Nel 1995 un minifestival, al
Piccolo Teatro di Milano, e una biografia scandalistica rilanciarono il
dibattito su Bertolt Brecht. L’intervista che segue, a Giorgio Strehler, che di
Brecht fu amico e mise in scena diversi drammi, è piena di malevolenza e di
luoghi comuni contro la sinistra brechtiana, quella che da Cases a Fortini
vedeva nel comunismo una parte essenziale e una scaturigine della grandezza del
poeta. Il dire di Strehler contiene tuttavia una riflessione apprezzabile e una
rivelazione interessante sul rapporto Brecht-Beckett. (S.L.L.)
Paolo Grassi, Bertolt Brecht e Giorgio Strehler negli uffici del Piccolo Teatro di Milano |
74 anni di passioni, Strehler
agita le braccia, la sua voce si incupisce e poi di colpo si impenna quando
pensa agli anni in cui correva freneticamente tra Milano e Berlino, dalla
direzione "corsara" del Piccolo alle vivaci discussioni con il gruppo
eterogeneo di giovani teatranti che girava attorno al maestro Brecht nel
Berliner Ensemble. Maestro?
"Sì, certo, un maestro. Il
primo maestro, anche se indirettamente, per me è stato Copeau. Ho succhiato il
latte del teatro da lì. Copeau era un uomo molto severo, un oracolo anche nella
vita, da cattolico si batteva per un teatro spirituale, mistico".
Si apre la porta, qualcuno gli
consegna un ritaglio. Titolo:Un libro
distrugge Brecht.
"Mascalzoni!", e lo
butta di lato.
Torniamo ai maestri. Jouvet, per
esempio, "ossessionato dal mistero dell'attore".
Ma il terzo maestro è lui,
Bertolt Brecht: "Non so dove trovavo il tempo, con gli impegni del Piccolo,
con le regie..., ma quando avevo un buco andavo a Berlino. Io ero un uomo della
Resistenza, mi piaceva la sinistra libertaria di Rosa Luxemburg, e sono ancora
convinto che senza libertà non esiste socialismo. Jouvet aveva un'idea
totalizzante del teatro, ammirevole ma disumana, non c'era altro per lui. Io mi
davo da fare, ero impegnato, facevo politica, da un lato volevo essere come
Jouvet, dall'altro amavo le donne, il cinema, la vita".
Non lo ferma nessuno, Giorgio
Strehler, quando parte in slalom tra i ricordi: "Rimasi affascinato da
Brecht, anche se apparentemente non era un tipo affascinante, non aveva
carisma. Aveva un grande humour, ma
era un uomo del dubbio e della contraddizione. Noi avevamo venticinque anni,
eravamo più trinariciuti di lui, che era sempre pronto a discutere su tutto per
farci capire che il bene non sta completamente né da una parte né dall' altra.
Questo gli ha creato molte antipatie".
Ed eccoci all'Opera da tre soldi, primo spettacolo
brechtiano di Strehler, 1956. L'11 febbraio, il "Corriere della Sera"
uscirà con un trafiletto siglato: "Bertolt Brecht è autore, regista,
teatrante di idee originali ma non sempre chiare e spesso allo stato di
elaborazione, e, convinto che la scena debba avere funzione sociale, coltiva un
teatro di propaganda politica". Non si segnalava il fatto che tra il pubblico
in visibilio quella sera c'era anche Bertolt Brecht, che ne fu entusiasta.
Ecco come andarono le cose:
"Un giorno, a Berlino, dissi a Brecht che avrei voluto fare a Milano L'opera da tre soldi. Gli chiesi
consigli:"Come faccio a portarla di là?". C' era la Guerra fredda,
con tutti gli equivoci che si portava dietro. Fornari diceva che la nostra
condizione di intellettuali socialisti era la stessa di quei figli che si trovano
seduti a tavola tra una madre e un padre che non si sopportano. Anche Brecht fu
vittima di quel terrore, non fu mai valutato per quel che valeva come poeta,
come forgiatore di lingua e di stile, perché l'ideologia di chi lo leggeva, a
destra o a sinistra, nascondeva tutta la sua grandezza".
Non serve a molto ricordare a
Strehler i nomi di alcuni lettori italiani: Vito Pandolfi e Cesare Cases,
Franco Fortini e Emilio Castellani, e tanti altri. Ma qual era la
preoccupazione di Strehler, visto che Brecht era già noto in Italia almeno da
un decennio?
"Mi preoccupavo, appunto,
che fosse recepito più come poeta della contraddizione che come ideologo. Per
questo scelsi L'opera da tre soldi,
cercando di smussare le asprezze "politiche", mi interessava che il
pubblico conoscesse l'universalita' poetica del testo. Si parlò di operazione
gastronomica. Una delle cose che mi fanno più male, ancora oggi, è il fatto che
Cases, che stimo molto, parlò delle regie leccate e gradevoli di Strehler. Non
sopportava che una platea di borghesi applaudisse un testo di Brecht. Secondo
Cases, come secondo Fortini e i “Quaderni piacentini”, Brecht non poteva e non
doveva piacere a tutti, dimenticando che Brecht, come uomo di teatro, cercava
la comunicazione. E' un'intellighentsia di trinariciuti che detesto. Pensano
che il teatro debba andare contro il pubblico...". E ricorda che sulla
tomba di Brecht c'è scritto: Qui c'è uno che ha fatto delle proposte, alcune
sono state accettate. Intanto, la destra parlava del "caporale
Brecht" come di un insopportabile scribacchino del socialismo reale.
E oggi? Strehler si infiamma:
"Ora viene fuori che era solo un gran chiavatore, un sessuomane pazzo che
non sapeva scrivere. Infami! Mascalzoni! Non voglio neanche parlarne, sarebbe come
discutere se l'Olocausto è esistito o no. Per i "compagni",
viceversa, Brecht è un santo, uno che non ha mai chiavato. Altra infamità ! Era
uno che amava la vita, le donne, ambiguo, contraddittorio. Mi diceva spesso che
sognava un teatro che dividesse la gente, non che unisse. I grandi poeti
lanciano bombe di profondità che non si sa quando esploderanno...".
Prima o poi tornano, i classici:
"Ora è finalmente possibile leggere Brecht con un po' di distacco, lontani
dalle faziosità. Giangiacomo Feltrinelli un giorno mi disse: smettila di fare
sempre Brecht. Oggi gli risponderei che ne ho fatti pochi, solo sette. E questo
penso che sia il momento migliore per rileggerlo con serenità, come poeta,
punto e basta".
Dunque, sempre più Brecht, sempre
meno Beckett, i due avversari del nostro Novecento, il bianco e il nero?
"Beckett ha raccontato la condizione umana nella disperazione, Brecht ha
raccontato la condizione dell' uomo che costruisce, che fa: sono fratelli più
di quel che si pensa, due testimoni della persistenza umana. Anzi, pochi sanno
che Brecht voleva fare En attendant Godot.
Mi disse che voleva mettere in scena Vladimir e Estragon con la seconda guerra
mondiale sullo sfondo, al posto del vuoto avrebbe voluto mettere della gente
che lavorava. Aveva un solo dubbio: dove situarli, tra i nazisti o nella
Resistenza. Io lo dissi a Beckett. Dopo aver bevuto un po' riuscì a esclamare:
"Nella Resistenza!".
Corriere della Sera, 10 ottobre 1995
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