16.3.15

Jack London, eroe pover'uomo (Enzo Siciliano)

Questo profilo di London, realizzato da Enzo Siciliano ed eccellentemente confezionato in occasione del centenario della nascita, è quasi una stroncatura. Non intendo in questa sede contrastare l'interpretazione generale che non condivido né le singole proposizioni che trovo inappropriate; preferisco affidare il discorso su London ad altri interventi critici da postare nei giorni e nelle settimane a venire. Trovo comunque sconcertante un profilo che non citi, nemmeno di sguincio, Il tallone di ferro. (S.L.L.)
Jack London
Ebbe, ai suoi tempi, una fama paragonabile a quella d'una star del cinema o a quella d'un profeta. Un uomo che si fece da sé, uno scrittore self-made: incarnò così un mito americano. Niente storia alle spalle, niente cultura: ma soltanto una grande avidità, di sapere, di essere, di rappresentare. I critici si pongono oggi il problema: Jack London è più interessante come uomo o come scrittore?
Nacque a San Francisco il 2 gennaio 1876. Suo padre era un astrologo ambulante, si fregiava del titolo di «professore», filosofeggiava. La madre, poco prima della sua nascita, tentò il suicidio: qualche mese appresso sposò un contadino della Pennsylvania, John London, col quale condusse una vita miserabile, nomade, stravagante. Era una donna dalle idee velleitarie e confuse: insegnava la musica, teneva conferenze sullo spiritualismo, ambiva ricchezze, sognava felicità impossibili.

Nei bassifondi
II piccolo Jack passò di esperienza in esperienza, e' nella sua infanzia imparò «tutte le porcherie possibili e immaginarie che un bambino abbandonato in mezzo a un Paese di campagna può imparare dagli adulti».
Ebbe a sua disposizione i bassifondi di San Francisco, dove non c'era limite a violenze. Crebbe e visse di elemosine: andò in galera per vagabondaggio. Cercò l'oro in Alaska: a Stevenson era accaduto lo stesso in California. Si arruolò nell'esercito; fece il pescatore di perle. Intanto si ubriacava « ino all'insensibilità e irrimediabilmente»: cadeva per ubriachezza in crisi di follia. Maturò fra queste crisi, subendo il triste fascino della morte, dell'annientamento. All'uscita dell'adolescenza tentò di uccidersi una prima volta, chissà se per suggestione materna.
Partì per il Giappone, dove si dette alla caccia proibita delle foche. Tornò a San Francisco, e prese a frequentare l'università. La voglia di leggere, di apprendere lo salvarono a quel punto dalla più funesta delle derive. Se c'è qualcosa di realmente eroico - nell'esistenza di London, è questo bisogno di elevazione, perseguito con accanimento, con frenesia: istruirsi, pensare, nutrire la fiducia pazza e testarda nelle capacità di riscatto che dovrebbero essere proprie della cultura.
«Farò di me un grand'uomo, e farò fortuna» : ci credette con tale ossessiva certezza che la cosa poté apparirgli per qualche tempo raggiunta. Leggeva per diciannove ore al giorno: a cominciò a scrivere, torrenzialmente così come leggeva. Tutti questi sforzi li ha raccontati in Martin Eden, ma di essi poco sarebbe comprensibile se non li cucissimo insieme nel segno di un'idea. A San Francisco, all'università, London si imbattè nel socialismo: ne fece la sua bandiera. Lesse Marx, Ricardo, Stuart Mill: tutto si può dire tranne che li capì. Ne intese il messaggio di solidarietà con le classi povere e disagiate: ma quando parlò di socialismo scientifico, egli parlava d'altro.
Nella sua voracità di lettore, aveva anche letto Nietzsche, Darwin, Spencer: l'evoluzionismo, il positivismo, un malinteso culto della forza fisica si confusero in lui col marxismo così da formare un'anomala miscela. Ne nacque un disperato messaggio vitalistico che costituisce 1'incerta ossatura dei suoi libri, e in cui va cercata la ragione del suo successo presso i contemporanei.
Una società che lotta per la vita, che alla vita guarda con occhi liberi da miti, ma che insieme anela a consolidare i propri bisogni vitali trasformandoli in miti, aveva di che soddisfarsi nelle pagine infervorate di Jack London. E Jack London passò per uno scrittore adatto ai giovani, uno scrittore educativo. Egli voleva il riscatto dalla miseria, dalla povertà economica e morale, e insieme il recupero d'una perduta vitalità, che ha ragion d'essere al di là dell'umano, al di là della storia.
Da questo punto di vista, il suo libro più felice è Il richiamo della foresta, il ritorno d'un cane lupo, Buck, indimenticabile Buck, allo stato selvaggio. Il suo rifiuto progressivo ad ogni condizione domestica si trasforma, nell'immaginazione dello scrittore, in un gesto esemplare, nel gesto dell'eroe che si sottrae a ogni compromesso col mondo per indicare, al proprio cuore generoso e agli altri, la via del sacrificio che lo spirito impone.
Gli abbacinanti paesaggi del circolo polare, gli enigmi che divampano nelle furenti tempeste dei tropici, la trepidante e ancestrale nostalgia che l'umido delle foreste americane nasconde: questi sono gli scenari delle favole di London. Ma quale idea della vita ci suggeriscono? « La vita è un gioco per la pelle... ».
Questa immedicabile amarezza domina ogni altra prospettiva ideale evocata da London. Zanna Bianca, ad esempio, che vuoi narrare il rovescio di ciò che Il richiamo della foresta aveva narrato, non sfugge alla celebrazione degli impulsi di morte che governerebbero la natura. Gli animali, che London umanizza nella sua pagina, risultano tragicamente annientati in ciò che hanno di più genuino, il senso della libertà vitale.
Ma, dunque, che scrittore fu London? Copiò da Stevenson, copiò da Kipling. Se non per qualche breve racconto, egli è sparito: una smagliante meteora che si è dissolta così come si è dissolta la società che acconsentì alle sue idee. C'era qualcosa di capriccioso in lui, di incostante, anche di vanesio. Le sue spese folli, per uno yacht, per un ranch in California, scoprono che l'attaccamento ch'egli mostrava verso i diseredati e i paria era forma d'esibizione. Fu Io scrittore delle classi lavoratrici americane, come si definì, finché il mercato glielo permise, e secondo modi prestabiliti.

Come Hemingway
Arrivò a. pubblicare anche quattro libri in un anno: la sua esuberanza ebbe del mostruoso. Non si curò che il suo denaro diventasse preda di affaristi e imbroglioni, così come non si curò che le sue idee degradassero verso le codificazioni più grottesche del determinismo biologico. Tutto era bene per raggiungere il fine supremo del successo.
Lo raggiunse, ma una serie di catastrofi familiari ed economiche si abbattè infine su di lui. Il suo stesso fisico, che egli amò e descrisse come esempio inimitabile di virilità, si ammalò, ingrassò, invecchiò precocemente. Si trovò solo, impoverito: il terrore di svegliarsi un mattino senza un soldo in tasca e privo della forza creativa avuta in giovinezza lo spinse a uccidersi il 22 novembre 1916, a quarant'anni.
Il poeta si era destato in lui soltanto nel rappresentare l'ululato disperato dei cani da muta, nell'afferrare attraverso parole lo slancio delle belve feroci. Egli, da ultimo, dovette capire che tutta la sua carriera rovinava nel nulla, nella ciarlataneria: non resse alla verità.
Un interprete autorizzato come Jorge Luis Borges lo ha paragonato a Hemingway. In entrambi il piacere e il rito della vitalità si sono consumati fino in fondo. Ma London, a differenza di Hemingway, non provò la sofferta vertigine che dà lo stile: fu piuttosto vittima d'una confusa e maldigerita cultura, d'una società avida.


"Tuttolibri La Stampa", 24 gennaio 1976

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