3.10.13

Quando non si deve obbedire (Ada Marchesini Gobetti)

Un magnifico articolo di Ada Marchesini Gobetti, che fu - con il marito Piero - rivoluzionaria liberale, poi partigiana azionista, infine militante comunista. Fondatrice nel 1959 del “Giornale dei genitori”, sviluppò negli ultimi anni di vita un dialogo proficuo con Aldo Capitini, teorico della non-violenza e organizzatore di marce, senza tuttavia mai aderire al pacifismo e senza nascondere un certo fastidio per quel tanto di dolciastro e rinunciatario che la parola pacifismo sembra contenere e comunicare. (S.L.L.)
Ada Marchesini Gobetti
La ripresa degli esperimenti atomici ha rimesso all'ordine del giorno le "marce della pace" e le discussioni circa il loro significato e la loro validità: e mentre alcuni le esaltano, altri vogliono vedere in esse o una subdola manovra politica o una scappatoia per mettersi la coscienza in pace e rifuggir quindi dall'assumere altre, più impegnative responsabilità.
Anche a considerar le cose dal punto di vista strettamente educativo, mi sembra che non possano esserci dubbi circa l'opportunità di parteciparvi e di farci partecipare i giovani, i ragazzi che appena siano in grado di comprendere (e quante cose capisce un bambino di dieci anni!). Educazione è partecipazione: non si possono educare i ragazzi isolandoli dal mondo che li circonda, chiudendo loro gli occhi a ciò che accade, restringendone gli interessi al "particulare": bensì abituandoli a considerare come cosa propria tutto ciò che è umano, a non porre limiti al desiderio di conoscenza e di esperienza, ad accettare responsabilità personali e collettive, a credere nella capacità propria e altrui di rimediare ai mali esistenti e di prevenire le rovine future.
Inoltre, a un esame più attento, nelle proteste contro il pericolo atomico — da qualunque parte esso provenga —, nelle manifestazioni d'una volontà di pace e quindi di vita — quando nascano però da un istinto spontaneo o da una ragionata convinzione, e non siano imposte e dirette dall'esterno — ci par di scorgere il presagio, se non addirittura il primo passo verso una più civile convivenza umana. Nonostante le differenze, a volte sostanziali, che le determinano e le animano in paesi e ambienti diversi, sembrano dimostrare la crescente convinzione degli uomini che tutti i problemi, anche i più gravi, i più ardui, possano essere risolti non con la guerra, non con la violenza, ma con una precisa e pacata dimostrazione di forza e di volontà. La resistenza attiva può in certi casi (si pensi all'India) avere un valore decisivo anche sul piano pratico; prese di posizione come quelle di Bertrand Russell vanno al di là delle situazioni contingenti per affermare e stabilire atteggiamenti nuovi; le marce della pace che si fanno oggi in Italia — tipiche quelle organizzate da Capitini in Toscana e in Umbria — accogliendo gente delle più varie tendenze e mobilitando popolazioni contadine finora tenute ai margini della vita democratica, sembrano rivelare, insieme all'insofferenza per molti schemi, il bisogno di forgiare armi nuove di difesa: e anche di offesa, intendendo la parola non nel senso di violenza fisica, ma di razionale battaglia.
Una di queste armi potrebbe essere la disobbedienza civile: atteggiamento che non ha naturalmente nulla a che vedere con l'anarchica negazione d'ogni legge. L'anarchia è un fatto essenzialmente individuale, mentre la disobbedienza civile per aver peso e valore deve tendere a diventar collettiva; e anziché in violenza indiscriminata deve esprimersi in resistenza cosciente contro quegli aspetti e ordinamenti sociali — concretati a volte in provvedimenti e in leggi — che profondamente ripugnano alla coscienza dei cittadini. Resistenza che — almeno nel nostro paese, nelle condizioni attuali e sempre più, speriamo, in quelle future — non avrà più bisogno di concretarsi in bande armate o in azioni terroristiche, ma si potrà esercitare usando di tutti quei mezzi che permettono oggi di influire potentemente sull'opinione pubblica, determinando in modo decisivo il comportamento della intera popolazione.
Sostituire il ragionamento alla violenza è un segno di maturità. Le masse che, anziché urlare, manifestano o marciano in composto silenzio, che, invece di fracassare i vetri d'un tram o d'un autobus, scelgono di fermarne o impedirne la circolazione, che alla volgarità dell'ingiuria personale preferiscono la dignitosa polemica ideologica, rivelano un grado di maturità superiore. Questo presuppone naturalmente che tutti, anche gli avversari, rispettino, sia pure formalmente, un certo livello di civiltà: che contro il manganello fascista e il mitra tedesco non c'era purtroppo altro rimedio che la violenza. Ma è proprio questo mondo — civile e umano anche nei suoi contrasti più vivi — che vogliamo costruire per il domani, e in cui speriamo che cresceranno i nostri figli.
Ecco dunque emergere la necessità di educare i ragazzi — non appena abbiano superata l'inevitabile aggressività polemica della prima adolescenza — a un atteggiamento verso la società e la vita che non vorrei chiamare pacifista (per evitare ogni equivoco, ogni indulgenza a posizioni di rinuncia o di rassegnazione), ma piuttosto anticonformista, naturalmente in senso combattivo e costruttivo.
Per secoli, nella pratica — se non sempre nella teoria — educativa, l'obbedienza è stata considerata la massima delle virtù. "Sa farsi ubbidire", si diceva, facendo l'elogio d'un educatore; "Ubbidire senza discutere" era ed è ancora il motto di certe famiglie e di certi istituti improntati a spirito militaresco; e il bambino "buono" non è forse tradizionalmente quello che ubbidisce?
Non vogliamo negare il valore e la necessità dell'obbedienza, per il fanciullo e anche per l'adulto. Il bambino deve ubbidire finché non sia in grado di reggersi e guidarsi da solo; 1'adulto deve ubbidire, rinunciando al proprio piacere, e interesse particolare, agli imperativi morali della sua coscienza umana: e in questo senso l'obbedienza è liberatrice, quale segno distintivo di maturità. Ma ogni valore cade e l'obbedienza diventa negativa quando si limiti a un fatto passivo, quasi meccanico, quando non s'accompagni a una chiara coscienza e a una precisa volontà.
Gli psicologi hanno dimostrato come il bambino sempre e invariabilmente ubbidiente debba suscitare preoccupazioni anziché compiacimento: che la docilità nell'eseguire senza discutere qualsiasi ordine rivela un atteggiamento di soggezione, che nega e impedisce ogni impulso creativo. E la storia recente ci ha d'altra parte abbondantemente insegnato come sia facile dall'indiscriminata e conformistica obbedienza precipitare in quella "voluttà di servire", in quella viltà superflua che nel pigro, accomodante rifiuto di ogni opposizione, lascia la via aperta alle prepotenze e alle sopraffazioni peggiori.
"Ubbidire senza discutere" può essere utile soltanto nei momenti di emergenza: e non è forse una situazione d'emergenza quella in cui si trova il bimbo piccolo, esposto a ogni sorta di pericoli da cui da solo non si saprebbe difendere? Ma non appena il ragazzino incomincia a capire e a ragionare, i genitori dovrebbero insegnargli a ubbidire, non "per far piacere alla mamma" o "perché così ha deciso il babbo", ma perché ciò che gli si chiede o gli si proibisce di fare è giusto e vantaggioso per lui e per tutti gli altri. Soltanto se avrà imparato sin dall'infanzia a far le sue scelte, a prender le sue decisioni, ad assumere le sue responsabilità, saprà non adagiarsi, crescendo, nel comodo conformismo del "così fanno tutti". Rispetterà le leggi, anche se non gli fanno comodo, quando le riconosca giuste; ma le respingerà, ribellandosi, quando siano in contrasto con quella intima "voce particolare" che indusse Socrate a farsi condannare a morte piuttosto di dir cosa diversa da ciò che gli dettava la coscienza, che spinse Antigone alla ribellione.
In una società democratica, anche a scuola, oltre che in famiglia, il ragazzo dovrebbe essere educato ad ascoltare sempre questa voce, a farne l'arbitra decisiva d'ogni suo atto o condotta, del suo accettare o respingere quel che la legge impone. Ma questo accade purtroppo assai di rado, e solo quando si trovino insegnanti eccezionali: l'atmosfera della nostra scuola d'oggi è dominata in genere — nonostante la superficiale vernice di attivismo e di libertà — dal più pesante, dal più grigio, dal più diseducativo conformismo.
Ed ecco allora un nuovo, difficilissimo compito per i genitori desiderosi di far dei loro figli i creatori e i cittadini d'una migliore società futura: insegnare ai giovani, accanto ai valori del rispetto e della giusta obbedienza, anche quelli della ribellione e della disubbidienza.
Non si tratta, evidentemente, d'incoraggiare il ragazzo al dispregio di ciò che gl'insegnano a scuola (un non illuminato atteggiamento dei genitori in questo senso lo porterebbe facilmente e pericolosamente a farsene uno schermo alla propria indolenza e cattiva volontà); ma piuttosto d'insegnargli a non cedere alle seduzioni — tanto forti, ahimè !, anche per gli adulti — del conformismo, a non tacere quando la coscienza dice di parlare, a ribellarsi contro imposizioni giudicate ingiuste.
Il ragazzo ha il diritto — meglio, il dovere — di reagire a giudizi che sa errati (quando sente dire, per esempio, che la Resistenza fu una lotta fratricida e i partigiani bande d'assassini; oppure che nella Cina comunista i neonati vengono regolarmente affogati); deve saper resistere alle pressioni esercitate su di lui perché compia atti di culto in cui non crede; è giustificato se si ribella allo svolgimento d'un tema di essenza razzista (si pensi al caso della versione spagnola antisemita di cui parlarono i giornali). Si dirà — per fortuna è abbastanza vero — che questi sono casi-limite e che si verificano di rado; però si verificano; e credo che ciascuno di noi, ripensandoci, potrebbe trovarne gli esempi.
Ma anche senza arrivare a questi estremi, infinite sono le imposizioni, le lusinghe, i ricatti — a volte larvati o addirittura impercettibili — a cui si è oggi quotidianamente sottoposti, nella scuola e nella vita. Il giovane che saprà assumere in questi casi un atteggiamento onesto e deciso, dovrà probabilmente affrontare, specie da principio, una certa impopolarità, incorrerà magari in sanzioni; ma da ogni difficoltà uscirà vittorioso se saprà accettare in pieno le sue responsabilità, non trarre dalla propria posizione critica pretesto d'indolenza, ma si sentirà anche più profondamente impegnato nello studio, nella lealtà, nella solidarietà coi compagni. Starà ai genitori — che in questo spirito l'hanno educato—sostenerlo nella sua battaglia, in modo che la ribellione non rimanga sterile creando così nel giovane un senso di scoraggiante inutilità. E sarà necessario per questo cercare anche la solidarietà e l'appoggio degli altri genitori illuminati per rivendicare insieme, con pacata coerenza e fermezza, i diritti dei figli a essere uomini veramente liberi: uomini che sapranno domani usare dell'arma della disubbidienza — che, sebbene incruenta, esige da chi se ne serve ardire e perseveranza e sacrificio — non soltanto contro l'impiego delle armi atomiche, ma anche contro ogni forma d'ingiustizia, di sfruttamento, di pregiudizio: tutti quei mali che l'uomo può vincere per render la vita sempre più degna d'esser vissuta.
Son problemi grossi, lo so: e delicati, e difficili da risolvere. Ma non è forse inutile che s'incominci a discuterne.

“Giornale dei genitori”, maggio 1962

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