Dacia Maraini |
Per il decennale della morte
della scrittrice, nel 1995, Nico Orengo e Tjuna Notarbartolo curarono i Cahiers Elsa Morante, Edizioni
Sottotraccia, una raccolta di documenti e testimonianze inedite. “La Stampa”
pubblicò come anteprima uno stralcio della testimonianza di Dacia Maraini, che
fu, dopo la separazione coniugale, compagna del marito della Morante, lo
scrittore Alberto Moravia. (S.L.L.)
Elsa Morante |
Avevo solo quindici anni quando
ho letto "Menzogna e sortilegio" e ne
sono rimasta conquistata. L'ho letto d'un fiato, ascoltando la sonata a Kreuzer; non so perché questo
accoppiamento, ma la sonata era la musica che in quel momento mi stava più a
cuore. Ancora oggi, se prendo in mano il bellissimo romanzo di Elsa, non posso
fare a meno di risentire nelle orecchie le note della struggente sonata di
Beethoven.
Quando l'ho incontrata di persona, Elsa indossava un bellissimo
vestito a fiori rossi e invitava gli ospiti a pescare nella cesta dei regali.
Era un gioco natalizio che lei ripeteva ogni anno con gusto infantile e felice.
In quel periodo era innamorata di un giovane americano che si chiamava Bill
Morrow. Ne parlava a tutti, non era certo un segreto, come di “un angelo
barbaro e tenero”. Ma di lì a poco l'angelo, in preda all'euforia dell'eroina,
si è gettato da un altissimo palazzo e anziché volteggiare nel cielo come si
aspettava, è precipitato a terra sfracellandosi sul selciato.
Da quel momento Elsa è rimasta
chiusa in casa, al buio, per mesi, senza volere parlare con nessuno. Le uniche
persone che accettava di vedere nella sua reclusione erano: Alberto suo marito
e Giuseppe Cupane, un mio carissimo amico siciliano, diventato poi anche suo
amico. Mesi dopo però, quando ha ricominciato a uscire e a rivedere gli amici,
non ha voluto più incontrare il dolce e paziente Giuseppe che le era rimasto al
fianco in quei mesi di lutto. Giuseppe ci è rimasto molto male, ma Elsa era
fatta così; non era capace di mezze misure e diplomazie: quando le ragioni
profonde, immediate, anche le più irrazionali, di un'amicizia venivano meno, te
lo diceva in faccia e buonanotte. Aveva il culto della verità, anche quella più
assurda e capricciosa, e qualche volta diventava perfino crudele. Ma di questa
crudeltà non si compiaceva certo, anzi la prendeva come una necessità fatale,
più forte di lei e dell'amicizia.
Amavo ascoltarla parlare: era
sempre eccessiva come nei suoi scritti, prediligeva le iperboli e le metafore.
Ma la sua conversazione non era mai prevedibile: con lei ci si alzava negli
spazi sublimi delle favole celesti. Nonostante fosse innamorata di Bill Morrow
considerava il matrimonio come un sacramento da rispettare; perciò era
contraria a divorziare da Alberto Moravia, anche se facevano vite separate. E
non ha mai acconsentito al divorzio, nemmeno quando ormai lui ed io vivevamo
insieme. Ma io non me la sono presa. Il matrimonio in quanto tale non mi
interessava e se bastava quella fedeltà puramente formale ad accontentarla,
perché no? Non a caso aveva voluto sposarsi in chiesa e aveva preteso che anche
Alberto, sebbene laico, prendesse la comunione, per entrare a fare parte, con
tutti i crismi, della grande cerimonia sacra che li avrebbe legati per la vita.
Queste contraddizioni facevano
parte del suo carattere, ma anche del suo modo di stare al mondo: la coerenza
razionale non le sembrava uno scopo degno di essere perseguito. Il suo era un
perpetuo accanito e straordinario tentativo di tenersi vicina al sacro. E i suoi
libri ne danno testimonianza.
Con me è sempre stata
gentilissima e generosa: mi invitava alle sue feste pur sapendo che ero
innamorata di suo marito, mi telefonava per dirmi che le era piaciuto un mio
libro di poesie o un mio romanzo, mi coinvolgeva nei suoi giochi che erano
sempre condotti con passione e festosità. Persino quando sono andata a trovarla
all'ospedale dove era prigioniera di un letto e delle medicine, mi ha detto “giochiamo?”.
Allora si trattava di indovinare chi si nascondeva dietro le immagini. “Se
fosse un frutto, che frutto sarebbe?”, “E se fosse un aeroplano?”. Io non
riuscivo ad indovinare e lei mi scherniva dolcemente dicendo: “Ma come, lo
conosci benissimo”. Finalmente ho capito: “E' Pasolini?” “Sì, è lui, ma non hai
vinto perché ci hai messo più di tre minuti, passiamo ad un altro personaggio”.
Qualche giorno dopo si è
aggravata ed è morta. Guardando le sue dita gonfie che cincischiavano il
lenzuolo toccandolo e ritoccandolo con dolcezza disperata, mi è venuto in mente
quello che scrive Flaubert a proposito di madame Bovary che sul letto di morte “apriva
smisuratamente gli occhi e le povere mani si trascinavano sul lenzuolo con quel
gesto terribile e dolce degli agonizzanti che sembrano volersi coprire col
sudario prima ancora di essere morti”. Eppure Elsa era la persona più lontana
da Emma Bovary che si potesse immaginare. O forse no, forse c'era qualcosa in
comune fra di loro. Elsa come Emma aveva una profonda ripugnanza per la realtà
che era costretta a vivere. Preferiva nutrirsi di immaginazione. Solo che
l'immaginazione di Emma Bovary era povera e prevedibile, mentre l'immaginazione
di Elsa Morante era grandiosa, piena di sorprese e di doni. Elsa diceva di se
stessa che c'era qualcosa di donchisciottesco nel suo carattere. Ebbene, Emma
Bovary e Don Chisciotte non erano parenti? Tutti e due, sia la triste dama
francese che il cavaliere spagnolo, avevano una grande capacità di trasformare
il mondo a loro immagine e somiglianza, disprezzando le cose tangibili e
visibili. Chi tentava di fermarli in nome del buon senso dicendo che erano solo
fantasie quelle che stavano inseguendo, li offendeva e li uccideva. E le
volgarità, le idiozie, le brutali necessità di adeguarsi a questo mondo hanno
spinto Elsa a preferire l'altro mondo, quello abitato dai suoi fantasmi e dai
suoi straordinari eroi. Il più bel ricordo che ho di lei è la sua voce: sonora,
chiara, limpida, cantata, anche aggressiva a volte, ma quanto fantasiosa e
inventiva, splendente, e piena di seduzioni. Una voce che seguiva, con costante
delicatezza, le barocche, intelligentissime invenzioni di una mente inquieta e
febbrile.
“Tuttolibri – La Stampa”, 9
settembre 1995
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