Un magnifico articolo di Ada Marchesini Gobetti, che fu - con il marito Piero - rivoluzionaria liberale, poi partigiana
azionista, infine militante comunista. Fondatrice nel 1959 del “Giornale dei
genitori”, sviluppò negli ultimi anni di vita un dialogo proficuo con Aldo
Capitini, teorico della non-violenza e organizzatore di marce, senza tuttavia mai aderire al pacifismo e senza nascondere un certo fastidio per quel tanto di
dolciastro e rinunciatario che la parola pacifismo sembra contenere e comunicare. (S.L.L.)
Ada Marchesini Gobetti |
La ripresa degli esperimenti
atomici ha rimesso all'ordine del giorno le "marce della pace" e le
discussioni circa il loro significato e la loro validità: e mentre alcuni le
esaltano, altri vogliono vedere in esse o una subdola manovra politica o una
scappatoia per mettersi la coscienza in pace e rifuggir quindi dall'assumere
altre, più impegnative responsabilità.
Anche a considerar le cose dal
punto di vista strettamente educativo, mi sembra che non possano esserci dubbi
circa l'opportunità di parteciparvi e di farci partecipare i giovani, i ragazzi
che appena siano in grado di comprendere (e quante cose capisce un bambino di
dieci anni!). Educazione è partecipazione: non si possono educare i ragazzi
isolandoli dal mondo che li circonda, chiudendo loro gli occhi a ciò che
accade, restringendone gli interessi al "particulare": bensì
abituandoli a considerare come cosa propria tutto ciò che è umano, a non porre
limiti al desiderio di conoscenza e di esperienza, ad accettare responsabilità
personali e collettive, a credere nella capacità propria e altrui di rimediare
ai mali esistenti e di prevenire le rovine future.
Inoltre, a un esame più attento,
nelle proteste contro il pericolo atomico — da qualunque parte esso provenga —,
nelle manifestazioni d'una volontà di pace e quindi di vita — quando nascano
però da un istinto spontaneo o da una ragionata convinzione, e non siano
imposte e dirette dall'esterno — ci par di scorgere il presagio, se non
addirittura il primo passo verso una più civile convivenza umana. Nonostante le
differenze, a volte sostanziali, che le determinano e le animano in paesi e
ambienti diversi, sembrano dimostrare la crescente convinzione degli uomini che
tutti i problemi, anche i più gravi, i più ardui, possano essere risolti non
con la guerra, non con la violenza, ma con una precisa e pacata dimostrazione
di forza e di volontà. La resistenza attiva può in certi casi (si pensi
all'India) avere un valore decisivo anche sul piano pratico; prese di posizione
come quelle di Bertrand Russell vanno al di là delle situazioni contingenti per
affermare e stabilire atteggiamenti nuovi; le marce della pace che si fanno
oggi in Italia — tipiche quelle organizzate da Capitini in Toscana e in Umbria —
accogliendo gente delle più varie tendenze e mobilitando popolazioni contadine
finora tenute ai margini della vita democratica, sembrano rivelare, insieme
all'insofferenza per molti schemi, il bisogno di forgiare armi nuove di difesa:
e anche di offesa, intendendo la parola non nel senso di violenza fisica, ma di
razionale battaglia.
Una di queste armi potrebbe
essere la disobbedienza civile: atteggiamento che non ha naturalmente nulla a
che vedere con l'anarchica negazione d'ogni legge. L'anarchia è un fatto essenzialmente
individuale, mentre la disobbedienza civile per aver peso e valore deve tendere
a diventar collettiva; e anziché in violenza indiscriminata deve esprimersi in
resistenza cosciente contro quegli aspetti e ordinamenti sociali — concretati a
volte in provvedimenti e in leggi — che profondamente ripugnano alla coscienza
dei cittadini. Resistenza che — almeno nel nostro paese, nelle condizioni
attuali e sempre più, speriamo, in quelle future — non avrà più bisogno di
concretarsi in bande armate o in azioni terroristiche, ma si potrà esercitare
usando di tutti quei mezzi che permettono oggi di influire potentemente sull'opinione
pubblica, determinando in modo decisivo il comportamento della intera
popolazione.
Sostituire il ragionamento alla
violenza è un segno di maturità. Le masse che, anziché urlare, manifestano o
marciano in composto silenzio, che, invece di fracassare i vetri d'un tram o
d'un autobus, scelgono di fermarne o impedirne la circolazione, che alla
volgarità dell'ingiuria personale preferiscono la dignitosa polemica
ideologica, rivelano un grado di maturità superiore. Questo presuppone
naturalmente che tutti, anche gli avversari, rispettino, sia pure formalmente,
un certo livello di civiltà: che contro il manganello fascista e il mitra
tedesco non c'era purtroppo altro rimedio che la violenza. Ma è proprio questo
mondo — civile e umano anche nei suoi contrasti più vivi — che vogliamo
costruire per il domani, e in cui speriamo che cresceranno i nostri figli.
Ecco dunque emergere la necessità
di educare i ragazzi — non appena abbiano superata l'inevitabile aggressività
polemica della prima adolescenza — a un atteggiamento verso la società e la
vita che non vorrei chiamare pacifista (per evitare ogni equivoco, ogni
indulgenza a posizioni di rinuncia o di rassegnazione), ma piuttosto
anticonformista, naturalmente in senso combattivo e costruttivo.
Per secoli, nella pratica — se
non sempre nella teoria — educativa, l'obbedienza è stata considerata la
massima delle virtù. "Sa farsi ubbidire", si diceva, facendo l'elogio
d'un educatore; "Ubbidire senza discutere" era ed è ancora il motto
di certe famiglie e di certi istituti improntati a spirito militaresco; e il
bambino "buono" non è forse tradizionalmente quello che ubbidisce?
Non vogliamo negare il valore e
la necessità dell'obbedienza, per il fanciullo e anche per l'adulto. Il bambino
deve ubbidire finché non sia in grado di reggersi e guidarsi da solo; 1'adulto
deve ubbidire, rinunciando al proprio piacere, e interesse particolare, agli
imperativi morali della sua coscienza umana: e in questo senso l'obbedienza è
liberatrice, quale segno distintivo di maturità. Ma ogni valore cade e
l'obbedienza diventa negativa quando si limiti a un fatto passivo, quasi
meccanico, quando non s'accompagni a una chiara coscienza e a una precisa
volontà.
Gli psicologi hanno dimostrato
come il bambino sempre e invariabilmente ubbidiente debba suscitare
preoccupazioni anziché compiacimento: che la docilità nell'eseguire senza
discutere qualsiasi ordine rivela un atteggiamento di soggezione, che nega e
impedisce ogni impulso creativo. E la storia recente ci ha d'altra parte
abbondantemente insegnato come sia facile dall'indiscriminata e conformistica
obbedienza precipitare in quella "voluttà di servire", in quella
viltà superflua che nel pigro, accomodante rifiuto di ogni opposizione, lascia
la via aperta alle prepotenze e alle sopraffazioni peggiori.
"Ubbidire senza
discutere" può essere utile soltanto nei momenti di emergenza: e non è
forse una situazione d'emergenza quella in cui si trova il bimbo piccolo,
esposto a ogni sorta di pericoli da cui da solo non si saprebbe difendere? Ma
non appena il ragazzino incomincia a capire e a ragionare, i genitori dovrebbero
insegnargli a ubbidire, non "per far piacere alla mamma" o
"perché così ha deciso il babbo", ma perché ciò che gli si chiede o
gli si proibisce di fare è giusto e vantaggioso per lui e per tutti gli altri.
Soltanto se avrà imparato sin dall'infanzia a far le sue scelte, a prender le
sue decisioni, ad assumere le sue responsabilità, saprà non adagiarsi,
crescendo, nel comodo conformismo del "così fanno tutti". Rispetterà
le leggi, anche se non gli fanno comodo, quando le riconosca giuste; ma le
respingerà, ribellandosi, quando siano in contrasto con quella intima
"voce particolare" che indusse Socrate a farsi condannare a morte
piuttosto di dir cosa diversa da ciò che gli dettava la coscienza, che spinse
Antigone alla ribellione.
In una società democratica, anche
a scuola, oltre che in famiglia, il ragazzo dovrebbe essere educato ad
ascoltare sempre questa voce, a farne l'arbitra decisiva d'ogni suo atto o
condotta, del suo accettare o respingere quel che la legge impone. Ma questo
accade purtroppo assai di rado, e solo quando si trovino insegnanti
eccezionali: l'atmosfera della nostra scuola d'oggi è dominata in genere —
nonostante la superficiale vernice di attivismo e di libertà — dal più pesante,
dal più grigio, dal più diseducativo conformismo.
Ed ecco allora un nuovo,
difficilissimo compito per i genitori desiderosi di far dei loro figli i
creatori e i cittadini d'una migliore società futura: insegnare ai giovani,
accanto ai valori del rispetto e della giusta obbedienza, anche quelli della
ribellione e della disubbidienza.
Non si tratta, evidentemente,
d'incoraggiare il ragazzo al dispregio di ciò che gl'insegnano a scuola (un non
illuminato atteggiamento dei genitori in questo senso lo porterebbe facilmente
e pericolosamente a farsene uno schermo alla propria indolenza e cattiva
volontà); ma piuttosto d'insegnargli a non cedere alle seduzioni — tanto forti,
ahimè !, anche per gli adulti — del conformismo, a non tacere quando la
coscienza dice di parlare, a ribellarsi contro imposizioni giudicate ingiuste.
Il ragazzo ha il diritto —
meglio, il dovere — di reagire a giudizi che sa errati (quando sente dire, per
esempio, che la Resistenza fu una lotta fratricida e i partigiani bande
d'assassini; oppure che nella Cina comunista i neonati vengono regolarmente
affogati); deve saper resistere alle pressioni esercitate su di lui perché
compia atti di culto in cui non crede; è giustificato se si ribella allo
svolgimento d'un tema di essenza razzista (si pensi al caso della versione
spagnola antisemita di cui parlarono i giornali). Si dirà — per fortuna è
abbastanza vero — che questi sono casi-limite e che si verificano di rado; però
si verificano; e credo che ciascuno di noi, ripensandoci, potrebbe trovarne gli
esempi.
Ma anche senza arrivare a questi
estremi, infinite sono le imposizioni, le lusinghe, i ricatti — a volte larvati
o addirittura impercettibili — a cui si è oggi quotidianamente sottoposti,
nella scuola e nella vita. Il giovane che saprà assumere in questi casi un
atteggiamento onesto e deciso, dovrà probabilmente affrontare, specie da
principio, una certa impopolarità, incorrerà magari in sanzioni; ma da ogni
difficoltà uscirà vittorioso se saprà accettare in pieno le sue responsabilità,
non trarre dalla propria posizione critica pretesto d'indolenza, ma si sentirà
anche più profondamente impegnato nello studio, nella lealtà, nella solidarietà
coi compagni. Starà ai genitori — che in questo spirito l'hanno
educato—sostenerlo nella sua battaglia, in modo che la ribellione non rimanga
sterile creando così nel giovane un senso di scoraggiante inutilità. E sarà
necessario per questo cercare anche la solidarietà e l'appoggio degli altri
genitori illuminati per rivendicare insieme, con pacata coerenza e fermezza, i
diritti dei figli a essere uomini veramente liberi: uomini che sapranno domani
usare dell'arma della disubbidienza — che, sebbene incruenta, esige da chi se
ne serve ardire e perseveranza e sacrificio — non soltanto contro l'impiego
delle armi atomiche, ma anche contro ogni forma d'ingiustizia, di sfruttamento,
di pregiudizio: tutti quei mali che l'uomo può vincere per render la vita
sempre più degna d'esser vissuta.
Son problemi grossi, lo so: e
delicati, e difficili da risolvere. Ma non è forse inutile che s'incominci a
discuterne.
“Giornale dei genitori”, maggio
1962
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