Auguriamoci che la nostra
televisione abbia stasera uno schermo più grande, colori più accesi, un nuovo
senso della profondità per presentarci Charles Darwin quale egli è: un gigante.
Veramente, lo sceneggiato
inglese in sette puntate di cui la nostra televisione presenterà questa sera
(Rete 1, ore 21,55) la prima, non si riferisce al Darwin delle grandi scoperte,
ma al Darwin che, ventiduenne, si imbarca nel 1831 sulla Beagle per un viaggio
di esplorazione intorno al mondo, in cui raccoglierà le premesse per l'opera
maggiore, Origine della specie per
selezione naturale, che apparirà nel 1859.
Come sarebbe a dire: origine
della specie? Non è stata creata questa specie — umana vegetale animale — direttamente
da Dio, una volte par tutte? E che cos'è questa selezione naturale? Come Dio
l'ha creata, la specie — umana, vegetale, animale —. così la natura la
conserva. E la conserverà. Nei secoli dei secoli.
Giustamente la Chiesa si
scandalizza, nel 1859. Ha capito fin troppo bene ciò che Darwin ha fatto. Ha
detto della «specie» ciò che Galileo aveva detto della terra: «eppur si muove».
Darwin è uno di quei giganti del pensiero ottocentesco — come Marx, come Freud
e (giacché oggi ci vuole) come Nietzsche — dopo i quali non è più possibile
pensare allo stesso modo di prima. E tuttavia, mentre meniamo pubblico vanto di
passare le nostre giornate intellettualmente operose con Marx, con Freud e (da
qualche anno) con Nietzsche, non citiamo mai Darwin, non lo annoveriamo mai fra
i nostri interlocutori privilegiati. Perché?
Facciamo l'ipotesi più semplice
(magari per scartarla subito dopo): forse ci dà ancora fastidio quest'idea di
discendere dalla scimmia. Forse non siamo tanto diversi dalla moglie del
vescovo di Worchester che diceva allarmata al marito: «Come? Noi discendere
dalle scimmie? Speriamo che non sia vero. Ma se è vero, preghiamo che non si
venga a sapere». Quant'è più nobile, quanto suona meglio la difesa ufficiale
che la Chiesa fa della validità letterale delle Scritture. Specie in latino:
«Nihilominus sententia cattolica est, verba illa scripturae esse ad litteram
inteligenda. Ac proinde vere, ac realiter tulisse Deum costam Adamae, et ex
ella corpus Evae formasse».
Ac proinde, ac realiter: per la
verità Darwin non ha mai detto una banalità simile: l'uomo discende dalla
scimmia. Ha detto una cosa molto più terribile. Sulla base di tre fatti
osservabili in natura e di due deduzioni personali, Darwin ha affermato, nell'Origine della specie, quanto segue.
Primo fatto: tutti gli organismi
tendono a riprodursi in proporzione geometrica. I cuccioli di qualsiasi specie
tendono ad essere più numerosi dei genitori.
Secondo fatto: ciò nonostante, il
numero dei membri di una specie tende a rimanere stabile.
Prima deduzione: vuol dire che
c'è, che ha agito una certa competizione per la sopravvivenza.
Terzo fatto: gli individui che
compongono una specie non sono mai perfettamente identici fra di loro. Ci sono
sempre fra di loro delle «variazioni ».
Seconda deduzione: si può allora
supporre che agisce una certa selezione naturale. Alcune di quelle variazioni
saranno più favorevoli alla sopravvivenza, altre meno.
Facciamo adesso tre più due.
Sommiamo i tre fatti e le due deduzioni. La isomma sarà la rivoluzione
copernicana di Darwin. Al posto di una spiegazione del'universo «teleologica»,
che guarda al futuro (il mondo è stato creato in fondo « ad maiorem Dei gloriam
») Darwin sostituisce una spiegazione « genetica », che guarda al passato.
Quest'uomo vuoi detronizzare Dio,
dicevano scandalizzati i teologi dell’Ottocento. Quest'uomo ha decretato, assai
prima di Nietzsche, la morte di Dio. D'ora in poi, sarà lui la lepre e la
Chiesa il cacciatore. Sarà la Chiesa a doverlo inseguire. E tanto per
dimostrare che la specie — anche quella divina — si evolve sotto il peso della
necessità ambientale, lo stesso concetto di Dio creatore andrà modificandosi.
Perché i fatti daranno ragione a
Darwin. Alcune cose della teoria darwiniana sono ancora poco chiare, poco
convincenti. ma il codice genetico, il progresso nello studio dei fossili, la
teoria della deriva continentale sono tutte a suo favore.
Però la noi non interessa che
Darwin abbia ragione. « Aver ragione » in termini di scienza è un concetto
molto delicato da adoprare. Assai più importante è il fatto che ha avuto
ragione. Che si è imposto. Che ha imposto la sua teoria a tutta la cultura del
secolo. E' lui, Darwin, e non Max Weber, il « Marx della borghesia». Il
darwinismo è stato la filosofia che ha presieduto al colossale sviluppo industriale
americano del secondo Ottocento e lo ha legittimato. Pensava John D. Rockefeler:
« La rosa americana può fiorirle con lo splendore e la fragranza che tanto
rallegra chi la coglie soltanto a patto di sacrificare i giovani germogli che
le crescono attorno ». E Andrew Carnegie: « Una lotta è inevitabile, e si risolverà
nella sopravvivenza del più forte».
E’ lui, Darwin il profeta del
capitalismo realizzato. Non ci si sarebbe riconosciuto più di quanto Marx non
sa riconoscerebbe nel socialismo realizzato. Come gli sarebbe potuta piacere
l'affermazione da zar stalinista di John D. Rockefeller «Il mio danaro ime l'ha
dato Iddio»? La legge della sopravvivenza del più fonte si risolveva troppo
spesso nel trionfo del più furbo.
E qui veniamo al motivo vero per
cui noi non teniamo in casa il dipinto della sua barba accanto a quelle
venerande di Marx e di Freud. Perché temiamo di metterci in casa un apologeta
del capitalismo selvaggio, del «laissez faire», della competizione sfrenata.
Come se il capitalismo la smettesse di fiorire solo perché noi facciamo come lo
struzzo — animale notoriamente poco evoluto - e nascondiamo la testa nella
sabbia.
E poi, e soprattutto, perché nella
dottrina di Darwin non c'è nessuna consolazione. Marx ci conforta facendoci credere
che vedremo «la rivoluzione» («giorno verrà, presago il cor mel dice»). Freud
ci autorizza a sperare in miracolose romanzesche terapie. La lettura di Nietzsche
ci dà l'illusione che possiamo essere noi il superuomo (e non lo siamo già par
il fatto stes¬so che lo leggiamo?). Ma allo sterminio che il darwinismo vede e
prevede non c'è rimedio.
E Darwin lo sapeva. Lo sapeva
anche meglio ci noi. Noi oggi sappiamo - e in questo stiamo un po' meglio di
lui — che nel mondo attuale non ci sono soltanto lotte spietate per la
sopravvivenza, ci sono anche forme di solidarietà. Darwin a questo aveva
pensato poco. Perciò la fine della sua vita fu molto amara. Il giovanetto che
vedremo in televisione questa sera aveva messo piede sulla «Beagle» con animo
romantico. Amava la letteratura la musica i grandi paesaggi. Il vecchio che ha
vinto la battaglia della scienza ha nell’autobiografia e nelle lettere pagine
molto amare. Non riesce a trovare conforto in nulla. Nemmeno in Shakespeare,
che tanto aveva amato.
“la Repubblica”, 10 novembre 1979
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