L’articolo dello storico Lucio
Caracciolo che qui “posto” è una ricostruzione documentata e appassionata del
sacco urbanistico di Roma negli anni Cinquanta del secolo scorso. C’è – in verità
– un’omissione che m’è dispiaciuta, non so se volontaria o frutto di incompleta
informazione: in Consiglio comunale, a Roma, il più implacabile nella denuncia
delle immobiliari e del Vaticano nella crescita speculativa e abnorme della
città non fu un liberale o un laico, ma un comunista, e la sua opposizione non
si basava su un generico “antiforchettonismo”, ma su dati tecnici, economici e
politici. Era Aldo Natoli.
Siamo in attesa che Rosario
Russo, il giovane studioso e giornalista di cui abbiamo letta la tesi di laurea
sull’argomento, concluda la sua ricerca e ne pubblichi i risultati, di modo che
si dia a Natoli ciò che è di Natoli. Tuttavia è vero che costui, nella sua
battaglia d’opposizione in Campidoglio, fu lasciato solo anche dai suoi compagni
duri e stalinisti che non volevano dare troppo fastidio al “costruttore rosso”,
quell’Alvaro Marchini che fu anche presidente della Roma. (S.L.L.)
1952 - L'arrivo della statua all'Istituto di Don Orione |
La Vergine a Monte Mario
Un bel giorno d'aprile del 1953
la Madonna appare a Monte Mario. I giornali ne pubblicano la fotografia: la
Vergine, alta dieci metri, poggia sulla Torre Littoria dell'Opera Balilla. E'
avvolta in panneggi dai riflessi dorati e di notte s'illumina d'una luce
radiosa, per dar modo a tutti d'ammirarla. Senonché, al gusto dei più, sembra
decisamente brutta. Inoltre occupa illegalmente un luogo riservato a parco
pubblico. Pare che la Madonna abusiva si debba allo zelo mariano di un prelato,
tal Roberto Misi, procuratore generale per i Figli di Don Orione. Invano
l'assessore liberale all'urbanistica, Leone Cattani, saputo del progettato
monumento, esorta il procuratore generale a rinunciarvi, a piantare semmai
alberi e cespugli. Il sacerdote non si dà per vinto. Là dove Costantino sognò
la Croce deve svettare il sacro segnacolo, con buona pace delle leggi terrene.
Cattani tenta allora in extremis un colpo di mano: acquista di tasca propria
alcune piante e provvede personalmente a collocarle nel terreno che il prete
vorrebbe destinare al simulacro, non senza aggiungere una generosa offerta a
favore dell'Ente religioso. Misi intasca l'obolo e costruisce la statua.
Il terzo sacco di Roma
Ne nasce un caso che minaccia di
travolgere la giunta guidata dal democristiano Salvatore Rebecchini. Il Pli
denuncia il "deplorevole atto di indisciplina e di sfida alla legge e alle
Autorità". Per calmare i liberali, il sindaco esibisce una lettera inviata
da Misi al Vicario di Roma, Luigi Traglia, che merita di esser letta:
"Eccellenza Reverendissima, presentiamo vive scuse a V.S. Rev.ma per avere,
di sola nostra iniziativa, in occasione della Santa Pasqua, innalzato alle
pendici di Monte Mario la statua della Madonna, con preghiera di parteciparle
anche all'onorevole signor Sindaco. Assicuriamo l'E.V. Rev.ma che si procederà
appena possibile agli ulteriori lavori di adattamento, resisi necessari per il
completamento artistico ed estetico del monumento, in modo che sia degno della
Madonna di Roma. Chinato al bacio del S. Anello, mi professo di V.E. Rev.ma
dev.mo ed um.mo in G.C. F.to: Sac. Roberto Misi".
A Cattani, che s'indigna per l'"insolente"
missiva, il sindaco mostra, col più dolce dei sorrisi, un grafico dal quale
indubitabilmente traspare la modestia della violazione commessa dall'operoso
sacerdote. "Caro sindaco", replica l'assessore, "Ella mi ha ricordato
un po' la storia di Petrolini quando incontra un amico che ha fatto un vistoso
matrimonio con una tale che... però ha un figliolino, ma piccolo, piccolo,
piccolo!". Ha ragione Rebecchini: la vicenda della Madonna di Monte Mario,
per quanto esemplare di un'epoca, è ben misera cosa, un granello di polvere nel
turbine edilizio passato alla storia come "terzo sacco di Roma".
Negli anni della gestione Rebecchini (1947-1956) e dei successori Tupini e
Cioccetti, la speculazione fondiaria celebra i suoi fasti, Vaticano e Dc
benedicenti.
Immobiliare senza vincoli
Mentre la Capitale si gonfia di
cemento, gli amabili sindaci democristiani si esibiscono in stornelli
popolareschi, producono dotte esegesi sul Belli, non perdono occasione per
manifestarsi devotamente obbedienti alle Somme Chiavi. La Dc romana è la punta
visibile dell'iceberg, il capogruppo del trust che poggia sulla Società
Generale Immobiliare, sulla proprietà fondiaria di nobiltà più o meno recente,
sui "palazzinari" e, specialmente, sul Vaticano. Di questo
formidabile impero che a Roma tutto può e per Roma tutto dispone, i Rebecchini
e i Cioccetti sono in fondo l'elemento folkloristico. Loro compito è d'impedire
che il Comune intervenga a turbare l'opera delle immobiliari, pretendendo il
rispetto dei vincoli urbanistici. Non è impresa troppo difficile. A parte
Cattani e pochi altri esponenti liberali, radicali, laici particolarmente
puntigliosi, gli avversari sono piuttosto inoffensivi. L'opposizione di
sinistra impegna furibonde campagne contro i "forchettoni", lancia
accuse infamanti, ma è lontanissima dal produrre una cultura e un programma di
governo applicabili a una metropoli occidentale. Le denunce del “Mondo” e dell'“Espresso”
riscuotono qualche successo, malgrado l'omertà della stampa filogovernativa. Ma
intellettuali e urbanisti inquieti non possono pretendere d'imbrigliare il
fervore edificatorio delle immobiliari. La tessera dello scudo crociato
garantisce promozioni e benefici. Intorno al Campidoglio democristiano s'affollano
i clienti, i grandi, piccoli e minimi burocrati delle opere religiose, dello
Stato e del parastato, degli enti assistenziali. Nel solo Ente Nazionale
Previdenza Infortuni, ad esempio, sono sistemati 33 segretari di sezione dc.
Poi ci sono le parrocchie e l'Azione cattolica, che ad ogni campagna elettorale
issano il vessillo da combattimento, incitano alla resistenza contro
"Togliattov" e la sua banda di cosacchi, avvertono che il dilemma è
"con Cristo o contro Cristo", promettono scorciatoie per il paradiso
a chi s'arruolerà nella crociata in difesa dell'Urbe cattolica.
Pio XII attraversa una fase di
profondo misticismo; dopo che una crisi di singhiozzo trascende fino a
minacciarne la vita, si sparge la voce che Gesù Cristo sia apparso al suo
capezzale. Mai come negli anni Cinquanta il Vaticano è padrone di Roma. Sotto
papa Pacelli - rampollo di un'antica famiglia romana - la Santa Sede raccoglie
i frutti dell'opera avviata da Pio IX, per cui controlla direttamente o
indirettamente la speculazione sulla Capitale. Il Consiglio d'amministrazione
della Società Generale Immobiliare pullula di Camerieri Segreti e Cavalieri di
Cappa e Spada. Accanto a loro siedono il professor Valletta, capo della Fiat, e
l'ingegner Pesenti, padrone dell'Italcementi. E c'è persino il principe
Marcantonio Pacelli, avvocato rotale e nipote del pontefice regnante.
L'Immobiliare capeggia il
consorzio dei proprietari fondiari, il cui potere è uscito rafforzato dalla
guerra. La svalutazione della lira e la fame di case hanno moltiplicato i loro
patrimoni. Molti sono anche costruttori e produttori di materiali edilizi, come
nell'Ottocento, o si legano ai nuovi "palazzinari" espressi dal
generone romano. I Gerini, i Lancellotti e pochissimi altri si spartiscono
cinquemila ettari di terreno. L'Immobiliare ha possedimenti ai quattro punti
cardinali, sicché non c'è direttrice d'espansione urbana che non la veda
protagonista.
In teoria, il Comune dovrebbe
impedire gli abusi, punire gli illeciti, orientare l'urbanizzazione. Di fatto,
se ne disinteressa. Resta in vigore il Piano regolatore del 1931, che lascia
mano libera alla speculazione sulle aree, mentre giacciono nel cassetto quei
progetti d'epoca fascista che prospettavano lo sviluppo lineare dell'Urbe. L'
assessore Storoni, liberale, ammette nel dicembre 1953: "Ci mancano gli
strumenti di controllo necessari a contenere l'enorme pressione degli
interessi. Numerosi articoli di legge ci consentono di elevare contravvenzioni,
di ordinare sospensioni e demolizioni. Ma la nostra attività è paralizzata dall'
imponenza del fenomeno e dalla violenza delle pressioni private". I
funzionari municipali sono spesso legati a questo o quel costruttore, e accade
persino che si contendano in pubblico le bustarelle. Chiunque può entrare negli
uffici comunali e servirsi da sé. Occorre aggiungere un piano alla propria
casa? Il privato cittadino scartabella, trova la sua pratica, inserisce il foglio
supplementare. Negli anni d'oro di Rebecchini un funzionario si lamenta presso
l'assessore Cattani perché certa gente, per mostrare la confidenza che ha con
lui, entra nel suo ufficio e gli batte manate sulla pancia. C'è anche chi
confisca i bolli comunali per fabbricare regolari licenze. I vigili che
dovrebbero elevare contravvenzioni agli abusivi non possono visitare i cantieri
perché le lambrette loro promesse non arrivano mai, e alla fine s'adattano ad
andare a piedi. Ma per una contravvenzione il Comune spende mille e incassa
ottocento. Il Campidoglio affoga nei debiti, tutte le aziende municipali sono
passive. Le ditte costruttrici sfruttano il vuoto amministrativo per surrogare
le competenze comunali. Non di rado preparano esse stesse i piani
particolareggiati per nuovi quartieri, magari dopo averli già costruiti, e
pretendono che il Comune vi porti acqua, gas, fogne, strade, autobus, in modo
da valorizzare tutta l'area circostante, donde partirà la nuova ondata di
cemento. Così a Vigna Clara l'Immobiliare compra a 400 lire per metro quadro
terreni agresti che rivenderà a 40 mila lire dopo avervi edificato un quartiere
signorile di cui essa stessa ha disegnato il piano. Durante un'assemblea di
soci dell'Immobiliare si stabilisce che "in avvenire il Comune di Roma
dovrà mostrarsi più comprensivo nei riguardi dell'Immobiliare, lasciandola
libera di applicare il Piano regolatore secondo le sue vedute. L'Immobiliare
possiede tutti i mezzi, architetti, tecnici, urbanisti ecc., per dare a Roma lo
sviluppo che compete a una città della sua tradizione".
Febbre edilizia e miseria delle baracche
Dal Campidoglio, Cioccetti fa eco: "Quanto al mondo è civile, è romano ancora. Vogliamo dare a Roma il volto solenne e radioso che le compete". E Roma s'ingrossa per ogni dove. I casermoni si dilatano lungo la Prenestina, la Tuscolana e l' Appia Nuova, palazzine e villini spuntano al Belsito, a Monteverde Nuovo e Vecchio, scavalcano Monte Mario per invadere la Camilluccia, i Due Pini. Si moltiplicano le borgate, da Boccea a Torre Vecchia, al Quarto Miglio, Casal Bertone, Parrocchietta. I baraccati appoggiano i loro tuguri tra i fornici degli acquedotti, lungo via Trionfale, persino sotto le lussuose ville dei Parioli. Difficile dire quanti siano, forse più di centomila. Certo è che nel 1969 sono ancora 70 mila, una città come Pisa. La febbre edilizia non soddisfa il bisogno di abitazioni accessibili a tasche popolari. Il dramma della casa miete il maggior numero di vittime nei primi anni Cinquanta, quando le cronache dei giornali si riempiono di suicidi per minaccia di sfratto, di sfrattati che sparano sull' ufficiale giudiziario venuto a intimar loro l'espulsione, di baraccati e borgatari ridotti in condizioni subumane. L'inchiesta parlamentare sulla miseria registra nel 1953 casi di persone che vivono di carità, che non possono nemmeno pagarsi il rinnovo della tessera di povertà. Il Comune calcola che metà delle abitazioni siano sprovviste di bagno e una su dieci non abbia nemmeno la latrina. Pio XII fa sentire la sua solidarietà agli "aggrottati", ai "cavernicoli", agli "appollaiati in locali scantinati", condanna "l'usura fondiaria e ogni speculazione finanziaria economicamente improduttiva con un bene così fondamentale qual è il suolo".
C'è una Roma povera, emarginata, ignorante (metà dei cittadini, alla fine degli anni Cinquanta, non ha superato la quinta elementare, e gli analfabeti si contano a decine di migliaia). Ma accanto ad essa fiorisce la città del benessere e della dolce vita. Piccoli lottizzatori, impiegati, commercianti, tecnici, cominciano la scalata verso le posizioni più elevate della piramide sociale. Taluni si riempiono di debiti fino al collo, ma non rinunciano all'appartamento signorile nella palazzina dei quartieri borghesi, all' automobile e alla tv. Molti di loro nemmeno sanno dell'esistenza di un'altra città, che in quanto a squallore nulla ha da invidiare alle bidonvilles africane. In questo regime d'anarchia edilizia anche i più generosi tentativi di controllo e di programmazione vengono rapidamente travolti. E' il caso delle leggi anti-abusivi che, alternando sanzioni punitive a sanatorie, sfociano nella più classica eterogenesi dei fini, stimolando esse stesse la germinazione della metropoli spontanea.
Qualche maggiore speranza suscita il progetto di Piano regolatore disegnato nel 1957 da un comitato tecnico di alto livello. Esso ripropone l'espansione preferenziale verso Est - la grande utopia urbanista da Sella in poi -, il decentramento degli apparati direzionali, la fine della "macchia d' olio". Ma in Campidoglio spadroneggiano quei sindaci democristiani che di fronte alle esercitazioni degli urbanisti ribattono increduli: "Possibile che proprio adesso, mentre la città sta esplodendo d'attività edilizia, si debba fare un Piano regolatore?". Il Piano si farà nel 1962, ma sarà solo una pallida copia del progetto del 1957, e verrà a sua volta modificato. C'è forse una mano misteriosa e maligna che stravolge ogni illusione tecnocratica, soffoca nella culla ogni sorta di ordinamento urbanistico, sia buono o cattivo, di destra o di sinistra? In verità anche il Piano del 1962 deve passare sotto le forche caudine che già hanno fatto strame dei suoi predecessori: il potere della rendita fondiaria e dei costruttori privati, per i quali lo sviluppo elefantiaco del corpo urbano è necessità vitale, essendo la casa, dal loro punto di vista, un bene-rifugio e non un bene d'uso. Persino sotto il fascismo l'antica prepotenza fondiaria si era scontrata con i soprassalti dirigisti del potere politico. Solo il Campidoglio democristiano rinuncia programmaticamente a governare la crescita dell'Urbe e premia il vandalismo edilizio. D'ora in avanti non sarà più questione di fare della vecchia Roma una città moderna, ma di fare della nuova Roma una città.
“la Repubblica”,16 dicembre 1984
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