12.10.13

“Le Rane” di Aristofane. Un capolavoro a dispetto (Alfredo Giuliani)

Rana mimetica
La formula della cosiddetta Commedia Antica, che fiorì in Atene nella seconda metà del V secolo e nel principio del IV, doveva essere straordinariamente appagante per il pubblico. Intanto gli spettacoli erano occasioni da non perdere, dato che si svolgevano soltanto due volte l'anno, in febbraio e in aprile, durante le feste in onore di Dioniso. Poi c'era il gusto della gara. Le commedie concorrevano a un premio e di ognuna veniva data una sola rappresentazione; un po' come ai nostri festival del cinema. La competizione aguzzava gli autori. La trama burlesca; i personaggi e il linguaggio liberamente parodistici; le allusioni d'obbligo all'attualità sociale e politica, ai tempi e alle persone che erano sotto gli occhi o nella mente di tutti; il coinvolgere gli spettatori nella finzione scenica come in un gioco di specchi: tutto ciò avvicina la commedia attica al nostro cabaret, al musical satirico e insieme alla farsa popolare più sboccata.
Essenziale era la funzione del coro, che danzava e cantava con grande varietà di toni: strofe liriche o comiche, recitativi, perorazioni ai cittadini. La parabasi, ossia l'intermezzo durante il quale il coro restava solo sulla scena rivolgendosi direttamente al pubblico, offriva l'opportunità di toccare la corda seria del discorso. L'intermezzo doveva piacere come una cosa a sé, se è vero che quello delle Rane, col suo incitamento alla concordia e alla giustizia in un momento disastroso per la polis, destò tanta civica ammirazione che la commedia, caso più unico che raro, ebbe il privilegio della replica. Al teatro comico era concessa dal popolo sovrano una pressoché totale libertà di parola, libertà che era sacra e pertanto poteva anche essere allo stesso tempo dissacrante e impegnata eticamente.
Per noi, è ovvio, l'esortazione politica della parabasi è un aspetto, non il centro delle Rane; però sarebbe un errore sottovalutarne l'angosciata pregnanza. I risvolti gravi della leggerezza buffonesca accrescono il fascino del copione.
Detto questo, aggiungerò che non conto di soffermarmi se non incidentalmente sugli aspetti seri delle Rane. Il lettore li troverà esposti con giusta misura nell'introduzione che Dario Del Corno ha premesso alla sua edizione recente della commedia (Aristofane: Le rane; Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, pagg. XLIII-258, lire 30.000). Il volume contiene il testo con l' apparato critico, la traduzione a fronte, un ricco commento e un' appendice metrica curata da Francesco Sisti. Chi non fa professione di greco antico, se ha conservato qualche risorsa liceale o universitaria, si divertirà a maneggiare il lavoro di Del Corno e a gettare più di un'occhiata sull'originale (il commento risulta assai invitante e aiuta a rinfrescare l'educazione classica sopita). Oltre ai demagoghi e agli scalzacani di ogni risma, i bersagli preferiti di Aristofane erano i "moderni" dei suoi tempi, i sofisti, Socrate, e soprattutto Euripide. Contro costui le Rane si accaniscono con incessante sarcasmo.
Euripide muore nel 406 (pochi mesi dopo muore anche il vecchissimo Sofocle). Aristofane ghigna: è morta la tragedia. E prontamente si mette a scrivere le Rane per il concorso dell' anno successivo. Poiché i nuovi poeti tragici in circolazione non valgono un'unghia dei vecchi, Dioniso, dio protettore della tragedia, scenderà nell'Ade e riporterà in vita Euripide. Per compiete l'impresa si traveste alla maniera del fratellastro Eracle, che è già sceso nell'Oltretomba e dunque ne è esperto. Indossata sulla sua veste gialla una pelle di leone, e afferrata una clava, accompagnato dal servo Xantia, Dioniso si accinge al viaggio. Così, fin dal suo apparire, il dio della tragedia viene sbeffeggiato e piomba nella farsa. Egli va citando continuamente versi di Euripide, dal cui stile sembra abbagliato. Dunque, chi ha ridotto Dioniso al livello di un personaggio farsesco? Aristofane, che lo sta mettendo in burla sulla scena, o non piuttosto il patetico, sofistico, immorale cantore di quella puttana di Fedra e di altre donne in fregola?
Queste grottesche accuse balzeranno fuori nella seconda parte della commedia. Ma subito, dal principio, la buffoneria di Dioniso si pone come una ridevole metafora del teatro tragico dissestato da Euripide e dai suoi ammiratori. Per raggiungere l'Ade, Dioniso deve attraversare la palude stigia nella barca di Caronte, spossandosi sui remi. Frattanto si leva il coro delle rane, inneggianti a Dioniso, alle Muse e ad Apollo. Esse non riconoscono il dio che le apostrofa con sgarbo, irritato del loro Brekekekex koax koax; anzi, lo trattano da seccatore e strillano più forte di lui. La strana contesa finisce perché la barca tocca riva. Un suono di flauti annuncia un nuovo coro: è quello degli iniziati ai misteri Eleusini. Dioniso sembra scarsamente interessato ai toni mistici del coro, che pure lo riguardano, e si dichiara disponibile alla bisboccia e alle danze e agli scherzi.
Il coro è davvero assai interessante: evocati i riti misterici, includendo in essi anche l'iniziazione alla lingua del teatro comico, prega Demetra, regina della fecondità, perché gli faccia dire "molte cose ridicole e molte altre serie"; infine accetta di compiacere Dioniso e il suo servo cantando una serie di motteggi violentemente buffoneschi nei confronti di notissimi personaggi pubblici. A questo punto Dioniso e Xantia si ritrovano davanti alla casa di Plutone; qui si susseguono alcune scene di grande effetto umoristico sul tema del travestimento. Scambiato per Eracle, Dioniso viene assalito dall' ostessa (alla quale il vero Eracle non ha pagato il conto) e da Eaco (a cui Eracle ha sottratto il cane Cerbero). Dioniso se la fa addosso per la paura e dà a Xantia la clava e la pelle di leone perché sia lui a prendersi le botte. Nel dubbio vengono entrambi picchiati, e si comportano così stoicamente che Eaco è costretto ad ammettere: "Non riesco a capire chi di voi due è un dio".
Dopo l' intermezzo comincia la parte agonistica della commedia. Nell'Ade Eschilo e il nuovo arrivato Euripide altercano vivacemente per occupare il trono dell' arte tragica. Plutone istituisce una gara di poesia, che sarà giudicata da Dioniso. Eschilo ed Euripide si demoliscono a vicenda con stringenti argomentazioni parodie e micidiali citazioni. Mentre il coro alterna commenti minchionatori a squisite definizioni estetiche, le accuse e gli insulti dei due contendenti s'intrecciano intimamente alle reciproche ferocissime analisi stilistiche. La caricatura tocca il culmine quando, rimasto incerto l'esito dello scontro, si decide di pesare i versi sulla bilancia sotto il controllo di Dioniso. I poeti provano per tre volte, i versi di Eschilo pesano di più. Ma Dioniso, per decidere chi è il migliore, si ricorda che è sceso nell'Ade per richiamare in vita il poeta che salvi la città e conservi il teatro. Dopo averla tirata per le lunghe, Dioniso sceglie Eschilo e lascia Euripide nell'Ade. Così lo scopo iniziale del viaggio è comicamente rovesciato. Se la tragedia è morta, tanto vale resuscitare "l'altitonante" e solenne poeta morale di un'età scomparsa.
In queste Rane, dove tutto è ambiguo e sconcertante, anche la scelta finale di Dioniso suona sottilmente derisoria. Come dice Del Corno, in quell' anno 405 il regno dei morti era lì, in Atene. E il bellissimo canto delle rane nella palude stigia non è forse semplicemente il canto di Aristofane, il canto di qualsiasi poeta, nel mondo dei morti? Non significherà il mistero buffo della natura morta che pur sempre esulta nella danza "screziata di bolle che scoppiano"? Il ritornello delle rane, che il vecchio Ettore Romagnoli rendeva graziosamente con Brechechechè, coà, coà, si dica quel che si vuole, è tra i tanti allegri enigmi di questa commedia il più suggestivo.
Per estensione, forse non del tutto involontaria, l'intero spettacolo ne riverbera l'eco. La geniale, folgorante disinvoltura di Aristofane non risparmia nessuno e salva soltanto la poesia; purché questa, ghigna l'autore, abbia tutta l'intenzione di migliorare i cittadini.
Sarà. La commedia gioca con mirabile sottigliezza sul fraintendimento. Le rane della palude non riconoscono Dioniso, e questi sente nel loro delizioso canto solo un fastidioso rumore. E Aristofane sceglie Eschilo perché sa, e lo dice per bocca di un servo, che tra Eschilo e gli Ateniesi non correva "buon sangue". Le Rane è un capolavoro ideato dal dispetto.


“la Repubblica”, 29 settembre 1985

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