14.10.13

Aspettare, aspettare, aspettare. Roma 1943-44 (Lidia Storoni)

Lidia Storoni Mazzolani è soprattutto conosciuta come storica del mondo antico, ma fu anche scrittrice e memorialista di grande forza comunicativa come dimostra l’articolo che segue sulla Roma occupata dai tedeschi nel corso della Seconda Guerra Mondiale e sulla sua liberazione. (S.L.L.)
LIdia Storoni Mazzolani
Quella mattina uscimmo prestissimo: saranno state le sei. Il sole tagliava ombre nere sul selciato. Avevamo passato la notte in casa di amici, per paura di rappresaglie dei fascisti nelle ultime ore: porteranno via ostaggi, si diceva, combatteranno casa per casa, faranno saltare i ponti. Quante volte l'avevo guardato, Ponte Sant'Angelo, in quei mesi; di notte mi apparivano davanti, come se li vedessi per la prima volta, gli edifici, le chiese che non avrei sopportato di vedere distrutti. Meglio che vada giù casa mia, mi dicevo.
Da quando il coprifuoco era stato anticipato dalle 19 alle 17, dalle finestre vedevo una città deserta. In quella solitudine da "ultima spiaggia", palazzi, fontane, colonne avevano l'immobilità astrale d'un De Chirico. Di notte il silenzio, interrotto a volte da colpi di fucile, era tale che si percepiva il mormorio del Tevere.
L'ultima notte s'era sentito il fragore dei camion che procedevano ormai con i cerchioni, senza più gomme; portavano al Nord soldati stremati dalla resistenza sotto Roma, che durava da venti giorni. Avevano incominciato a passare da un paio di giorni, il fucile tra le mani, occhi di ghiaccio fissi nel vuoto. La gente li guardava in silenzio. In un giardino, su una panchina, c'era un uomo anziano con un bambino. Un soldato tedesco si lasciò cadere sull'erba accanto a lui, si tolse l'elmetto che gli aveva lasciato un solco sulla fronte, disse: "A casa, anche io bambino come questo". L'uomo, con l'impassibilità del romano che non si stupisce mai di niente, rispose: "Bè, mò che vai a casa ne fai un antro". L' indomani non c'erano più. I primi americani della V Armata li incontrammo in via Vittoria Colonna, il mitra imbracciato. Avanzavano lenti, a gruppi, con un sorriso incerto; e la gente che incominciava a sciamare dalle case li salutava ancora timidamente: non riusciva a credere che l'incubo fosse finito. L'entusiasmo esplose più tardi nella giornata, quando sfilarono per il Corso e si recarono a San Pietro; buttavano sigarette Camel e caramelle, che venivano accolte avidamente; nell' esultanza si insinuava un'ombra di vergogna per quella libertà regalata insieme alle caramelle. Pochi giorni dopo, quella vergogna trovò espressione in una frase amara e tagliente che fu scritta su i muri: "Aridatece er puzzone" ("Come si traduce?", mi domandò il giornalista americano Matthews; "va bene"we want the Stinker back?""). No, pensavo, non andava bene: il romanesco si traduce soltanto in latino.
A Via delle Convertite c' era sul marciapiede una pozza di sangue scuro, vischioso: "Hanno ammazzato un tedesco", diceva la gente, "forse un disertore isolato". Ci camminavano sopra e in breve lo assorbirono sotto le scarpe. Qualcuno raccontò di ultime brutalità dei fascisti: un morto a Piazza di Spagna, due allievi della Finanza massacrati; ma nessuno dubitava che quelle fossero le ultime, per sempre. Eravamo storditi; miracolosamente incolumi, nella città miracolosamente intatta, alla vigilia di ciò che era stato atteso, auspicato per tanti anni, ma non sapevamo come sarebbe stato; e nell'esaltazione serpeggiava una vena di sgomento. Sembrava che tutti avessero dimenticato i mesi trascorsi, vissuti, sofferti in una tensione estrema.
Dall'8 settembre molti ebrei e antifascisti - tra i quali mio padre e mio marito - avevano trovato ospitalità presso amici. "Mezza Roma", si diceva, "abita in casa dell'altra metà, che però ha cambiato indirizzo". Era meglio non sapere dove, nel caso qualcuno di noi fosse interrogato. Il 16 ottobre ci fu la deportazione degli ebrei. Mio padre venne in mattinata ad affidarmi la bambina di mia sorella Luisa. Il babbo, Gastone Piperno, era israelita e vigilato politico. Fu la prima volta, dopo la morte di Luisa, che lo vidi con gli occhi rossi. Nel pomeriggio venne Manlio Lupinacci, sconvolto: "Un fatto come questo", ripeteva, "nella patria del diritto e della cristianità". "Il papa si presenterà alla stazione, come ha fatto a S. Lorenzo", dicevo, "si farà portar via con loro...". Speravo che lo facesse. Non sapevamo ancora nulla dei lager eppure, come fu scritto su “Italia Libera”, l' organo clandestino del Partito d'Azione, "non era più odio il nostro, era orrore".
Il 23 gennaio ci fu lo sbarco d'Anzio. Mi ero resa conto che c'era qualcosa di diverso: un rombo cupo, intermittente, a sud, con vampe improvvise: era il cannone. Non lo schianto delle bombe lanciate dagli aerei, non la luce arancio dei bengala che illuminavano gli obbiettivi - Viterbo se era a nord, i Castelli se a mezzogiorno, Civitavecchia se il vento del mare li portava dietro San Pietro; la cupola si stagliava nera contro quell'aurora boreale. Radio Londra disse che era avvenuto uno sbarco così vicino che si scorgeva l'Urbe: ma dov'erano? Passavano ambulanze improvvisate dov'erano adagiati i feriti con bende insanguinate: li portavano all'Ospedale di Santo Spirito, segno che gli scontri erano stati molto vicini e le attrezzature sanitarie insufficienti. Li fermarono. E sembrò che la situazione dovesse durare così per sempre.
Il 23 marzo ci fu l'attentato di via Rasella. Era stato preceduto, preciserà il colonnello delle SS Kappler al suo processo, da una trentina di altri, seguìti da altrettante fucilazioni: dieci contro uno. ;-quella notte i tedeschi prelevarono dalle carceri coloro che il Comando condannava a scontare un atto che non avevano commesso, una sessantina di antifascisti indicati dal questore, Caruso, 73 ebrei, altri scelti a caso: un ragazzo di 14 anni, uno di 17, uno di 18, una intera famiglia. Mario Pannunzio, che vi si trovava, ci raccontò poi che si aggrappavano alla porta delle celle, disperati, urlando. Furono assassinate nelle ore che seguirono 335 persone, senza processo, senza sacramenti, senza sepoltura. L' indomani, il “Messaggero” pubblicò un breve comunicato: "Alcuni comunisti badogliani", diceva, "avevano ucciso 32 camerati germanici e il Comando aveva ordinato la rappresaglia". L' ordine, terminava, è stato eseguito. Poche sere dopo, da Radio Londra, udimmo la voce venata di pianto di Paolo Treves: si chiedeva se fra quei morti c'eravamo anche noi.
Al processo, quattro anni dopo, Kappler, che aveva comandato i plotoni d'esecuzione, raccontò come aveva insegnato ai soldati a mirare alla nuca dei prigionieri inginocchiati, le mani legate, a cinque per volta; aveva incoraggiato o costretto i  suoi uomini a sparare; offriva loro del cognac. Si davano il turno, precisò, quando andavano a pranzo.
Un mese dopo seppi che a Santa Maria Maggiore c'era una Messa di suffragio. Commisi l'imprudenza di andarci con la bambina per mano e scampai alla sparatoria che seguì solo perché m'ero allontanata prima che la Messa finisse.
C' era chi non aveva paura. Umberto Zanotti Bianco, magro fino ad essere trasparente, provvedeva ad allestire piccoli ambulatori di fortuna nelle scuole, dove erano alloggiati gli sfollati dei paesi evacuati. Dormivano per terra, separati da tende, tormentati dalla scabbia e dai pidocchi. Portammo siringhe, disinfettanti, saponette allo zolfo, un po' di biancheria usata: gli scaffali dei negozi erano vuoti. Li assisteva una crocerossina dal viso doloroso e impenetrabile, Bianca Lusena; le avevano fucilato il fratello, ma non ne era certa. Davanti al Comando tedesco, al Corso d'Italia, c'era sempre una lunga fila di persone che chiedevano se un loro congiunto era stato deportato o ucciso: non era rincasato; oppure, alle carceri, era stato rifiutato il pacco.
Le contadine sfollate non rimpiangevano tanto le loro case - contenevano così poco! - quanto i campi: "vedessi, signorì, che carciofi avemo lassato! e l'uva pure veniva bene...". Le vigne, i tedeschi le avevano infarcite di mine, tanto che le viti rimasero a lungo aggrovigliate a terra; fecero più vittime le mine che le bombe. Lungo le strade da Napoli a Roma alberi bruciati, macchine rovesciate nei fossi; l' asfalto era bucherellato dalle mitragliatrici degli aerei. Avevo percorso la Casilina in dicembre in condizioni da romanzo, con uno strano frate passionista che a Fiuggi, dove finiva il trenino, aveva chiesto un passaggio a un ufficiale tedesco al quale io dissi - in latino - che mio marito era prigioniero.
Fu molto cavalleresco e mi trovò da pernottare nel Seminario di Ferentino, evacuato; in effetti, mio marito aveva cercato di passare le linee, ma era rimasto bloccato a Ceccano. Dopo una notte trascorsa su una sedia, durante la quale sentii transitare sferragliando quello che mi parve un esercito (mi chiedevo se era la ritirata), nell'alba gelida mi affacciai alla porta. Una divisione tedesca si dirigeva verso nord: automezzi sforacchiati dai colpi, senza parabrezza, gomme lise, divise lacere. Avevano ammucchiato sui carri armati le povere cose racimolate nelle case: materassi, coperte, bacinelle e vasi da notte di ferro smaltato, macchine da cucire.
Il Passionista, dichiarando che ero sua sorella, incantò di frottole l'autista d'una macchina blu diretta a Ceccano: era del Questore. L'indomani notte rientrammo a Roma a fari spenti, su un camion carico di farina, olio, legumi: beni che sarebbero costati la fucilazione a uno di noi. Mio marito scaricò sacchi e damigiane in casa del Questore di Roma e prese la mancia. Verso sera capitava spessissimo da noi Giuliana Benzoni; dormiva su un divano, mangiava con noi poco e male - "nella frittata", si diceva, "se ci metti anche un uovo viene meglio". Teneva i contatti tra i clandestini di tutti i colori, mi affidava le incombenze più strane: portare documenti, trovare di che vestire sette prigionieri russi nascosti nell' Ospedale Fatebenefratelli, dove i malati immaginari erano molti. Non era facile, ma riuscivo.
La fonte inesauribile degli aiuti - e anche di conforto morale - era casa Bulgari. Vidi a casa mia in quei giorni alcuni del Comitato di Liberazione del Nord, che non conoscevo ancora: Manlio Brosio, Giustino Arpesani. Ogni partito aveva i suoi rifugi, i suoi luoghi d'incontro; giravano con certe barbe e certi occhiali scuri che avrebbero insospettito chiunque; forniti, tutti, di documenti intestati a persone che vivevano nelle zone liberate, Napoli, Sicilia; bastava cambiare la foto e darsi un accento del Sud.
Un amico greco - che poi diventò ministro, Averoff - nel portare in salvo un prigioniero inglese fu fermato da un poliziotto che era del suo paese, disse, e conosceva i suoi: quelli del vero titolare delle sue carte, abitante a Spezzano Albanese, un paese di lingua greca. Leone Cattani mi portava le copie di un piccolo "Risorgimento Liberale" che lasciavo nelle cassette delle lettere. La gente era solidale: quando i tedeschi sbarrarono Corso Vittorio per catturare gli uomini e portarli a scavare trincee (le donne li circondavano dicendo: "dammi l'indirizzo, il telefono dei tuoi, li avverto io"), portieri e negozianti delle stradette attorno si fecero all'uscio mentre passavo, sussurrando: "Sora Lì, nun fà uscì l'avvocato, stanno a fà la retata!".
Una mattina presto andai con mio padre ad abbracciare Natalia Ginzburg; Leone era morto in carcere quella notte. Viveva in una pensioncina presso la Città Universitaria. Tremava di freddo, le mani gonfie di geloni; i suoi bambini erano a Torino, non ne aveva notizie. Leone fu sepolto nel cimitero ebraico dove, poche settimane dopo, deposero Eugenio Colorni: un loculo chiuso da cemento, senza nome. Ma io sapevo dov'erano.
Sono passati quarant'anni. Rivedo tutto in technicolor; tenebre fitte o luce nitida, mai la nebbia. Nelle giornate eguali d' un anno, negli anni d'una esistenza, si vive, si è se stessi poche volte o una volta sola. Per molti, quel momento fu il 1944. Affetti, dedizione, paura, speranza furono sentiti con intensità mai superata; c'era tra tutti una solidarietà fraterna che rancori e competizioni cancellarono presto. Eravamo ingenui, manichei: tutto il bene di qua, tutto il male di là. Molti valori erano ancora tali. Come in una radiografia interiore, s'era visto il meglio e il peggio di ognuno. Privazioni e dolori erano compensati da tanta generosità e consolati dall'umorismo d'un popolo capace di eludere ironicamente ingiunzioni e divieti. Furono giorni atroci e luminosi.
"Ed è subito sera".

“la Repubblica”, 26 maggio 1984

1 commento:

a.m. manzini ha detto...

Bellissimo, da far leggere nelle scuole, ai ragazzi dell'ultimo anno, e possibilmente ai loro genitori e nonni.
E far leggere anche libri della Storoni, precisi affascinanti chiari e con fonti e riferimenti indicati in modo facile e preciso.

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