antica quiete". I nostalgici del potere clericale sfruttano l'ondata di indignazione anti-italiana per moltiplicare le accuse contro l'"oscena, demoniaca occupazione". Non c' è dubbio che in appena quindici anni la Roma pontificia risulti trasfigurata dalla febbre edilizia. La nascente "Terza Roma" è un organismo ancipite in cui i casermoni elevati ad uso della travetteria "buzzurra" spuntano d' improvviso a ridosso dei ruderi o delle vecchie case d' età papalina. Ma gli ultimi a poter protestare sono i clericali. Negli anni Settanta e Ottanta la finanza cattolica, gli aristocratici d' obbedienza vaticana, gli ordini ecclesiastici, scoprono essi per primi il paradiso della speculazione su Roma italiana. Ecco i più bei nomi della nobiltà nera, i Capranica e i Chigi, i Borghese e i Massimo, tuffarsi nel mondo della finanza senza tema d'incrociare i propri destini con quelli esecrandi della banca laica. Mentre il papa fulmina astiose scomuniche contro gli eversori dell'asse ecclesiastico e l'Obolo di San Pietro langue, i monsignori di Curia studiano le virtù della cedola e i miracoli del capitale finanziario. La finanza cattolica si concentra su alcune banche (come il Banco di Roma) e sulle società dei servizi pubblici (acqua, gas, elettricità, tramways). Nell'edilizia primeggia la Società Generale Immobiliare, anch'essa d'ispirazione vaticanesca. E non sono spesso sostenitori della causa clericale i proprietari delle grandi ville e vigne, i quali stipulano convenzioni con il Comune (da loro esponenti largamente influenzato) ed entrano nelle combinazioni finanziarie destinate all'urbanizzazione di Roma? Anche lo Stato contribuisce ad innescare la disordinata smania edilizia. Questa Italia che - osserva Crispi - sta a Roma come in una locanda, quasi vi si trovi di passaggio, attende il maggio 1881 per compiere il primo atto di concreta solidarietà verso la città che ha rappresentato la mèta del Risorgimento. E' un modesto stanziamento - appena 50 milioni - per costruzioni destinate al maggior decoro della Capitale, come il Palazzo di Giustizia, il Policlinico, la continuazione di via Nazionale. Gli stanziamenti statali del 1881 saranno seguiti da altri, meno inconsistenti, nel 1883 e nel 1890. E' un segnale sufficiente a risvegliare attenzioni e cupidigie italiane e straniere. Roma magnetizza improvvisamente capitali per i quali promette strabilianti remunerazioni. Sulle piazze europee i titoli delle immobiliari romane e del Comune vengono acquistati a prezzi di favola. Tutta la città scopre improvvisamente il fascino dell' edilizia. Roma conosce la sua breve, distorta "rivoluzione industriale". Imperversa la "bancomanìa", ma il credito è fin troppo facile: "In ogni stadio della lavorazione s'andava a cambiali; oltre il terreno, con esse erano pagati i materiali da costruzione. Questa massa di carta che si rinnovava di tre mesi in tre mesi affluiva tutta, come le acque immonde della cloaca al fiume, alle banche, le quali credevano di guadagnare, e si scavavano invece la fossa", scrive Edoardo Arbib nel 1895. Non intuendo il pericolo, si compra e si costruisce a rotta di collo. Vignaroli e ortolani si trasformano da mane a sera in capitalisti grazie alla rivalutazione dei terreni suburbani e alle agevolazioni fiscali. Costruendo a furia di prestiti un piano dopo l'altro, sui quali accendono ipoteche, oscuri capomastri accumulano vere fortune.
Il piano regolatore varato nel 1883 sanziona i fatti compiuti dalla febbrile iniziativa privata. Si completa via Nazionale, il vuoto tra la stazione Termini e Piazza Vittorio è colmato. Fuori piano sorgono le prime case di corso d' Italia, si lavora lungo via Nomentana. Le fatiscenti case di Monti e della Suburra vengono sventrate per aprire il passo alle arterie maggiori. Si costruisce freneticamente anche oltre le mura cittadine, in assoluta anarchia, mentre i prezzi dei terreni suburbani vanno alle stelle e - scrive il Messaggero - "gli speculatori pelano a man salva gl' ingenui". Il Comune assiste, quando connivente, quando impotente. Confessa il deputato romano Angelo Valle, davanti alla Camera: "Noi dichiarammo che non avremmo mai riconosciuti i quartieri costruiti fuori piano, né accordato i servizi pubblici. Ma si capisce che certe minacce è facile farle a parole, ma non è facile mantenerle; e quando bene o male quei quartieri cominciano a sorgere, il Comune non può esimersi da certi servizi pubblici come l'illuminazione e la spazzatura, e talora dal fare le fogne dove mancano". Il furore edificatorio cambia le abitudini dei romani. La popolazione è raddoppiata in vent' anni (alla fine del 1891 gli abitanti censiti saranno 411 mila). Un vento di frenesìa investe la "bella addormentata" dei tempi del papa re. Migliaia di carri d'ogni foggia e dimensione incrociano nelle vie cittadine, portando una folla di aspiranti milionari, faccendieri, mediatori, promettitori di meraviglie. Sulla stampa "romana de Roma" compaiono esacerbate denunce contro i nuovi padroni della città, i carrettieri: "Per essi non v'ha legge o regolamento che tenga. Seduti sul carro, si piantano in mezzo alla via o fermi o camminando a loro bell'agio, in guisa da tenere tutto il sentiero, ed ogni vettura pubblica o privata, fosse anco la carrozza del Re, deve attendere il comodo loro, e se si attenta a passar innanzi, il carrettiere stringendosi a un tratto le viene addosso e la investe col mozzo della ruota. Le Guardie Municipali, spesso zelanti oltre il dovere coi vetturini e colle carrozze private che non portano livrea, coi carrettieri bacian basso e fanno lo gnorri per paura del coltello o del manico della pala che quei valentuomini sanno maneggiare assai bene".
I romani scoprono le piccole abitudini importate dai "buzzurri" subalpini. Verso le sei scocca l'ora del vermouth. Nei caffè del Corso e di Piazza Colonna sciama un variegato genus irritabile d'impiegati, giovani sfaccendati, eleganti signori, letterati, giornalisti. Si va ad assaggiare la bevanda introdotta in città dal celebre Aragno, il quale ama dosare personalmente la china da aggiungere al vermouth ambrato per esaltarne la tonicità. La buona società si dà convegno al turf dei Prati fiscali per le corse di galoppo, si cimenta nella caccia sulle pendici di Monte Mario e nei boschi di Cento Celle. Il principe Ignazio di Venosa, il marchese Borea d' Olmo, maestro di cerimonie a Corte, ministri, aristocratici, si mescolano ai popolani nello sferisterio del giardino Barberini, in via Venti Settembre. Roma comincia ad assaporare il gusto eccitante della modernità. Sembra finalmente destinata a diventare una città nel senso economico che Max Weber attribuirà al termine: un "luogo di mercato" dotato di un proprio sistema di produzione e di scambio. L' impero di carta crolla improvvisamente nel novembre 1887. Accade che le banche francesi, svizzere, tedesche e poi tutte le altre rifiutino di scontare le cambiali dei costruttori. Gli imprenditori improvvisati non possono certo pagarle in contanti. I fallimenti si succedono a valanga. Nel solo mese di novembre chiudono 80 dei 407 cantieri romani, nel luglio successivo saranno 149. Crollano i titoli dell' Immobiliare. Cedono le banche; per le più importanti si precipita in soccorso lo Stato, avviando la litanìa dei salvataggi le cui conseguenze politiche e morali si vedranno abbondantemente nei decenni a seguire. Il panico induce le imprese periclitanti a operazioni suicide. L' età dell' oro finisce così, di schianto. Congiuntura depressionaria internazionale, guerra doganale e commerciale fra Italia e Francia, abuso del credito, sono le principali cause della più grave crisi edilizia della storia italiana.
L'assenza di programmazione gioca un ruolo comunque determinante. Si sono costruite senza criterio case di lusso, irraggiungibili per le tasche del popolo, ed ora esse restano desolatamente vuote a simboleggiare la follìa della speculazione, mentre nei vecchi appartamenti del centro e nelle casupole di periferia s'accalcano financo dieci persone in una stanza. Lo spettacolo offerto da Roma nell'ultimo scorcio di secolo è deprimente. Dovunque cantieri abbandonati, strade in disordine, comunicazioni interrotte. Chi prima rivendicava i diritti privati ora chiama al pubblico soccorso. Non sarà prima dell'alba del nuovo secolo che Roma accennerà a rientrare nel circuito dello sviluppo.

“la Repubblica”, 25 novembre 1984

1 commento:

Unknown ha detto...

Distruggere si fa in un attimo, costruire in tutti i sensi civogliono generazioni.

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