Rana mimetica |
La formula della cosiddetta
Commedia Antica, che fiorì in Atene nella seconda metà del V secolo e nel
principio del IV, doveva essere straordinariamente appagante per il pubblico.
Intanto gli spettacoli erano occasioni da non perdere, dato che si svolgevano
soltanto due volte l'anno, in febbraio e in aprile, durante le feste in onore
di Dioniso. Poi c'era il gusto della gara. Le commedie concorrevano a un premio
e di ognuna veniva data una sola rappresentazione; un po' come ai nostri
festival del cinema. La competizione aguzzava gli autori. La trama burlesca; i
personaggi e il linguaggio liberamente parodistici; le allusioni d'obbligo all'attualità
sociale e politica, ai tempi e alle persone che erano sotto gli occhi o nella
mente di tutti; il coinvolgere gli spettatori nella finzione scenica come in un
gioco di specchi: tutto ciò avvicina la commedia attica al nostro cabaret, al
musical satirico e insieme alla farsa popolare più sboccata.
Essenziale era la funzione del
coro, che danzava e cantava con grande varietà di toni: strofe liriche o
comiche, recitativi, perorazioni ai cittadini. La parabasi, ossia l'intermezzo
durante il quale il coro restava solo sulla scena rivolgendosi direttamente al
pubblico, offriva l'opportunità di toccare la corda seria del discorso. L'intermezzo
doveva piacere come una cosa a sé, se è vero che quello delle Rane, col suo
incitamento alla concordia e alla giustizia in un momento disastroso per la polis, destò tanta civica ammirazione
che la commedia, caso più unico che raro, ebbe il privilegio della replica. Al
teatro comico era concessa dal popolo sovrano una pressoché totale libertà di
parola, libertà che era sacra e pertanto poteva anche essere allo stesso tempo
dissacrante e impegnata eticamente.
Per noi, è ovvio, l'esortazione
politica della parabasi è un aspetto, non il centro delle Rane; però sarebbe un errore sottovalutarne l'angosciata pregnanza.
I risvolti gravi della leggerezza buffonesca accrescono il fascino del copione.
Detto questo, aggiungerò che non
conto di soffermarmi se non incidentalmente sugli aspetti seri delle Rane. Il lettore li troverà esposti con
giusta misura nell'introduzione che Dario Del Corno ha premesso alla sua
edizione recente della commedia (Aristofane: Le rane; Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, pagg.
XLIII-258, lire 30.000). Il volume contiene il testo con l' apparato critico,
la traduzione a fronte, un ricco commento e un' appendice metrica curata da
Francesco Sisti. Chi non fa professione di greco antico, se ha conservato
qualche risorsa liceale o universitaria, si divertirà a maneggiare il lavoro di
Del Corno e a gettare più di un'occhiata sull'originale (il commento risulta
assai invitante e aiuta a rinfrescare l'educazione classica sopita). Oltre ai
demagoghi e agli scalzacani di ogni risma, i bersagli preferiti di Aristofane
erano i "moderni" dei suoi tempi, i sofisti, Socrate, e soprattutto
Euripide. Contro costui le Rane si
accaniscono con incessante sarcasmo.
Euripide muore nel 406 (pochi
mesi dopo muore anche il vecchissimo Sofocle). Aristofane ghigna: è morta la
tragedia. E prontamente si mette a scrivere le Rane per il concorso dell' anno successivo. Poiché i nuovi poeti
tragici in circolazione non valgono un'unghia dei vecchi, Dioniso, dio
protettore della tragedia, scenderà nell'Ade e riporterà in vita Euripide. Per
compiete l'impresa si traveste alla maniera del fratellastro Eracle, che è già
sceso nell'Oltretomba e dunque ne è esperto. Indossata sulla sua veste gialla
una pelle di leone, e afferrata una clava, accompagnato dal servo Xantia,
Dioniso si accinge al viaggio. Così, fin dal suo apparire, il dio della
tragedia viene sbeffeggiato e piomba nella farsa. Egli va citando continuamente
versi di Euripide, dal cui stile sembra abbagliato. Dunque, chi ha ridotto
Dioniso al livello di un personaggio farsesco? Aristofane, che lo sta mettendo
in burla sulla scena, o non piuttosto il patetico, sofistico, immorale cantore
di quella puttana di Fedra e di altre donne in fregola?
Queste grottesche accuse
balzeranno fuori nella seconda parte della commedia. Ma subito, dal principio,
la buffoneria di Dioniso si pone come una ridevole metafora del teatro tragico
dissestato da Euripide e dai suoi ammiratori. Per raggiungere l'Ade, Dioniso
deve attraversare la palude stigia nella barca di Caronte, spossandosi sui
remi. Frattanto si leva il coro delle rane, inneggianti a Dioniso, alle Muse e
ad Apollo. Esse non riconoscono il dio che le apostrofa con sgarbo, irritato del
loro Brekekekex koax koax; anzi, lo
trattano da seccatore e strillano più forte di lui. La strana contesa finisce
perché la barca tocca riva. Un suono di flauti annuncia un nuovo coro: è quello
degli iniziati ai misteri Eleusini. Dioniso sembra scarsamente interessato ai
toni mistici del coro, che pure lo riguardano, e si dichiara disponibile alla
bisboccia e alle danze e agli scherzi.
Il coro è davvero assai
interessante: evocati i riti misterici, includendo in essi anche l'iniziazione
alla lingua del teatro comico, prega Demetra, regina della fecondità, perché
gli faccia dire "molte cose ridicole e molte altre serie"; infine
accetta di compiacere Dioniso e il suo servo cantando una serie di motteggi
violentemente buffoneschi nei confronti di notissimi personaggi pubblici. A
questo punto Dioniso e Xantia si ritrovano davanti alla casa di Plutone; qui si
susseguono alcune scene di grande effetto umoristico sul tema del
travestimento. Scambiato per Eracle, Dioniso viene assalito dall' ostessa (alla
quale il vero Eracle non ha pagato il conto) e da Eaco (a cui Eracle ha
sottratto il cane Cerbero). Dioniso se la fa addosso per la paura e dà a Xantia
la clava e la pelle di leone perché sia lui a prendersi le botte. Nel dubbio
vengono entrambi picchiati, e si comportano così stoicamente che Eaco è
costretto ad ammettere: "Non riesco a capire chi di voi due è un
dio".
Dopo l' intermezzo comincia la
parte agonistica della commedia. Nell'Ade Eschilo e il nuovo arrivato Euripide
altercano vivacemente per occupare il trono dell' arte tragica. Plutone
istituisce una gara di poesia, che sarà giudicata da Dioniso. Eschilo ed
Euripide si demoliscono a vicenda con stringenti argomentazioni parodie e
micidiali citazioni. Mentre il coro alterna commenti minchionatori a squisite
definizioni estetiche, le accuse e gli insulti dei due contendenti
s'intrecciano intimamente alle reciproche ferocissime analisi stilistiche. La
caricatura tocca il culmine quando, rimasto incerto l'esito dello scontro, si
decide di pesare i versi sulla bilancia sotto il controllo di Dioniso. I poeti
provano per tre volte, i versi di Eschilo pesano di più. Ma Dioniso, per
decidere chi è il migliore, si ricorda che è sceso nell'Ade per richiamare in
vita il poeta che salvi la città e conservi il teatro. Dopo averla tirata per
le lunghe, Dioniso sceglie Eschilo e lascia Euripide nell'Ade. Così lo scopo
iniziale del viaggio è comicamente rovesciato. Se la tragedia è morta, tanto
vale resuscitare "l'altitonante" e solenne poeta morale di un'età
scomparsa.
In queste Rane, dove tutto è ambiguo e sconcertante, anche la scelta finale
di Dioniso suona sottilmente derisoria. Come dice Del Corno, in quell' anno 405
il regno dei morti era lì, in Atene. E il bellissimo canto delle rane nella
palude stigia non è forse semplicemente il canto di Aristofane, il canto di
qualsiasi poeta, nel mondo dei morti? Non significherà il mistero buffo della
natura morta che pur sempre esulta nella danza "screziata di bolle che
scoppiano"? Il ritornello delle rane, che il vecchio Ettore Romagnoli
rendeva graziosamente con Brechechechè, coà, coà, si dica quel che si vuole, è
tra i tanti allegri enigmi di questa commedia il più suggestivo.
Per estensione, forse non del
tutto involontaria, l'intero spettacolo ne riverbera l'eco. La geniale,
folgorante disinvoltura di Aristofane non risparmia nessuno e salva soltanto la
poesia; purché questa, ghigna l'autore, abbia tutta l'intenzione di migliorare
i cittadini.
Sarà. La commedia gioca con
mirabile sottigliezza sul fraintendimento. Le rane della palude non riconoscono
Dioniso, e questi sente nel loro delizioso canto solo un fastidioso rumore. E
Aristofane sceglie Eschilo perché sa, e lo dice per bocca di un servo, che tra
Eschilo e gli Ateniesi non correva "buon sangue". Le Rane è un capolavoro ideato dal
dispetto.
“la Repubblica”, 29 settembre
1985
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