Chiunque voglia raccontare la
storia del nostro paese non potrà non incontrare per una buona parte del secolo
scorso la personalità di Vittorio Foa. E' stato un protagonista insieme
singolare e partecipe di tutti gli eventi collettivi più importanti della
storia nazionale. Un maestro riconosciuto come tale da molte generazioni di
giovani che trovarono in lui un ineguagliabile punto di riferimento culturale,
morale e politico. La sua formazione sfuggiva ai canoni della cultura politica
tradizionale. Il suo pensiero liberale faceva da sottofondo al pensiero
politico socialista, ispirato a una lettura di Marx lontana dall'ortodossia
leninista. In questo senso, non appartenne mai a una corrente politica senza
rimanere contemporaneamente se stesso, spesso solitariamente e suggestivamente
diverso.
Nella sinistra italiana è
sembrato spesso che lo spirito liberale, la radicalità democratica, e una
concezione socialista profondamente egualitaria dovessero confliggere. In
Vittorio la loro mediazione aveva qualcosa di naturale. Facevano tutt'uno nel
suo pensiero, e la proposta di lavoro politico o sindacale ne scaturiva in modo
armonioso. Chi lo ha conosciuto sa che Vittorio aveva un suo modo di analizzare
e giudicare le vicende politiche. Al di sotto delle forme più o meno statiche
degli eventi, si sforzava di individuare ciò che si muoveva nel modo di essere,
di pensare, di agire delle donne, degli uomini, dei giovani sui quali l'uomo
politico o il sindacalista era chiamato a riflettere e a operare.
Era a suo modo un uomo delle
istituzioni. Aveva contribuito a stendere la Costituzione e appartenne sempre
ai vertici dei partiti in cui militò o che contribuì a costruire: dal Partito
d'azione, al Partito socialista, al Psiup e a altri minori quanto effimeri. Ma,
se da un lato, riconosceva il ruolo importante delle istituzioni, il suo
principale punto di riferimento era il «movimento», le correnti profonde che si
muovevano nella società. Da questo punto di vista, se l'espressione potesse non
apparire banale e abusata, era un «movimentista». In questo senso, la sua
lezione, al di là dei passaggi che l'evoluzione degli scenari politici
imponevano, fu sempre uguale a se stessa, fondata su un pensiero autonomamente
critico e sul ripudio di ogni forma di burocratizzazione dell'organizzazione.
Questo stile intellettuale e politico, che intrecciava convinzioni forti, una
grande passione civile e insieme disincanto, faceva di Foa una personalità
singolare. L'incontro con Vittorio serviva a allargare la prospettiva
dell'analisi e del discorso. Era un incontro umano impegnativo e ricco di
attese: lasciandolo non si poteva non avvertire una compiaciuta sensazione di
arricchimento.
Detto in questo modo può sembrare
che si stia parlando della funzione di un intellettuale più o meno distaccato
dall'intrico delle vicende sociali e politiche contingenti. Ma sarebbe
un'impressione falsa. Non a caso Foa, dopo l'esperienza di costituente e mentre
era un leader e un parlamentare socialista, scelse il mestiere di sindacalista.
Dirigente sindacale della Cgil insieme con Di Vittorio e Santi che non smise
mai di ammirare e, a suo modo, amare. Dirigente dei metalmeccanici, e nella
confederazione ispiratore del prestigioso Ufficio studi, nella cui direzione si
distinse il più giovane Trentin. Fu alla direzione del sindacato per oltre
venti anni - che erano anche gli anni della sua piena maturità - fin quando non
lasciò nel 1970.
In quest'esperienza Vittorio
contribuì a fare della Cgil un sindacato diverso rispetto al tradizionale
sindacalismo europeo. L'autonomia del sindacato dai partiti si radicava per Foa
nell'analisi della condizione operaia. Ma questo non doveva significare una
divisione di ruoli che, nella tradizione socialdemocratica europea, attribuiva
la dimensione rivendicativa contingente al sindacato e le prospettive di
cambiamento sociale al partito. L'analisi della condizione dei lavoratori è
l'imprescindibile punto di partenza della strategia sindacale. Nell'inaugurare
la famosa serie dei “Quaderni Rossi” nel 1961, Foa scriveva che la strategia
del sindacato non può esaurirsi nel processo rivendicativo, dovendo misurarsi
con un «discorso più vasto» che «l'analisi della condizione operaia» non può
esaurire, ma dalla quale, tuttavia, non si può prescindere. L'intreccio fra
autonomia della strategia sindacale e una più vasta prospettiva culturale e
politica contribuì alla tenuta dell'autonomia e dell'unità della Cgil rispetto
alle divisioni interne alla sinistra italiana. Su queste basi sembrò a un certo
punto possibile costruire l'unità del sindacalismo italiano sull'onda dei
grandi movimenti di lotta della fine degli anni Sessanta. Poi le cose andarono
diversamente. I vecchi partiti della classe operaia iniziarono un periodo di
lungo declino fino alla loro scomparsa, mentre il sindacato rimaneva
irrimediabilmente diviso.
Quando Foa lasciò nel 1970 la
Cgil - ma forse avrebbe potuto rimanervi con il ruolo che, in altre circostanze
e in tempi politici diversi, non poteva che essergli riconosciuto - la sua
funzione di intellettuale e di punto di riferimento politico non solo non venne
meno ma, per molti versi, acquistò una risonanza ancora più larga. Formia, la
sua ultima casa, divenne un luogo di incontro di amici e compagni giovani, o
che giovani non erano più, ma che da lui avevano imparato stili di pensiero e
modelli di comportamento morale e politico.
Da qualsiasi punto si voglia
osservare il viaggio umano di Vittorio attraverso buona parte del secolo nel
quale siamo vissuti, la sua lezione di politico, di sindacalista, di
intellettuale merita oggi, e meriterà ancora in futuro, una rinnovata e
profonda riflessione. Essa può illuminare alcuni aspetti di un passato in parte
confuso, o che in parte si tende a cancellare, e insieme un presente culturalmente
e politicamente così profondamente incerto.
il manifesto, 22 ottobre 2008
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