Dal “manifesto”, che per primo pubblicò in Italia il racconto di Soriano sul rigore più lungo del mondo, recupero questo bel reportage d’ultima pagina, risalente ad alcuni anni fa, che cerca in Argentina le origini della storia. Le immagini relative al Cipolletti Club, dello stesso Splendore, provengono da un sito ove lo stesso reportage è stato ripreso, http://blog.futbologia.org/ , che vivamente consiglio agli appassionati di calcio e di letteratura. (S.L.L.)
NELLA “CANCHA” DI CIPOLLETTI
ALLE ORIGINI DELLA SFIDA
CHE ISPIRÒ IL CELEBRE RACCONTO
DI OSVALDO SORIANO
Cinquant'anni fa battevano il
rigore più lungo del mondo. Lo ha raccontato Osvaldo Soriano, giornalista e
scrittore argentino, rendendo letterario un episodio avvenuto nei paraggi
ostili e assolati della Valle de Rio Negro, nel nord della Patagonia: luoghi
aridi e riciclati dal vento, bastonati dal sole e sculacciati dall'inverno.
Osvaldo Soriano se n'è andato il
29 gennaio 1997. Ha raccontato un calcio molto argentino, sgraziatamente
eroico, a tratti surreale, spesso violento. Un calcio marcio negli arbitri,
impuro nei modi ma lindo nei sentimenti. El Gordo, il Grasso, come lo
chiamavano gli amici, non diceva mai di preciso in che luogo erano accaduti i
fatti che raccontava. Partiva da qualcosa di vero, e si vede, ma leggendo i
racconti un po' di dubbi ti si insinuano. Sono storie che provengono dalla
dispensa dagli anni 50-60, tra folate di gloria e barbare pedate. Narrano di
allenatori visionari e portieri-eroi, come il Gato Diaz che parò il rigore più
lungo del mondo. Un racconto davvero d'altri tempi.
Una squadraccia, la Estrella
Polar, arriva a giocarsi il titolo di un campionataccio con lo squadrone che da
16 anni non molla il trono, il Deportivo Belgrano, al quale basta un pari.
L'Estrella va in vantaggio nel finale e l'arbitro, per salvare la pelle,
s'inventa un rigore pro-Belgrano all'ultimo minuto. Uno dell'Estrella lo stende
con un pugno, si scatena un grande parapiglia, il match viene sospeso e la lega
decide che una settimana dopo si va tutti al campo, si batte il rigore sotto il
solleone e si torna a casa lessi.
Il rigore dura dunque sette
giorni: un'eternità, per i protagonisti. È la settimana del Gato Diaz, portiere
dell'Estrella Polar, forte e stagionato come un ottimo vino di Mendoza. Nel
momento esatto del rigore, mentre il Gato para il tiro del bomber Constante
Gauna, all'arbitro viene un attacco epilettico. Il rigore va di nuovo tirato,
con l'arbitro sorretto dal guardalinee. Il Gato però è già un immortale e
abbassa ancora la saracinesca. Inizia la sua leggenda. Soriano dice di aver
incontrato quel monumento di portiere rigido dalla zazzera scintillante qualche
anno dopo e di avergli fatto gol. Punto.
Quel penalty leggendario dove è
stato tirato? Esiste ancora quel campo sportivo, che in spagnolo è la cancha? Soriano ha fatto il perfido. Le
sue indicazioni sono vaghe: «...un posto sperduto nella Valle de Rio Negro, nel
1958». Allora buon compleanno, rigore. Quest'anno sono 50 anni. Soriano aveva
14 anni e giocava nel Confluencia, un club di Cipolletti, una cittadina che
prende il nome da Cesare Cipolletti, ingegnere idraulico che all'inizio del 900
ha ridisegnato i percorsi delle acque che vanno e vengono dalla città. Del
Confluencia, meteora di quartiere, non rimane traccia. Il Cipolletti invece è
un club che ha una storia a quattro ante. È del 1926, ha la maglia bianconera
come la Juve. Oggi gioca nel Torneo Argentino A, la nostra serie C1. Ha uno
stadio asfissiante da 11mila posti, tiene alla porta 18 tifosi identificati
della «barra brava», che spaccano tutto. Sul portone d'ingresso della tifoseria
ospite hanno scritto a spray: «Entra se vuoi, esci se puoi». Il presidente
dell'odierno Cipolletti si chiama Julio Arriaga, è stato sindaco per otto anni.
Ora è deputato nazionale. Usa il pallone per farsi notare. Il denaro vero lo
mette lo sponsor, la Ops, un'azienda che lavora nel settore petrolifero della
regione, che è anche terra di frutta, vino e ossa di dinosauro.
Nei suoi 82 anni di vita il
Cipolletti è stato per sei volte nella serie A argentina e nel '77 ha anche
battuto a domicilio il Boca Juniors. L'ultima amichevole dell'Argentina che nel
1978 vinse il Mondiale fatto in casa si disputò proprio su questo campo. A
Miguel, il factotum del club (lo utilero),
grande fan del Boca Juniors, sei anni fa hanno trapiantato i reni: «Mi hanno
salvato a Buenos Aires, nell'ospedale a fianco dello stadio del Boca». Così,
dice, ora non ha solo il cuore-Boca, ma anche i reni.
Comunque non è qui, sul
rettangolo in calle O'Higgins dove pascolano i sogni del Cipolletti, che hanno
battuto il rigore più lungo del mondo. L'hanno tirato nei campi da tennis
adiacenti, che fanno parte del complesso sportivo dalle mura bianco-scrostate
piene di scritte a vernice spray. Evita!
Noi non vi lasceremo mai! Basta rubare, presidenti!
Personaggi immortali
La storia del penàl (il rigore) è un po' diversa da
quella raccontata da Soriano e i protagonisti hanno nomi differenti, anche se
non mancano le assonanze. Ma è proprio dentro questa scoperta che si coglie la
bravura del Gordo, grande firma giornalistica del quotidiano argentino “Pagina/12”
e anche del “manifesto”, un talento narrativo che non usa i personaggi ma li esalta
al punto da renderli immortali. E non è tanto per dire.
Per ricostruire uno dei più pazzi
rigori della storia del calcio ci vogliono un paio di giorni di indagini. Prima
di tutto si deve andare a Cipolletti. Che non è una città di passaggio. Non rientra
nelle rotte turistiche e vive all'ombra di Neuquen, 350mila abitanti contro gli
80mila di «Cipo».
A Cipolletti molti vecchi se ne
sono andati e molti giovani non sanno chi è Osvaldo Soriano. Eppure la casa
dove è cresciuto il Gordo, nato a Mar del Plata ma trasferitosi a Cipolletti
con il padre, ispettore degli acquedotti, quando aveva tre anni, è tra le
attrazioni della città, stando al sito internet.
Il taxista indolente non lo ha
mai sentito nominare. Porta un orecchino, occhiali da sole molto finti e un
tatuaggio di Maradona sul bicipite floscio. La titolare di un albergo in
centro, volto stanco e capelli che sembrano essere stati perquisiti da poco
dalla polizia di frontiera, dice che il nome non gli suona nuovo. Per fortuna
c'è il barista Charlie Garcia, occhi profondi e denti un po' in disordine, con
in tasca numeri di telefono che fanno la differenza. Ti manda subito da Carlos
Alberto Segovia, notaio, 72 anni ben portati, che ha conosciuto Soriano pochi
anni prima della morte a un incontro sui diritti umani all'università di
Neuquen. Soriano, volato in Europa nel 1976 per dribblare la dittatura
argentina, era uno dal quale potevi ricevere infinite lezioni sul tema. Come i
cileni Skarmeta e Sepulveda.
Lo studio di Segovia è bianco,
dietro la scrivania c'è una riproduzione di un quadro di Picasso, Guernica. Ricorda di Soriano quello che
ricordano in molti: che viveva di notte e dormiva di giorno. Chiamava gli amici
e li teneva al telefono per ore. Da Parigi spendeva un capitale per sapere cosa
aveva fatto la sua squadra del cuore, il San Lorenzo de Almagro.
«Io sono tifoso del Boca - dice
Segovia - lui invece preferiva un club come il San Lorenzo perché era un
qualcosa che nasceva dal popolo. Uno scrittore amico di Soriano, Osvaldo Bayer,
lo prendeva in giro perché era ateo e il San Lorenzo portava il nome di un
santo ed era stato fondato da un prete. Vede, il football è un parametro della
vita argentina e su quello si basano molte cose qui da noi. Soriano era uno del
popolo. È ancora aperto il dibattito su cosa abbia lasciato la sua letteratura.
Qualcuno insiste nel definirla di intrattenimento. Invece ha una profondità
vera, signori miei».
Segovia sa molto del calcio
argentino. Snocciola nomi di grandi giocatori, cita i miti del Boca, da Carlos
Sosa a Ernesto Lazzati, che veniva chiamato «el pibe de oro» ben prima di Maradona. Gente degli anni 50. Poi,
d'impulso, il notaio alza la cornetta e chiama Josè «Pepe» Santos, amico
d'infanzia di Soriano.
Pepe Santos, 67 anni, è direttore
della contabilità della città di Neuquen. La sua libreria contiene 4mila titoli
e naturalmente ci sono tutti i libri di Soriano. Ha trascorso l'infanzia con il
Gordo, che era più giovane di lui di tre anni: «Io leggevo e andavo al cinema.
Lui si faceva raccontare tutto e ascoltava: era come se leggesse e vedesse. Non
scriveva. Per non prenderle dalla madre si arrampicava sul pero davanti a casa.
Giocava male a pallone: aveva le gambe storte e una bella castagna, niente più.
Però aveva una mente superiore, era un pensatore».
Pepe Santos adora Dino Buzzati,
guarda il campionato italiano e simpatizza per la Reggina, così vicina al suo
albero genealogico. Di Soriano ha perso le tracce quando il Gordo se n'è andato
a Buenos Aires a fare il giornalista. L'ha ritrovato lì 30 anni dopo a una
Fiera dell'editoria. Era il 1996, il Gordo indossava un vestito color cannella,
sudava e firmava autografi a uno stand. La memoria di Pepe non perdona: «Stava
sotto un enorme cartello con scritto: vietato fumare. Teneva tra le dita un
sigaro cubano più grosso di lui, ed era acceso naturalmente. Mi sono detto: non
puoi che essere tu, grandissimo figlio di puttana. Mi sono messo in fila e
quando mi ha riconosciuto mi ha abbracciato. Mentre uscivamo per andare a bere
un caffè l'ho visto, come dire, più alto. Gli ho chiesto come se la passasse e
lui mi ha detto: me ne sto andando. Andando dove? Sto morendo, amico mio. E mi
ha stretto forte un braccio».
Pepe non ha più lacrime per
commuoversi, ormai sono 12 anni che racconta questa storia. Dice che, nel male,
è andata bene: morendo a 54 anni Soriano non si è deteriorato, è rimasto
irraggiungibile e la sua produzione è ancora folgorante. Un po' come Carlos
Gardel per il tango.
Secondo Pepe, Cipolletti non fa
abbastanza per ricordare Osvaldo Soriano. Ha messo una targa vicino alla
vecchia casa dove abitava, ma qualcuno se l'è portata via, lasciando ancor più
grande il vuoto intorno allo scrittore nella città in cui scrittore è diventato
assorbendo gioie e dolori di queste lande affannate nel cuore migratorio dell'Argentina.
Alla fine Pepe, messo all'angolo,
si ritrova davanti a un taccuino a ricostruire il rigore più lungo del mondo.
Abbassa la testa e fa sbucare lo sguardo da sopra gli occhiali da lettura
poggiati su una gobba del naso che sembra fatta apposta. Fissa il taccuino,
scuote la testa: «Figlio di puttana, sì perché era un gran figlio di puttana.
Il Gordo ha fatto un gioco di prestigio. I fatti sono andati diversamente.
Innanzitutto non era il 1958 ma il 1953, massimo 54». Ma siamo sicuri? «Sono
sicuro. Non era 50 anni fa. No, no e no».
Ecco allora come è andata. Nella
zona di Cipolletti, che all'epoca era molto più grande di Neuquen, c'è la Lega
Deportiva Confluencia. Vi partecipano cinque club cittadini e una decina dei
paesi limitrofi. Il club del Cipolletti, sempre lui, disputa una
stagione-monstre come non gli capitava da anni e si erge ad outsider della
squadra più quotata, i «magos» dell'Union Allen Progresista, che ha fatto le
scarpe alla squadra più in voga di Allen, l'Evita Peron, ed è formata da
giocatori provenienti dalla città di Rosario, guida il campionato fino
all'ultima giornata, tallonata a -1 dal Cipolletti. Decide tutto il match in
casa degli 'albinegros' del Cipo: ultima chiamata per la gloria. Tifosi in
ribollente attesa, grande tensione.
Il campo sportivo era
minimalista. Non c'erano tribune, solo una staccionata. Gli spogliatoi erano
una baracca sulla quale campeggiava la scritta: chi comanda in campo è solo
l'arbitro. La cancha era sacra e i
giocatori pure, i bambini conoscevano a memoria i loro nomi senza che ci
fossero le figurine. Il match resta sullo 0-0 fino a 20 minuti dalla fine,
quando l'arbitro decreta un rigore per il Cipolletti. Gli ospiti la prendono
male e lo aggrediscono, i tifosi invadono il campo e tutto sfocia in una rissa
di taglia extra large. Il disordine da tromba d'aria atterrisce l'arbitro che
fischia la fine: che se la veda la Lega. In settimana arriva la sentenza-choc:
i tafferugli erano poca cosa, l'arbitro non era in sé e gli toglieranno i
gradi. La partita va terminata, ma a porte chiuse. Si riprende dal rigore. Poi,
venti minuti di gioco divisi in una specie di due tempi supplementari da dieci.
Pepe Santos è in prima fila
La domenica dopo, il pubblico si
assiepa al cancello e inizia a prendersi per il bavero con la polizia. Solo i
bambini del luogo, che conoscono i pertugi come gli scoiattoli, s'intrufolano e
vanno a nascondersi tra i rovi dietro la porta dove si tira il rigore. Pepe
Santos è in prima fila, Soriano non si sa. Alle 15, sotto un sole mastodontico,
le squadre entrano in campo. L'arbitro è tutto vestito di bianco e indossa
pantaloni lunghi. Erano così gli arbitri dell'epoca: un lutto al contrario.
La palla è di quelle vecchie
marroni, con la cucitura che quando la prendevi di testa ti tagliavi come i
pugili. Questo dice Segovia. Secondo Pepe Santos la palla era invece bianca.
Discutono. Sarà l'argomento di cui parleranno nei prossimi anni ogni volta che
si incontreranno. In campo per il Cipolletti (maglia a strisce bianconere e
calzoncini bianchi) ci sono fior di giocatori, su tutti l'urticante puntero Constante Rodriguez, il
fenomenale bomber Hector Tito Padìn, Alberto Beto Alegre, Pedro Righetti, El
Pirata Rivero, il portiere «Palito» (Stuzzicadenti) Lorenzo e «Stampilla»
(Timbro) Osorio.
Tra i magos c'è gente che fa cantare il pallone, perchè la scuola di
Rosario è indiscutibilmente una delle migliori d'Argentina. Il portiere si
chiama Benjamin, detto Tomate per via del volto rubizzo. È alto e magro,
indossa le ginocchiere d'ordinanza dei portieri gratta-campo. Le sue mani sono
nude, come tutti i numeri 1 del tempo. L'Union schiera tra gli altri Elvio
Cornide «Picciafuoco», Juan Carlos Tarifa «El Lloron», il Piagnone, Elino Maggi
detto «El Gringo».
Sono le tre. Si inizia dal
rigore. In campo ognuno sembra farsi i fatti suoi. Il portiere Benjamin va
verso la porta con il terrore addosso, sembra uno zombie. La porta guarda a
sud. Il nord inizia dove sono nascosti i bambini. Non si capisce che cosa
succeda, lo que pasò, ma la storia
cambia qui il suo corso. I grandi tiratori si defilano, Padín prende il pallone
e va fiero verso il dischetto, poi confabula con il centromediano Righetti e
gli lascia il pesante fardello. Persino i bambini si stupiscono: Righetti sarà
pure una diga, ma non un violinista.
Righetti sistema la palla sul
dischetto, si allontana di quattro passi e quando l'arbitro fischia va lento
sul pallone. Il tiro è inguardabile: la palla calciata da Righetti è una
tartaruga centrale che Benjamin, sempre imbalsamato al centro della porta, si
ritrova tra le gambe. La abbranca e si sveglia, comincia a correre avanti e
indietro con quel trofeo in mano, festeggiato da suoi. Si perdono almeno cinque
minuti, manca solo la foto-ricordo. Il padre di Padìn, al cancello, sente che è
andata male e si mena con i tifosi dell'Union, tutti signori.
Qui finisce il rigore più lungo
del mondo e qui cominciano i 20 minuti più lunghi dell'Union, assediato dal
Cipolletti. A pochi minuti dalla fine una palla schizza fuori area da una
mischia e Osorio con una legnata paurosa quasi smonta la traversa. Si infrange
il sogno del Cipolletti: lo 0-0 laurea l'Union Allen Progresista di nuovo
campione. Hanno vinto i soliti noti, il rigore è una mezzaluna di storia dentro
un mare smarrito. Le lacrime. I ricordi brucianti.
Allora che ne è del mitico
portiere Gato Diaz? Un'invenzione poetica di Soriano, forse ispirata dalla
figura di un Gato di quegli anni. Che ne è delle squadre Estrella Polar e
Deportivo Belgrano? Esistevano, ma erano squadre di quartiere che hanno visto
poche stagioni per poi infilarsi negli armadi della miseria, del cuore.
Che ne è di tutti gli altri? Sono
diventati polvere, sono diventati arte. Hanno dato calci a un pallone e in
cambio si sono beccati l'eternità della letteratura.
il manifesto, 17 febbraio 2008
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