Mazzini non gode di grandi simpatie in Italia, se non in cerchie relativamente ristrette. Non è un eroe popolare, forse non lo è mai stato. Ci sono varie spiegazioni di ciò, né l'occasione del bicentenario della nascita ha potuto invertire la tendenza. Si potrebbero tentare varie spiegazioni. Ad esempio: quale forza politica italiana ne è stata davvero erede? Forse nessuna; nemmeno il Partito repubblicano, che pure a lui si è sempre esplicitamente richiamato. Il fatto è tanto più sorprendente, se si considera che il nome e l'esempio della sua azione ebbero invece risonanza anche molto lontano dall'Europa come nella lotta dell'India per l'indipendenza.
Nell'Italia cavouriana e
poi postunitaria Mazzini era, per i pubblici poteri, un pericoloso
sovversivo. È nota del resto l'ultima sua vicenda: il rientro
clandestino in Italia, il tentativo di far sprigionare la rivoluzione
a partire dalla Sicilia per liberare Roma dal governo papale
(progetto non inverosimile dopo il crollo della Francia), l'arresto,
la morte.
Nei decenni seguenti,
mentre si formava e si consolidava la vulgata sul nostro
«risorgimento nazionale», lo schieramento democratico cercò di far
entrare Mazzini nel «pantheon» ufficiale dell'Italia riunificata; e
ottenne il successo, macchiato da qualche autocensura, di far
decollare un'edizione nazionale delle sue opere.
Ma nel frattempo il
panorama politico italiano a cavallo tra Otto e Novecento si era
talmente modificato che Mazzini restò piuttosto in un «limbo». Non
assunse il ruolo di bandiera o di simbolo: non lo era per il nascente
movimento socialista, e lo era solo a parole per le forze
democratiche non socialiste. Il fatto è che Mazzini era - e resta -
un maestro diffìcile, un maestro esigente. E la stessa
«canonizzazione» e il connesso, parziale, svigorimento della sua
autentica immagine gli hanno alla fine nociuto. Siamo ancora alla
ricerca e al chiarimento del suo «vero» pensiero: un campo nel
quale gli studi di Salvo Mastellone, riscopritore del «Mazzini
inglese», hanno conseguito ottimi risultati e guadagnato grandi
meriti.
Ci sono molti aspetti che
a questo punto sarebbe opportuno evocare. Per esempio quelli che ha
messo in luce Maurizio Viroli nella stringata ed efficace prefazione
alla rinnovata edizione Utet degli Scrìtti politici (2011):
l'estrema attualità, nonostante le apparenze, della mazziniana
priorità dei doveri; il richiamo alla forza della religiosità come
veicolo di redenzione politica di massa; la nozione per nulla
nazionalistica di «patria» eccetera.
Ma ce n'è uno, oggi
attualissimo, che fu messo con grande efficacia in luce da Benedetto
Croce nel quinto capitolo della Storia d'Europa nel secolo
decimonono uscita da Laterza nel 1932 (ripubblicata da Adelphi
nel 1991), cui vorrei qui dare rilievo. Scrive Croce, in quel
capitolo, che la vera grandezza di Mazzini consistette nell'aver
compreso molto presto, già all'indomani della rivoluzione parigina
del luglio 1830 (quando lui aveva appena venticinque anni), che la
libertà non si deve attendere che ce la portino gli altri, da fuori.
I popoli si liberano da soli o non si liberano: questo, al di là
delle alterne vicende che gli toccarono in vita, il senso durevole
del suo insegnamento. Ed è alla luce di questo che l'esportazione,
armi in pugno, oggi in voga, della «democrazia», praticata da chi
pensa che il mondo vada «presidiato», non ha né senso né futuro.
Corriere della sera, 15
luglio 2005
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