Andrea Zanzotto |
«Siccome un bel tacer
non fu mai scritto / un bello scritto non fu mai tacere»: scrive
così Andrea Zanzotto al termine del suo ultimo libro di poesia,
Conglomerati (2009), con cui adesso si chiude la corposissima
edizione di Tutte le poesie, uscita in occasione dei suoi
novant’anni a cura di Stefano Dal Bianco (Oscar Mondadori).
Zanzotto è sempre stato
un poeta di notevole auto-consapevolezza critica, sempre più che
generoso nel proporre definizioni o immagini esatte e molto
produttive per la comprensione della sua scrittura poetica. Lo è
stato a tal punto non dico da togliere la parola di bocca ai suoi
lettori e interpreti – si è anzi scritto sempre molto sulla sua
poesia –, ma da metterci la propria in quella bocca. Perché al
riguardo ha già detto tutto o quasi tutto lui. E lo ha detto bene.
La sua poesia del resto è stata anche questo: una spiegazione e una
giustificazione continue, agli altri ma anche a se stesso, della
propria fecondità creativa, della ricchezza della sua vegetazione
poetica. Come una madre che trovandosi in un presunto, continuo e
conclamato rischio di sterilità, a ogni primavera dovesse poi
mostrare e rendere ragione, non senza pudore, dei suoi tanti e
sanissimi figli nuovi. La spiegazione fondamentale, la prima e ultima
questione di poetica di Zanzotto, allora, non riguarda tanto i modi e
la natura della poesia, ma il fatto stesso dell’esserci di quella
poesia, la familiarità della Musa con la sua cameretta, la
confidenza con l’arte del verso, la prosperità costante della sua
vena, la sua incredibile salute.
Così, tornando agli
endecasillabi di Parola, silenzio che ho ricordato all’inizio,
e prendendo questi versi che suggellano l’opera di Zanzotto come un
viatico alla sua lettura (anch’io partecipo volentieri al gioco,
come si vede), direi che la domanda base posta dalla sua poesia non
riguardi né il come né il cosa, ma il perché: perché la poesia,
perché in sostanza la parola, e così ininterrotta e «facile»,
così tanta, così troppa perfino, anziché il silenzio, proprio
quando tutto, è Zanzotto stesso a insistere su questo, sembrava
motivarlo, dalla natura alla storia, dal patimento fisico al male di
vivere e tutto il resto.
C’è poco da fare, ma
il silenzio rimane la cattiva coscienza di tutto il percorso poetico
di Zanzotto. Che in chiusa alla sua opera, riprendendo un detto che
appartiene insieme alla letteratura alta e al repertorio popolare, il
poeta abbia messo ancora una volta le mani avanti, cioè indietro,
proprio su tale punto, testimonia senz’altro del rovello radicale
sulla legittimità della sua poesia, un interrogativo sempre presente
che non solo accompagna ma risulta esso stesso un elemento decisivo
della sua intrinseca costituzione. Che senso ha avuto questa
strepitosa traversata di poesia? Che cos’è stata, che cos’è la
poesia per Zanzotto? A mo’ di compendio il poeta è ancora lì a
provare a spiegarselo. Fuga, inadempienza, «canta che ti passa»,
vacanza paradisiaca e non autorizzata rispetto alla verità delle
cose e della vita; oppure trasgressione strategica, percorso non
allineato e trasversale necessario a sostenere e ad affrontare con
più forza la realtà e il suo male, come lo chiamava Leopardi?
Poesia come «droga fonica» o poesia come vincolo antropologico;
principio del piacere o «principio resistenza», per ricordare due
auto-definizioni ormai celeberrime?
Sempre nell’ultimo
libro si trova un verso che mette insieme le due opposte possibilità,
come tra volontarismo e abbandono: «l’ostinazione di quell’ipnosi
chiamata poesia». In Parola, silenzio la modulazione del motivo è
più materiale, ma sostanzialmente non cambia: «Dell’ossimoro
fatta la frittata», scrive Zanzotto, «si diè inizio a una torbida
abbuffata». Se si prende fino in fondo Zanzotto, la sua poetica
dell’ossimoro, se cioè ne rispettiamo davvero la lettera, dovremmo
concludere che la sua poesia è entrambe le cose, e che, soprattutto,
non è l’una senza l’altra. Zanzotto ha deciso comunque di
scrivere (è un poeta proprio per questo, aggiungo senza preoccuparmi
della tautologia; e ben sapendo, del resto, che tautologia fa spesso
rima con poesia), di prendere la strada del «bello scritto» e del
«mai tacere», di poetare malgrado l’ossimoro, anzi sopra e dentro
l’ossimoro, di farne non solo la premessa ma la condizione stessa
della sua poesia. «Divergevano due strade in un bosco, e io… / Io
presi la meno battuta, / E di qui tutta la differenza è venuta», ha
scritto Robert Frost nella sua La strada non presa (la
traduzione è di Giovanni Giudici). Bene, credo che il mattutino del patto-scelta tra
parola e silenzio Zanzotto debba averlo rinnovato ogni santo giorno
della sua vita, a ogni nuova poesia, girandosi indietro e poi
ripartendo sempre daccapo, riprovandoci o ricascandoci ogni volta
come fosse la prima. Bisogna dunque prenderne atto, constatando
soltanto che quale sia stata la pressione negativa la forza
d’espansione e di generazione contraria investita nella poesia, o
che grazie alla poesia lo ha investito, è stata non solo equivalente
ma maggiore dell’altra. Missione e/o piacere che sia, la voce della
poesia è stata più forte. La frittata è fatta. Ed è questa,
fortunatamente.
«Il perpetuo
ribollimento del calderone delle streghe»: così nella sua
recensione alla Beltà (1968), senza dubbio uno dei pezzi più
sicuri e importanti scritti su Zanzotto (un intervento davvero
rabdomantico, servendomi di un aggettivo zanzottiano), Montale aveva
colto esattamente la natura composita e fortemente materica del suo
dettato poetico. L’immagine è perfetta nel configurare non solo la
poesia ma anche il particolare procedimento poetico del mago di Pieve
di Soligo tutto preso nel comporre i suoi intrugli poetici nella
casetta al margine del bosco. «A lui tutto serve», diceva Montale;
ossia: qualsiasi ingrediente può andar bene per una buona frittata
poetica, o anche, che è lo stesso, nel grande calderone della poesia
tutto fa brodo.
E davvero quello che più
colpisce in Zanzotto è l’invenzione, poiché di questo si tratta,
di uno stile poetico capace di trangugiare e amalgamare qualsiasi
cosa, rendendola un carburante comunque congeniale al grande motore
dell’intensità e dell’efficacia espressiva. Poeta onnivoro e
inclusivo quant’altri mai, Zanzotto non ha mai voluto precludersi
nulla escludendolo dal proprio orizzonte poetico. È anzi posseduto
da una specie di patologia della totalità, che potrebbe essere
l’altra faccia di quella che dal punto di vista della conoscenza
delle cose affiora continuamente nei suoi versi come la
condizione-ossimoro, proprio come si è visto per la relazione
parola-silenzio. Direi che l’ossimoro rappresenta per lui non solo
una specifica situazione storico-esistenziale, ma il dispositivo base
del funzionamento della realtà, dunque anche e soprattutto della
poesia. Se si volessero elencare le contrapposizioni e
contraddizioni, dunque le oscillazioni quasi simultanee e reversibili
su cui s’impiantano i suoi versi, si sarebbe costretti a ricalcarli
dall’inizio alla fine: lingue minime e massime, latino e dialetto,
grammatica e petèl (secondo papà Pascoli, come sempre), profondità
telluriche e cosmo, viscere e galassia, i discorsi della nonna e i
seminari di Lacan, scienza e visione, malattia e salute, natura e
storia, lingua e linguaggio, poesia e poetica, comunicazione e
autismo, vita e letteratura, Petrarca e Dante, Mallarmé e Pasolini,
codificazione e informale, sorgente e buco nero, poeta actus e poeta
agens, onnipotenza e impotenza, naturale e artificiale, senso e
nonsenso…
Davvero si potrebbe non
finire mai, tanto più che a tutto, a partire dalla poesia stessa,
andrebbe aggiunto il prefisso iper- o extra- o super- o anche meta-,
tanto l’atmosfera poetica in Zanzotto è carica, sovraeccitata, al
quadrato, anche coi relativi rischi di saturazione espressiva
(satura: la parola è di Zanzotto almeno quanto dell’ultimo
Montale coi suoi ossimori concettualizzati).
La soddisfazione insieme
percettiva e intellettuale che deriva dalla lettura di una poesia di
Zanzotto, o meglio dall’entrata in una sua poesia, visto che
davvero il suo testo è un luogo, deriva proprio da questa pienezza
di significazione e di significati in forma di musica, o di canto.
Il discorso poetico di
Zanzotto, questo discorso dai mille occhi che ha sempre ragione lui,
intriga e cattura, possiede qualcosa come un potere sciamanico di
seduzione e d’incantamento, fino a costringerti a giocare un gioco
che è il suo, con le sue regole e le sue ragioni. E ad esso, a
questa irresistibile forza poetica, ci si abbandona volentieri,
talora persino con troppa facilità, tante sono l’autorevolezza e
l’intelligenza benevola di quel suo fiume verbale sempre in piena
(Zanzotto è un mago buono). Certo è che non pochi suoi risultati
sono davvero alti e incontestabili, basti pensare anche solo alla
cosiddetta pseudo trilogia – Il Galateo in Bosco, Idioma
e Fosfeni – che costituisce un episodio senza dubbio
fondamentale del nostro Novecento poetico (tanto più col Galateo,
che vale come l’autentico correlativo oggettivo della sua poesia).
Zanzotto è più di altri
un poeta della parola; certo anche della lingua, ma della lingua
intesa come rilancio ed espansione delle singole cellule verbali. È
la parola il primum. La sua poesia nasce come iterazione,
proliferazione, come somma e moltiplicazione, ecolalia, balbuzie di
fonemi, non come discorso. Allo stesso modo il discorso non appare
mai un’unità compiuta, un individuo, diciamo così, adulto e
irriducibile, ma resta formato (quando pure è formato) da uno sciame
di girini che non rinunciano a essere tali, alla loro libertà e alla
loro divertita e un po’ sghemba follia. A imporsi è sempre il
flusso verbale costruito da queste particelle in continua
auto-rigenerazione. Anche per questo Zanzotto è un poeta di grandi
poesie più che di grandi versi memorabili. Nella sua poesia vince la
parola, vince la-lingua. Da qui la grande differenza rispetto a suoi
compagni di strada come Giudici, Sereni, ma anche Montale.
Poeta per eccellenza
della contraddizione e della reversibilità, Zanzotto non può essere
per sua intrinseca costituzione un poeta del verso-sentenza, del
verso incontrovertibile. Ogni sua parola o soluzione, infatti,
contempla sempre l’occorrenza reciproca e opposta. Non
progressione, ma oscillazione e alternanza. Nonostante la presenza
sostanziosa di Dante, dal testo-bosco della vita, dalla selva del
canzoniere, non se ne esce. «Ammessa conversione a U / ovunque»,
recita una poesia del Galateo, che può valere per noi anche
più di una mezza speranza.
ALIAS IL MANIFESTO - 22
OTTOBRE 2011
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