Un articolo di Raul Mordenti, del
2006, che a me pare, nella sua brevità e secchezza, assai efficace nel mostrare alle radici la falsa coscienza che alimenta l’unanime coro contro le
rivoluzioni e i rivoluzionari. (S.L.L.)
Un ritratto di Robespierre |
Rossana Rossanda non ha bisogno
di essere difesa dalle scomposte contumelie che hanno accolto il suo articolo
su Mao, da Battista a Moscato, cioè dal Corriere della Sera fino (ahimé!) a
Liberazione; bastano a difenderla la sua biografia e, ancor più, il lavoro che
quotidianamente svolge per leggere i fatti orrendi del nostro mondo come umani
problemi.
Riguarda invece la sinistra il
fatto che un giornale che si definisce «comunista» risponda al pacato invito di
Rossanda a riflettere senza demonizzazioni sul massimo rivoluzionario della
seconda metà del Novecento con un articolo come quello di Antonio Moscato. Mao
era come Stalin, cioè era molto, ma molto cattivo; lo dicono anche dei libri
governativi e filo-occidentali che Moscato utilizza. Apprendiamo così che la
Rivoluzione culturale trattò assai male Liu Shaoqi e sua moglie, che provocò un
sacco di morti e che la cattiveria di Mao si spinse fino al punto di non
guarire il suo amico fedele Ciu Enlai...dal cancro (sic!). Domando: si può
ragionare così di storia? Si può ragionare così di rivoluzione? Moscato
peraltro non è nuovo a queste imprese: ricordo la sua disinvolta partecipazione
a un'indecente campagna contro Cuba della lobby confindustrial-militare che fa
capo alla rivista Limes.
Di ben altro livello la
riflessione sull'esperienza cinese che Rossanda propone, e non da oggi: si veda
il buon libro sulla Rivoluzione culturale a cura di Tommaso Di Francesco, L'assalto al cielo, pubblicato da
Manifestolibri. Quella rivoluzione fu il primo tentativo di fare davvero i
conti con il fallimento dell'Ottobre, mettendo in discussione l'idea del
socialismo come «elettrificazione più Soviet» (cioè come rigorosa accumulazione
capitalistica «a direzione proletaria») ma anche, ed era scelta ancora più
impervia e originale, cercando di superare il nesso leninista
partito-classe-Stato, che comportava nuove ferree gerarchie sociali e una
terribile passivizzazione delle masse.
Quel tentativo è stato sconfitto,
Deng ha vinto (per ora, aggiungerebbe Mao) e noi capiamo solo adesso, vedendo
l'orrore del capitalismo reale a direzione Pcc, che Mao non esagerava affatto
dicendo che la lotta in Cina era fra il comunismo e la restaurazione del
capitalismo. Ma la domanda è: ha qualcosa da dirci e da insegnarci il tentativo
di Mao? Può prescindere da quella lezione il tentativo di ripensare la
rivoluzione in Occidente che, se vorrà essere, dovrà anzitutto saper coniugare
comunismo e democrazia diretta?
Per poterne discutere seriamente
occorre però sbarazzarsi una volta per tutte dai ritornelli scemi sulla cattiveria
dei rivoluzionari e sul gran numero di morti delle rivoluzioni. Questo modo un
po' untuoso, che Gramsci definirebbe «brescianesco», di giudicare le
rivoluzioni, degli altri, conduce (ne siano coscienti o no le «anime belle» à
la Moscato) a liquidare non solo Mao e Stalin ma anche Lenin e Gramsci e tutta
l'esperienza comunista, e anzi ogni e qualsiasi rivoluzione, a cominciare da
quella francese. L'argomento della cattiveria dei «bevitori di sangue»
(Robespierre) non è stato forse per secoli usato a impedire il contagio della
Bastiglia?
Ragionando così si salva solo
madre Teresa di Calcutta.
Il coro unanime e assordante
contro le rivoluzioni è tuttavia falso in radice, giacché esso rimuove
semplicemente (senza neppure avere l'onestà di confessarselo) la necessità
della rivoluzione, cioè rimuove l'essenziale, che consiste appunto nel numero
di morti che il non fare la rivoluzione avrebbe provocato ieri e provoca oggi;
e come i contro-rivoluzionari di ieri occultavano i morti della schiavitù
ancien régime, così quelli di oggi occultano i morti che senza le rivoluzioni
avrebbero fatto fame e carestie in Cina, terrore bianco e nazifascismo in
Russia, la schiavitù statunitense a Cuba, e quelli provocati ogni giorno che
passa, ovunque, dal dominio del capitale (non solo dalle guerre capitaliste).
Per questo chi non si oppone allo stato di cose presente, si chiami pure madre
Teresa di Calcutta, non è affatto innocente.
Un grande rivoluzionario russo,
che pure aveva qualche legittimo motivo di risentimento, quindici anni dopo
l'Ottobre rispondeva a chi gli chiedeva se «i risultati della rivoluzione»
avessero giustificato tante sventure, la guerra civile e le vittime:«Con lo
stesso diritto, di fronte alle difficoltà e alle afflizioni di una esistenza
individuale si potrebbe chiedere: vale la pena di venire al mondo? (...) I
popoli cercano nella rivoluzione una via d'uscita a pene insopportabili».
“il manifesto”, 19 giugno 2006
Nessun commento:
Posta un commento