20.10.13

Vittorio Foa, il “movimentista” (di Antonio Lettieri)

Chiunque voglia raccontare la storia del nostro paese non potrà non incontrare per una buona parte del secolo scorso la personalità di Vittorio Foa. E' stato un protagonista insieme singolare e partecipe di tutti gli eventi collettivi più importanti della storia nazionale. Un maestro riconosciuto come tale da molte generazioni di giovani che trovarono in lui un ineguagliabile punto di riferimento culturale, morale e politico. La sua formazione sfuggiva ai canoni della cultura politica tradizionale. Il suo pensiero liberale faceva da sottofondo al pensiero politico socialista, ispirato a una lettura di Marx lontana dall'ortodossia leninista. In questo senso, non appartenne mai a una corrente politica senza rimanere contemporaneamente se stesso, spesso solitariamente e suggestivamente diverso.
Nella sinistra italiana è sembrato spesso che lo spirito liberale, la radicalità democratica, e una concezione socialista profondamente egualitaria dovessero confliggere. In Vittorio la loro mediazione aveva qualcosa di naturale. Facevano tutt'uno nel suo pensiero, e la proposta di lavoro politico o sindacale ne scaturiva in modo armonioso. Chi lo ha conosciuto sa che Vittorio aveva un suo modo di analizzare e giudicare le vicende politiche. Al di sotto delle forme più o meno statiche degli eventi, si sforzava di individuare ciò che si muoveva nel modo di essere, di pensare, di agire delle donne, degli uomini, dei giovani sui quali l'uomo politico o il sindacalista era chiamato a riflettere e a operare.
Era a suo modo un uomo delle istituzioni. Aveva contribuito a stendere la Costituzione e appartenne sempre ai vertici dei partiti in cui militò o che contribuì a costruire: dal Partito d'azione, al Partito socialista, al Psiup e a altri minori quanto effimeri. Ma, se da un lato, riconosceva il ruolo importante delle istituzioni, il suo principale punto di riferimento era il «movimento», le correnti profonde che si muovevano nella società. Da questo punto di vista, se l'espressione potesse non apparire banale e abusata, era un «movimentista». In questo senso, la sua lezione, al di là dei passaggi che l'evoluzione degli scenari politici imponevano, fu sempre uguale a se stessa, fondata su un pensiero autonomamente critico e sul ripudio di ogni forma di burocratizzazione dell'organizzazione. Questo stile intellettuale e politico, che intrecciava convinzioni forti, una grande passione civile e insieme disincanto, faceva di Foa una personalità singolare. L'incontro con Vittorio serviva a allargare la prospettiva dell'analisi e del discorso. Era un incontro umano impegnativo e ricco di attese: lasciandolo non si poteva non avvertire una compiaciuta sensazione di arricchimento.
Detto in questo modo può sembrare che si stia parlando della funzione di un intellettuale più o meno distaccato dall'intrico delle vicende sociali e politiche contingenti. Ma sarebbe un'impressione falsa. Non a caso Foa, dopo l'esperienza di costituente e mentre era un leader e un parlamentare socialista, scelse il mestiere di sindacalista. Dirigente sindacale della Cgil insieme con Di Vittorio e Santi che non smise mai di ammirare e, a suo modo, amare. Dirigente dei metalmeccanici, e nella confederazione ispiratore del prestigioso Ufficio studi, nella cui direzione si distinse il più giovane Trentin. Fu alla direzione del sindacato per oltre venti anni - che erano anche gli anni della sua piena maturità - fin quando non lasciò nel 1970.
In quest'esperienza Vittorio contribuì a fare della Cgil un sindacato diverso rispetto al tradizionale sindacalismo europeo. L'autonomia del sindacato dai partiti si radicava per Foa nell'analisi della condizione operaia. Ma questo non doveva significare una divisione di ruoli che, nella tradizione socialdemocratica europea, attribuiva la dimensione rivendicativa contingente al sindacato e le prospettive di cambiamento sociale al partito. L'analisi della condizione dei lavoratori è l'imprescindibile punto di partenza della strategia sindacale. Nell'inaugurare la famosa serie dei “Quaderni Rossi” nel 1961, Foa scriveva che la strategia del sindacato non può esaurirsi nel processo rivendicativo, dovendo misurarsi con un «discorso più vasto» che «l'analisi della condizione operaia» non può esaurire, ma dalla quale, tuttavia, non si può prescindere. L'intreccio fra autonomia della strategia sindacale e una più vasta prospettiva culturale e politica contribuì alla tenuta dell'autonomia e dell'unità della Cgil rispetto alle divisioni interne alla sinistra italiana. Su queste basi sembrò a un certo punto possibile costruire l'unità del sindacalismo italiano sull'onda dei grandi movimenti di lotta della fine degli anni Sessanta. Poi le cose andarono diversamente. I vecchi partiti della classe operaia iniziarono un periodo di lungo declino fino alla loro scomparsa, mentre il sindacato rimaneva irrimediabilmente diviso.
Quando Foa lasciò nel 1970 la Cgil - ma forse avrebbe potuto rimanervi con il ruolo che, in altre circostanze e in tempi politici diversi, non poteva che essergli riconosciuto - la sua funzione di intellettuale e di punto di riferimento politico non solo non venne meno ma, per molti versi, acquistò una risonanza ancora più larga. Formia, la sua ultima casa, divenne un luogo di incontro di amici e compagni giovani, o che giovani non erano più, ma che da lui avevano imparato stili di pensiero e modelli di comportamento morale e politico.
Da qualsiasi punto si voglia osservare il viaggio umano di Vittorio attraverso buona parte del secolo nel quale siamo vissuti, la sua lezione di politico, di sindacalista, di intellettuale merita oggi, e meriterà ancora in futuro, una rinnovata e profonda riflessione. Essa può illuminare alcuni aspetti di un passato in parte confuso, o che in parte si tende a cancellare, e insieme un presente culturalmente e politicamente così profondamente incerto.


il manifesto, 22 ottobre 2008

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