Checco Rissone |
VICENZA - "Gli scaricavano addosso tutti i ruoli
da vecchio. Barbe, rughe, incanutite criniere e voce tremolante. Era un secondo
caratterista e lo consideravano troppo brutto, troppo nasone e troppo afflitto
dai piedi dolci per affidargli parti da giovanotto. Allora, giù vecchi, giù
ottuagenari al generichetto Vittorio De Sica, al figlio dell' assicuratore
salernitano. Ne voleva fare un ragioniere per un impiego stabile alla Banca d'
Italia. Ma si arrese e lo sostenne come può fare un talent scout. Fu lui a
portarlo per mano da Luigi Almirante, un grande maestro, perché imparasse a
recitare". Non serve sollecitare, stimolare con domande Checco Rissone
perché racconti il "suo De Sica", ne rievochi i faticati e spesso
affamati anni del debutto sulle scene, la gavetta. E' anche un modo per
narrarsi, per andare con la memoria all'irripetibile stagione della giovinezza.
Figlio d'arte Rissone, (il padre trovarobe e il nonno Giovanni tanto celebre
come tiranno shakespeariano da sentirsi rifiutare un chilo di manzo per brodo
da un macellaio di Bologna che lo aveva riconosciuto e non riusciva a
dimenticare le sue canagliate in scena) aveva sedici anni quando si conobbero,
ma tale era la sua praticaccia di palcoscenico da poter guardare un po' dall'alto
i primi passi del mancato ragioniere De Sica che di anni ne aveva, allora,
ventiquattro ma non era corazzato di scaltrezza né nella vita, né sulla scena.
"Aveva due debolezze: il
gioco e il farsi dominare dalle donne" racconta: "L'ho cominciato a
frequentare proprio per la seconda di queste vulnerabilità. Eravamo a Buenos
Aires. Io con la compagnia di Dario Niccodemi, la ‘Vergani-Cimara’, Vittorio
recitava i suoi vecchi con Italia Almirante Manzini la cinematografica, la
paperona: veniva dal muto e non ne imboccava una, si inabissava in dieci fotte,
in dieci papere a raffica. Fu il teatro a farci incontrare. Ma l'amicizia
nacque per una faccenda sentimentale. Vittorio era succubo di una piccola
attrice che gli dava gli incubi, minacciando un pargolo. Veniva a chiedere
consigli. Gli suggerivamo di buttarla nel Rio de la Plata. Noi, quelli di
Niccodemi, eravamo gli arrivati. Forse, Vittorio mi guardava come un fratello
maggiore. Avevo debuttato a quaranta giorni. Ero, insomma, più giovane di
Vittorio, ma più vaccinato al teatro, al lavoro e alla vita. Per questo,
bussava a consigli. Inutili consigli, perché quella sua generosa debolezza gli
ha creato fastidi per tutta l'esistenza, con quel saltare da una famiglia all'altra,
da una moglie all'altra con quelle due cene nella stessa serata: una da mia
sorella Giuditta; l'altra con Maria Mercader a stomaco già pieno".
Quando la compagnia Niccodemi
entra in disarmo per l'addio al teatro di Vera Vergani, Checco Rissone e Vittorio
De Sica si ritrovano nella "Almirante-Rissone-Tofano": uno al seguito
di Giuditta; l' altro al seguito del proprio maestro. Non hanno il nome in
ditta. Sono ancora caratteristi. "Si era sul finire degli anni
Trenta" racconta Rissone. "Vera era stata sostituita da Elsa Merlini.
Mia sorella non accettò la convivenza. Era intuibile che non si sarebbero
ripetuti gli antichi fulgori. Niccodemi era ormai stanco ed ammalato. I
transfughi della "Vergani-Cimara" si misero insieme. Era una
compagnia un po' digestiva, ma con un repertorio nobilmente comico, leggero,
anche perché sulla nobiltà delle scelte vegliava il coltissimo Tofano. Un
giorno, capitò che l'attor giovane, Manlio Mannozzi, ci voltasse le spalle.
Sulla piazza, non c'erano alternative. Tutti erano già scritturati, perché,
allora, i contratti erano triennali. Almirante spinse avanti De Sica e una
spinta gliela diede anche mia sorella che aveva già il cuore morbido per quel
generico. Erano già in idillio. Vittorio si caricò di brillantina, di gommina.
Lo vestirono da Ceravoglio, il sarto degli attori di grido. Sfoderò i suoi
dentoni da cavallo. Impostò una camminata meno da piedi piatti e fece il suo
esordio come homme à femme, come latin lover da scena".
"Funzionava, quel figlio di
buona donna. Funzionava per simpatia, per charme e per bravura. Certo, non
avrebbe potuto affrontare Romeo, ma aveva mestiere e metteva in pratica un
grande trucco di Almirante: la dialettalità nei ritmi, nelle cadenze. Almirante
era un grosso maestro. Raccomandava: ‘Quando non sapete dire una battuta,
pensatela in dialetto e traducetela in italiano’. Il partenopeo De Sica ha
sublimato quella lezione. Da lì nasce la sua recitazione cordiale, umana, la
sua comunicativa immediata. Da lì, probabilmente, nasce per via indiretta anche
il neorealismo".
Ma non è solo di scena, di
tecnica teatrale (Rissone, oggi, insegna alla "Scuola teatrale" della
Regione veneta voluta dalla passione di un medico, Costantino De Luca; ha
insegnato per anni e anni alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e dice:
"Sono un attore in pensione, ma non ho melanconie, perché, ogni giorno,
decine di miei allievi vanno in scena ed è come se ci andassi io") che la
memoria si riempie nel raccontare il giovane De Sica. Sono storie di donne, di
notti brave con le ballerine del "Maffei" di Torino, di giocate al
lotto ("Sanremo e Montecarlo, la roulette e i tavoli di "chemin"
erano un miraggio per la sua passione dostoevskijana. Ma si incaponiva a
tentare gli ambi"), di cinghia tirata.
"La paga non arrivava alle 35
lire giornaliere" racconta "non sono immaginabili i chiodi che
piantavamo. Vittorio era sempre al verde, anche perché era un ottimo figlio.
Mandava sempre qualcosa al padre. Era un uomo generoso. Lo è stato anche con i
figli, con le sue due famiglie. Spesso, per pagare il conto nelle trattorie,
lasciavamo in ostaggio il suggeritore Balestrieri. Senza il suggeritore,
sarebbe stata la catastrofe e l' amministratore Ernestino Almirante correva a
saldare. Vittorio tentò anche di arrotondare con il cinema. Si presentò alla
Fert di Torino che era, allora, la nostra Hollywood. Gli dissero: "Lei
nella vita potrà fare tutto meno che il cinema". Furono, come si vede,
straordinari profeti. Poi la "Rissone-Almirante-Tofano" si sciolse.
Cominciò un periodo di miseria. I risparmi di mio padre se ne andarono: nella
compagnia "Rissone-De Sica-Melnati" non si faceva una lira. Ricordo
un inverno a Ferrara. Abitavamo in casa del capostazione, proprio davanti al
teatro. Ci affacciavamo e, nella neve, non c'era un'orma, una sola orma verso
il botteghino. Per la fame, bastava il castagnaccio che ha tempi lunghissimi di
digestione. Il problema era di tirare sino al debutto milanese".
E' a Milano che il destino di
Vittorio De Sica gira la boa. La compagnia non incassa un soldo, ma quel gruppo
di attori fa al caso di Ramo e Mattoli, quelli di "Za Bum", per Totò. Tempesta in un bicchier d' acqua.
Sono quaranta giorni di scrittura e l'incontro con Oreste Biancoli e Dino
Falconi che cercano caratteristi per la rivista Le lucciole della città.
"Fu un delirio di
incassi" racconta "ci facemmo tutti la macchina. Poi venne Le nuove lucciole. De Sica cantava Ludovico sei dolce come un fico, sempre
più gocciolante di brillantina. Divenne lo Chevalier italiano, sbaragliando
Odoardo Spadaro. E fu scoperto da Mario Camerini. La profezia della Fert andò
in frantumi: Gli uomini che mascalzoni,
Il signor Max e, via via, la sua
grande avventura cinematografica. Se non fosse stato per Giuditta, forse non ci
saremmo più visti. Io continuai a pestare le scene. Lui non aveva rimpianti per
il teatro. Ma al teatro, alla lezione di Almirante sapeva di dovere tutto. Non
per nulla, tra i nostri registi di cinema è stato l' unico capace di insegnare
a recitare ai propri attori".
“la Repubblica”11 novembre 1984
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