Giovanni Pascoli |
La riflessione sul ruolo della
voce nella poesia costituisce da molti anni un luogo classico della critica
letteraria, in particolare dopo il pionieristico volume di Paul Zumthor La presenza della voce. Un recente libro
di Arnaldo Soldani, Le voci nella poesia.
Sette capitoli sulle forme discorsive (Carocci, pp. 242, euro 25), contribuisce
ad arricchire il panorama degli studi, ma da una prospettiva attenta
soprattutto agli aspetti linguistico-formali. Soldani, allievo di Mengaldo,
dichiara nella sezione introduttiva la sua differente impostazione rispetto a
Zumthor, giustificandola con la diversa natura dei testi di cui si occupa,
oramai completamente sganciati dal contesto orale della loro esecuzione
materiale.
C'è un momento in cui la voce
prevalente del testo si «interiorizza», si cala nella dimensione complessa
della scrittura, liberandosi dall'atto concreto della sua enunciazione e
assumendo in tal modo un'autonomia e una forza in precedenza sconosciute;
questo momento aurorale, nella tradizione italiana, è rappresentato dalla
lirica di Dante e Petrarca, autore che inaugura un assetto, una postura
enunciativa dell'io poetico di lunghissima durata.
Tre sono i fuochi del discorso di
Soldani: appunto il Medioevo,
nel passaggio dallo Stilnovo a Dante e Petrarca; il Rinascimento, con le nuove
prospettive introdotte dal Tasso epico della Gerusalemme liberata; l'epoca moderna, con l'inquieto e
rivoluzionario ricorso alla tradizione del Pascoli. Appello alla tradizione e
alla centralità della metrica cui rimane anche fedele l'autore del saggio, che
rinuncia (ma non si poteva forse affrontare materia di tale ampiezza in
un'unica sede) a seguire le vicende della voce nella poesia novecentesca, pure
notevoli e foriere di sostanziali novità. Lo studioso si interroga, in
particolare, sul rapporto complesso che, all'interno questa «voce testuale»,
intercorre tra sintassi e metrica, arrivando ad attribuire al primo ambito la
dimensione soggettiva, propria della rappresentazione, che modella il discorso,
e al secondo la dimensione oggettiva, propria dell'elocuzione, espressa da un
ritmo che si scandisce indipendentemente dalle intenzioni del locutore.
È proprio qui che si inserisce la
grande novità della lirica dantesca rispetto allo Stilnovo, ovvero la rottura
della corrispondenza tra sintassi e metrica, poiché la prima conquista forme
più complesse che conferiscono al discorso una tensione inedita e testimoniano
una volontà di controllo autoriale in precedenza sconosciuta. Con Petrarca si
compie un passaggio ulteriore: questa voce rafforzata non proviene più da un
narratore esterno ma si interiorizza, provocando effetti notevoli sul piano
poetologico, primo fra tutti la coincidenza (non effettiva, ma assunta come
dato finzionale) tra tempo della rappresentazione e tempo dell'enunciazione: il
soggetto che ci parla, insomma, «ritrae se stesso in presa diretta».
L'immobilità tormentosa dell'io petrarchesco deve però confrontarsi con lo
scorrere oggettivo del tempo, e da questo conflitto nasce appunto la
straordinaria vitalità del Canzoniere,
il suo valore paradigmatico.
Con il Tasso della Liberata il mondo rappresentato assorbe
in sé quelle caratteristiche di oggettività che in precedenza (e in particolare
nell'Ariosto) erano appannaggio del narratore; ciò crea una forte dialettica
interna ai personaggi, in lotta contro i loro errori e il destino avverso:
assoluta novità che anticipa una modalità narrativa poi canonica in epoca
romantica. D'altra parte, la voce del narratore, ad esempio nel celebre
episodio del duello tra Tancredi e Clorinda, perde quella distanza rispetto al
mondo rappresentato caratteristica del poema ariostesco per intonare quasi un
«commento musicale» intriso di commozione.
Da ultimo, l'analisi dell'incrocio
di voci che il Pascoli mette in scena nei Canti
di Castelvecchio mostra un ritrarsi dell'io narrante di fronte alla natura:
processo che culmina nell'Ora di Barga,
esempio perfetto di «inappartenenza dell'io contemplante rispetto al mondo
contemplato» e soprattutto nel Gelsomino
notturno, in cui «la scena è lasciata per intero agli oggetti». Al soggetto
non resta, perduta la speranza di un'intima comunione con le cose, che il
dialogo con sé stesso di Ritorno a San
Mauro.
Verrà poi il Montale di Meriggiare a rendere definitivo lo iato
e a inaugurare il moderno statuto della voce del soggetto poetico, il cui
spazio istituzionale appare fondato, come ha mostrato bene Agamben per Valéry,
sull'alienazione.
L'analisi della presenza della
voce nella tradizione poetica italiana disegna insomma, con l'interiorità
conflittuale del Petrarca, l'empatia tragica del Tasso, il ripiegamento
autoriflessivo del Pascoli, la parabola di una graduale sfiducia verso la
dicibilità del mondo, cui però corrisponde non il silenzio ma il rigoglio di
una parola che sa trarre alimento da se stessa: la voce plurale della poesia.
il manifesto, 30 aprile 2011
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