Agenore Vallini detto Elio |
“Conosci la carta
velina?” “Veline? Sì, le conosco bene. La televisione ce le
mostra ogni giorno. Ma le veline di carta non sapevo che
esistessero.” Così potrebbe risponderci un nostro giovane, ormai
uso a TV, computer e sms. Ma chi – come noi – ha qualche anno in
più, la “carta velina” se la ricorda bene. La definizione ormai
non si ritrova più neppure nei dizionari della lingua italiana, ma
si trattava di un foglio sottilissimo di carta praticamente
trasparente, che posto sotto la “carta carbone” – altro reperto
archeologico e sconosciuto – serviva a riprodurre i testi che si
scrivevano a mano o con la storica “macchina da scrivere”.
Perché ricordarla qui?
Perché riteniamo che non sia sufficientemente conosciuta
l’importanza che questa carta ebbe nell’antifascismo militante:
la carta, ben definita dall’aggettivo “velina”, poteva essere
molto facilmente accartocciata e ingerita, quando l’antifascista
venisse eventualmente arrestato, evitando così che i messaggi e gli
appunti della sua militanza finissero in mano ai nemici.
E così è appunto sulla
carta velina che anche Elio scriveva i suoi “appunti di lavoro di
un rivoluzionario”. Elio, cioè Agenore Vallini, era responsabile
del lavoro di massa del PCI di Milano e perciò dirigente politico
degli scioperi che si svolsero in città e in provincia fra il 1944 e
il 1945.
La storia dei grandi
scioperi operai e del loro impatto sulle sorti del regime fascista e
della guerra è stata ben studiata e divulgata. Ma quello che esce
dalle “veline” di Elio, fortunosamente ritrovate dal figlio Edio,
è la storia delle lotte minute e quotidiane che non erano
propriamente scioperi ma uno stillicidio continuo di azioni di
opposizione, provocato dalla situazione difficilissima in cui si
trovava allora ogni italiano.
L’inverno di guerra
1944-45 era stato durissimo: su una popolazione già indebolita da
anni di guerra, di paure e privazioni, si era abbattuto un inverno
molto rigido, con temperature che arrivavano fino a 15 gradi sotto
zero. Non solo mancava combustibile per il riscaldamento, sia nelle
case che per le famiglie rimaste senza tetto per i bombardamenti, ma
mancava cibo sufficiente a restaurare le forze per affrontare il
freddo.
Le tessere alimentari,
che disciplinavano la distribuzione dei generi più indispensabili,
prevedevano una dieta che non arrivava a 1000 calorie per persona
adulta. Secondo una inchiesta condotta dal professor Luzzatto Fegiz
dell’Università di Triste, già nel 1942 circa 10 milioni di
persone soffrivano la fame nel pieno senso fisiologico della parola e
altrettante avevano un vitto insufficiente (come riporta Miriam Mafai
nel suo Pane nero). Nel 1945 la razione di pane è scesa a 100
grammi al giorno a persona, ma si tratta di un pane scuro, umido e
pesante, dove insieme con (poca) farina, si trova di tutto, segale e
ceci e perfino segatura.
Una insegnante di scuola
media riferisce: “Sono sempre più frequenti i casi di ragazze che
si sentono male. Io stessa mi sento molto debole e salgo al secondo
piano della scuola solo quando vi è assoluta necessità. Prima lo
facevo anche venti volte al giorno”. Un medico nota un grande
aumento della tisi della pubertà fra le ragazze fra i tredici e i
sedici anni, mentre la mortalità infantile ha un’impennata che,
secondo l’anagrafe milanese, raggiunge il 20% e i piccolissimi
muoiono con tragica facilità.
Nelle città
semidistrutte dai bombardamenti e percorse da una popolazione
macilenta, composta soprattutto di donne e minori, si scatena una
nuova guerra. Non si tratta di bombe o di attentati. Sono
manifestazioni di protesta disperata, lotte per ottenere la
distribuzione regolare almeno delle razioni previste dalle tessere
alimentari, o qualche grammo in più di burro o di pasta, o qualche
chilo di legna o carbone. E sono lotte condotte soprattutto dalle
donne. Nelle fabbriche, costrette a volte, per la mancanza di materie
prime, a funzionare con orari ridotti, si organizzano mense interne
per dare agli operai (e alle operaie) la forza minima per svolgere i
loro compiti. E anche qui le manifestazioni di protesta, le fermate
improvvise che non sono tecnicamente scioperi ma incidono sulla
produttività aziendale, sono dettate per la maggior parte dalle
rivendicazioni di razioni giuste, di un salario meno misero che
permetta l’acquisto di alimenti che pure al mercato nero si
trovano, ma a prezzi stellari.
Ed è qui che risultano
preziose le veline di Elio: in una di queste fragili pagine sono
segnate, giorno per giorno, le fermate effettuate nelle fabbriche
milanesi. E’ il febbraio del 1945: di 32 manifestazioni che siamo
riusciti a decifrare nella grafia minuta scritta a matita dal
dirigente comunista, 13 sono esplicite rivendicazioni di
miglioramenti per i viveri o la mensa, una è una richiesta di sale,
le altre chiedono miglioramenti salariali; alle Manifatture di Monza
si fa una fermata improvvisa per difendere gli operai destinati al
trasferimento in Germania; alla Pracchi si lotta conto il
licenziamento di alcuni dipendenti, alle Trafilerie per la
sospensione di un operaio.
Sulla stessa velina sono
segnate altre 11 manifestazioni senza indicazione di data precisa,
che coinvolgono le maggiori fabbriche milanesi – Borletti, Brown
Boveri, Alfa Romeo, Magneti Marelli, Innocenti, Caproni, Montecatini
– mentre altre 10, riportate con abbreviazioni, risultano oggi
indecifrabili.
Si raggiunge però un
robusto risultato di 53 manifestazioni in un solo mese: si tratta di
forme di lotta che lasciano incerte le autorità fasciste e gli
occupanti tedeschi, che non riescono a decifrare fino a che punto le
proteste siano spontanee oppure organizzate. Le autorità sanno bene
che fra le centinaia di persone che vi partecipano c’è sicuramente
qualcuno legato al movimento clandestino di resistenza. Ma come
individuare gli attivisti fra una folla di gente disperata per il
freddo e la fame?
Quelle manifestazioni,
lanciate dai pochissimi organizzatori antifascisti, non incontravano
grande difficoltà a ottenere risposta fra una popolazione già più
o meno consciamente decisa a dire “basta” al regime fascista, e
anche i maggiori gerarchi ne erano a conoscenza fin dagli scioperi
del marzo 1943, quando Farinacci scriveva a Mussolini: “Se ti
dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente
economico, ti dicono una menzogna… Dovunque, nei tram, nei caffè,
nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica, si
inveisce contro il Regime e si denigra non più questo o quel gerarca
ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più
insorge”.
Per il dirigente politico
del PCI, quelle azioni costituivano come le note che compongono una
complessa sinfonia: Elio sa bene che ogni manifestazione è un passo
avanti verso l’insurrezione generale; anche le stelle – egli
usava dire – sono fatte di atomi. La sua stella è la liberazione
dal nazifascismo, i suoi atomi sono queste azioni quotidiane che
logorano il potere degli occupanti. Si può sconfiggere una brigata
partigiana, si può imprigionare, torturare e annientare un militante
antifascista: ma di fronte a centinaia di donne che vogliono qualche
grammo di burro, che cosa possono fare i fascisti e i nazisti? Le
stragi vengono compiute nei villaggi fra le montagne, ma nelle città
non si osa travolgere la popolazione civile e nelle fabbriche la
manodopera è troppo preziosa. Se si tratta di scioperi dichiarati
non è possibile alcun dubbio: operai e operaie vengono deportati in
Germania. Ma lo stillicidio quotidiano di proteste, di fermate, di
rivendicazioni corrode in maniera impercettibile ma sicura il potere
nero che incombe sulla città.
Le veline di Elio, nella
loro apparente fragilità, rivelano tutta la loro forza: non solo
sono sopravvissute intatte per quasi settant’anni, ma ci riportano
l’atmosfera quotidiana di quei giorni di ordinaria tragedia e di
freddo furore. Sulla città distrutta, sulla folla disperata arriverà
l’aprile, la primavera rossa di sangue e di bandiere. Con una sola
speranza: che sia, questa volta e per sempre, la pace.
Dal sito “ANPI 25
Aprile Milano”, 19 giugno 2012
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