Da un’occasione di spettacolo
cosmico, l’imminente passaggio di Venere davanti al sole, Camon ricava, per “la
Stampa” una divagazione letteraria, notevole per varietà e puntualità di riferimenti.
Felicissimo quello all’incipit del più celebre testo di Francesco di Assisi.
(S.L.L.)
Mi preparo a vedere domattina il
transito di Venere davanti al Sole, con la nipotina di 12 anni. I bambini si
pongono le stesse domande che ci poniamo noi, solo che noi non abbiamo il
coraggio di pronunciarle. La nipotina esclamerà: ma com'è piccola Venere! Siamo
così lontani? Sì, siamo lontanissimi. E non si potrebbe andar più vicini? È il
desiderio degli scienziati: avvicinarsi, toccare. La Luna l'abbiamo toccata?
Sì, anzi calpestata. E toccare Venere? Toccare Marte? Vedere se ci sono uomini
come noi, dargli la mano? Quello sarebbe il vero incontro.
Abbiamo inventato la stretta di
mano per far sentire all'amico che non siamo armati: la stretta di mano è una reciproca
perquisizione. Incontrare gli alieni, lasciarci perquisire e perquisirli, è il
presupposto per un'amicizia cosmica. Poter cominciare domattina, con questa
Venere che passa tra la Terra e il Sole! Ma come si fa ad andar là? Il barone
di Munchhausen credeva che il mezzo più veloce per andare nello spazio fosse la
cannonata: tu monti sulla palla di cannone e in un attimo scavalchi
l'orizzonte. Per il barone, uno sparo potente ci potrebbe lanciare fino a
Venere. Era anche la nostra idea, quand'eravamo piccoli:
velocità-distanza-sparo. L'idea della nipotina, e dei bambini della sua età, è
un'altra: il rumore che ti porta lontanissimo è il sibilo. La «s» è una
consonante detta «sibilante». Nei fumetti, il sibilo è indicato da una scia di
«s» seguita da un'h: sssh. Il suono sssh ti porta nell'immenso, il suono bum ti
fa fare un salto e poi cadi.
Il viaggio nell'immenso non fa
rumore: Venere transita in silenzio. In 2001
Odissea nello spazio non si sente mai un fruscio, i bambini si domandano se
i motori siano accesi o no. Fino al Leopardi, «infinità» ed «immensità» erano
sinonimi, più tardi l'uomo ha cominciato a sentire che «immensità» è più vasto
di «infinità». Leopardi ha oscillato tra la prima parola e la seconda. L'Infinito è il titolo di un suo canto,
familiare a tutta l'umanità, «M'illumino d'immenso» è la risposta di Ungaretti.
Nella casa del Leopardi, a Recanati, il manoscritto di quel canto sta esposto
in cornice come una fotografia, e il penultimo verso dice: «Così tra questa /
immensità s'annega il pensier mio». Ma nella casa di Pablo Neruda, in Cile,
sulla riva del Pacifico, sta esposta una fotocopia dello stesso manoscritto, e
la parola «immensità» è cancellata da uno striscio orizzontale e sostituita con
«infinità». Dunque Leopardi s'era pentito di «immensità». Più tardi si pentì
del pentimento e ristabilì «immensità», che è la parola che noi leggiamo oggi.
Il poeta aveva avvertito in maniera definitiva il bisogno di quella sibilante:
come se avesse presentito, con secoli d'anticipo, che il suono con cui l'uomo
entra nel cosmo non è il rombo, non è il tuono, non è lo sparo, ma è il sibilo.
Ci sono autori italiani, l'ultimo fu Raboni, i quali pensano che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, Il cantico di frate Sole di Francesco d'Assisi: la nostra letteratura s'è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima parola del Cantico è: «Altissimu», in dialetto umbro. Francesco inventò quel canto all'alba di una notte insonne, tormentata da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia e comincia: «Altissimu, onnipotente, bon Signore...». Quella parola con la doppia «s» colloca il destinatario a una distanza vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica l’11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.
Ci sono autori italiani, l'ultimo fu Raboni, i quali pensano che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, Il cantico di frate Sole di Francesco d'Assisi: la nostra letteratura s'è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima parola del Cantico è: «Altissimu», in dialetto umbro. Francesco inventò quel canto all'alba di una notte insonne, tormentata da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia e comincia: «Altissimu, onnipotente, bon Signore...». Quella parola con la doppia «s» colloca il destinatario a una distanza vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica l’11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.
La Stampa, 5 giugno 2012
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