Puglisi e Diana sono i cognomi di
due preti cattolici che morirono sotto il piombo delle grandi organizzazioni
criminali che avevano osato sfidare, la mafia e la camorra. Altri ce ne sono
che hanno combattuto e combattono per la legalità e la giustizia a fianco delle
vittime dei soprusi mafiosi, che rifiutano compromessi e omertà. Il prete
cattolico Luigi Ciotti presiede “Libera”, una diffusa rete di associazioni e di
persone che con coraggio contrasta le mafie su molti terreni. Né sono mancate
nella stessa gerarchia ecclesiastica figure e momenti di significativo impegno:
il cardinale Pappalardo, che denuncia con durezza acquiescenze e collusioni
rompendo con la tradizione giustificazionista di un arcivescovo di Palermo che
l’aveva preceduto, il cardinale Ruffini; il papa polacco che, ad Agrigento, a
sorpresa, intima agli uomini della mafia di pentirsi.
Sui rapporti tra preti e mafiosi
c’è tuttavia un bel libro-inchiesta di qualche anno fa, Le sagrestie di Cosa Nostra di Vincenzo Ceruso (Newton Compton,
2007), che – pur valorizzando una nuova positiva combattività antimafia in
alcuni pezzi del mondo ecclesiastico – mostra come compromissione e
acquiescenza siano stati a lungo e restino atteggiamenti assai diffusi nel mondo ecclesiastico. Se
davvero il nuovo papa argentino vuole far pulizia tra i sacerdoti della sua
religione, si rammenti che in vaste zone del Mezzogiorno d’Italia il legame tra
parrocchie e “famiglie” va reciso e che è un problema non meno grave di quello
della pedofilia. C'è un criterio empirico per verificare se un parroco, in
Sicilia, sia o no vicino alla mafia. Basta esaminare la composizione dei
comitati per le feste patronali: spesso per la gente del posto è sufficiente la
lettura per sentire un certo odore, caratteristico.
L’articolo che qui riporto, di
Attilio Bolzoni, è vecchio di una quindicina d’anni e racconta i casi più
eclatanti dello storico legame tra mafia e preti. E’ comunque utile come
promemoria.
Scrive a un certo punto il
giornalista che “non c’è mafia senza chiesa”, il che è verissimo quando si tratta
di “mafia militare”, cioè della criminalità organizzata. Quando si tratti della
“mafia trionfante” (per usare un’espressione cara a Mario Mineo), cioè quella
parte del potere economico, burocratico, politico, che con le mafie armate ha
un collegamento strutturale, organico, che le usa e ne è usata, il nesso con la
gerarchia cattolica forse c’è ugualmente, ma ha altri canali, altre
manifestazioni, meno plateali ed evidenti. (S.L.L.)
Palermo, Il Convento di Santa Maria di Gesù ai piedi del monte Grifone |
E sotto la tonaca, una pistola
(di Attilio Bolzoni)
Palermo - Il vecchio don Calò
viveva di privilegi. E un privilegio era anche quello di avere una famiglia
molto religiosa. Passato alla storia come il capomafia che - alla fine della
guerra - aveva accolto alle porte del suo paese il primo generale americano,
don Calò morì nel suo letto cristianamente e amorevolmente assistito da due
fratelli preti, dal cugino parroco e da due zii vescovi. Prima di volare in
paradiso, Calogero Vizzini, padrone di Villalba e della Sicilia del feudo,
volle scegliere il suo successore in un uomo di profonda fede.
Uno di quelli che non si
addormentava mai senza avere recitato un Padre Nostro o un'Ave Maria, uno che
"prendeva" la sua saggezza direttamente da Dio. E don Calò incoronò
Giuseppe Genco Russo. Era delle sue parti, aveva l' aspetto di un contadino,
anche lui dopotutto aveva un sacerdote in casa. Era il cugino di suo cugino.
Non c' è mafia senza chiesa. Non
ci sono mafiosi senza fede. E' sempre andata così. In tempi antichi e in tempi
moderni. Fino a ieri, fino a oggi. Fino al "favoreggiamento" di don
Mario, carmelitano della Kalsa che voleva redimere Pietro Aglieri. Voleva
salvare la sua anima, l' anima di un assassino latitante che era braccato dai
poliziotti. Padre carismatico, don Mario voleva fare il "miracolo"
anche con lui: anche con ù signurinu. E' sempre andata così... E così fu anche
tra le miniere di zolfo e le vigne nere della Judeca di Riesi. Era il '63. Un
boss doveva presentare "pubblicamente" il suo delfino ai paesani: lo
fece nel giorno più importante dell'anno, la seconda domenica di settembre, la
festa della Madonna della Catena.
Il vecchio Ciccio Di Cristina si
affacciò al balcone della casa più bella e più grande di Riesi: abbracciò e
baciò suo figlio Giuseppe quando, nella piazza, dodici uomini portavano a
spalla la statua di gesso della patrona. In paese, tutti capirono che c'era un
nuovo capo. Dio, santi e madonne. E padrini e sicari e picciotti. Un giorno si
diventa uomini d'onore e si bruciano le santine tra le mani ("Come carta
ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia
carne se tradisco Cosa Nostra"), un altro giorno si scannano cristiani
come capretti e poi ci si inginocchia a pregare. Cose di chiesa e cose di
mafia. Lo faceva anche Filippo Marchese, forse il più sanguinario boss di
Palermo di ogni epoca.
Torturava i nemici e poi - per la
purificazione dei suoi peccati - un bel segno della croce. E lo faceva pure
Gigino Lavardera, un sicario "valoroso" di Brancaccio: prima sparava,
poi si confessava. Amen. Ci sono sempre stati mafiosi vicino a Dio e ci sono
sempre stati mafiosi vicini ai preti. A Corleone, Luciano Liggio fu difeso per
anni da ogni "infamità" dal cugino parroco. E, sempre a Corleone,
Ninetta Bagarella fu difesa (con raccolta di firme e proteste al Tribunale
internazionale dell' Aja) da un sacerdote che oggi fa il vescovo a Mazara del
Vallo. E chi volle Totò Riina per la celebrazione del suo matrimonio in una
villa di Cinisi trasformata per l' occasione in cappella? Volle un prete? No,
lo "zio" Totò ne volle tre. E tutti del suo paese, tutti di Corleone.
Ancora oggi non si conoscono i nomi di quei tre ministri di Dio che unirono per
sempre Totò e Ninetta. Un prete mancato e un mafioso riuscito è sicuramente
Nitto Santapaola, quello che chiamano Il Cacciatore. A Catania raccontano che
una volta fu eletto come il bambino più "buono" della città: allora
faceva il chierichetto dai Salesiani. Nitto doveva entrare in seminario, poi
evidentemente cambiò idea e - dicono - che abbia ordinato la morte di almeno
500 uomini. Quando lo catturarono in un casolare, nella stanza da letto
trovarono il solito altarino, la solita Madonna e la solita Bibbia. Niente di
originale per un capomafia. Gli stessi "articoli" sono stati
sequestrati nel rifugio di Pietro Aglieri, nel covo di Giovanni Brusca, nella
cella dell'Ucciardone di Michele Greco.
Religiosissimo don Michele, tanto
religioso da ospitare nella sua tenuta ai piedi di Gibilrossa anche un
cardinale di Palermo - Ernesto Ruffini - che pregava soprattutto per l' anima
degli amici degli amici. Un mafioso mancato e un prete riuscito (male, in
verità) è stato invece Fra’ Giacinto. Il suo vero nome era Stefano Castronovo.
Era un francescano, aveva i
capelli color argento e il fisico di un atleta. Si sussurravano tante cose su
Fra’ Giacinto, si parlava di feste notturne nelle celle del convento di Santa
Maria del Gesù, si raccontava di latitanti nascosti tra i monaci, si diceva, si
diceva... Fino a quando un picciotto entrò in convento e fece secco il frate
che stava celebrando messa. Sotto il saio, Stefano Castronovo nascondeva una
pistola a tamburo. Ci ricordiamo ancora cosa dissero di lui i suoi
"fratelli" di Santa Maria del Gesù il giorno del funerale. Toccò al
provinciale dei francescani l' omelia in ricordo di Fra’ Giacinto. E così parlò
padre Timoteo: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra".
Non c' è mafia senza chiesa. Non
c' è mai stata. E così, alla fine della nostra rassegna, siamo un po' stupiti
per lo stupore che manifestò un mafioso (Nino Calderone) quando gli presentarono
ritualmente come uomo d'onore padre Agostino Coppola. Era il 1968. Gli dissero:
"Lui è come a noi...". E Nino Calderone, paonazzo in volto, rispose
con un soffio di voce: "Gesù Gesù...anche un parrino in Cosa
Nostra...".
“la Repubblica”, 19/5/1997
“la Repubblica”, 19/5/1997
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