Questo profilo di London,
realizzato da Enzo Siciliano ed eccellentemente confezionato in
occasione del centenario della nascita, è quasi una stroncatura. Non
intendo in questa sede contrastare l'interpretazione generale che non
condivido né le singole proposizioni che trovo inappropriate;
preferisco affidare il discorso su London ad altri interventi critici
da postare nei giorni e nelle settimane a venire. Trovo comunque
sconcertante un profilo che non citi, nemmeno di sguincio, Il
tallone di ferro. (S.L.L.)
Jack London |
Ebbe, ai suoi tempi, una
fama paragonabile a quella d'una star del cinema o a quella d'un
profeta. Un uomo che si fece da sé, uno scrittore self-made:
incarnò così un mito americano. Niente storia alle spalle, niente
cultura: ma soltanto una grande avidità, di sapere, di essere, di
rappresentare. I critici si pongono oggi il problema: Jack London è
più interessante come uomo o come scrittore?
Nacque a San Francisco il
2 gennaio 1876. Suo padre era un astrologo ambulante, si fregiava del
titolo di «professore», filosofeggiava. La madre, poco prima della
sua nascita, tentò il suicidio: qualche mese appresso sposò un
contadino della Pennsylvania, John London, col quale condusse una
vita miserabile, nomade, stravagante. Era una donna dalle idee
velleitarie e confuse: insegnava la musica, teneva conferenze sullo
spiritualismo, ambiva ricchezze, sognava felicità impossibili.
Nei bassifondi
II piccolo Jack passò di
esperienza in esperienza, e' nella sua infanzia imparò «tutte le
porcherie possibili e immaginarie che un bambino abbandonato in mezzo
a un Paese di campagna può imparare dagli adulti».
Ebbe a sua disposizione i
bassifondi di San Francisco, dove non c'era limite a violenze. Crebbe
e visse di elemosine: andò in galera per vagabondaggio. Cercò l'oro
in Alaska: a Stevenson era accaduto lo stesso in California. Si
arruolò nell'esercito; fece il pescatore di perle. Intanto si
ubriacava « ino all'insensibilità e irrimediabilmente»: cadeva per
ubriachezza in crisi di follia. Maturò fra queste crisi, subendo il
triste fascino della morte, dell'annientamento. All'uscita
dell'adolescenza tentò di uccidersi una prima volta, chissà se per
suggestione materna.
Partì per il Giappone,
dove si dette alla caccia proibita delle foche. Tornò a San
Francisco, e prese a frequentare l'università. La voglia di leggere,
di apprendere lo salvarono a quel punto dalla più funesta delle
derive. Se c'è qualcosa di realmente eroico - nell'esistenza di
London, è questo bisogno di elevazione, perseguito con accanimento,
con frenesia: istruirsi, pensare, nutrire la fiducia pazza e testarda
nelle capacità di riscatto che dovrebbero essere proprie della
cultura.
«Farò di me un
grand'uomo, e farò fortuna» : ci credette con tale ossessiva
certezza che la cosa poté apparirgli per qualche tempo raggiunta.
Leggeva per diciannove ore al giorno: a cominciò a scrivere,
torrenzialmente così come leggeva. Tutti questi sforzi li ha
raccontati in Martin Eden, ma di essi poco sarebbe
comprensibile se non li cucissimo insieme nel segno di un'idea. A San
Francisco, all'università, London si imbattè nel socialismo: ne
fece la sua bandiera. Lesse Marx, Ricardo, Stuart Mill: tutto si può
dire tranne che li capì. Ne intese il messaggio di solidarietà con
le classi povere e disagiate: ma quando parlò di socialismo
scientifico, egli parlava d'altro.
Nella sua voracità di
lettore, aveva anche letto Nietzsche, Darwin, Spencer:
l'evoluzionismo, il positivismo, un malinteso culto della forza
fisica si confusero in lui col marxismo così da formare un'anomala
miscela. Ne nacque un disperato messaggio vitalistico che costituisce
1'incerta ossatura dei suoi libri, e in cui va cercata la ragione del
suo successo presso i contemporanei.
Una società che lotta
per la vita, che alla vita guarda con occhi liberi da miti, ma che
insieme anela a consolidare i propri bisogni vitali trasformandoli in
miti, aveva di che soddisfarsi nelle pagine infervorate di Jack
London. E Jack London passò per uno scrittore adatto ai giovani, uno
scrittore educativo. Egli voleva il riscatto dalla miseria, dalla
povertà economica e morale, e insieme il recupero d'una perduta
vitalità, che ha ragion d'essere al di là dell'umano, al di là
della storia.
Da questo punto di vista,
il suo libro più felice è Il richiamo della foresta, il
ritorno d'un cane lupo, Buck, indimenticabile Buck, allo stato
selvaggio. Il suo rifiuto progressivo ad ogni condizione domestica si
trasforma, nell'immaginazione dello scrittore, in un gesto esemplare,
nel gesto dell'eroe che si sottrae a ogni compromesso col mondo per
indicare, al proprio cuore generoso e agli altri, la via del
sacrificio che lo spirito impone.
Gli abbacinanti paesaggi
del circolo polare, gli enigmi che divampano nelle furenti tempeste
dei tropici, la trepidante e ancestrale nostalgia che l'umido delle
foreste americane nasconde: questi sono gli scenari delle favole di
London. Ma quale idea della vita ci suggeriscono? « La vita è un
gioco per la pelle... ».
Questa immedicabile
amarezza domina ogni altra prospettiva ideale evocata da London.
Zanna Bianca, ad esempio, che vuoi narrare il rovescio di ciò
che Il richiamo della foresta aveva narrato, non sfugge alla
celebrazione degli impulsi di morte che governerebbero la natura. Gli
animali, che London umanizza nella sua pagina, risultano tragicamente
annientati in ciò che hanno di più genuino, il senso della libertà
vitale.
Ma, dunque, che scrittore
fu London? Copiò da Stevenson, copiò da Kipling. Se non per qualche
breve racconto, egli è sparito: una smagliante meteora che si è
dissolta così come si è dissolta la società che acconsentì alle
sue idee. C'era qualcosa di capriccioso in lui, di incostante, anche
di vanesio. Le sue spese folli, per uno yacht, per un ranch in
California, scoprono che l'attaccamento ch'egli mostrava verso i
diseredati e i paria era forma d'esibizione. Fu Io scrittore delle
classi lavoratrici americane, come si definì, finché il mercato
glielo permise, e secondo modi prestabiliti.
Come Hemingway
Arrivò a. pubblicare
anche quattro libri in un anno: la sua esuberanza ebbe del mostruoso.
Non si curò che il suo denaro diventasse preda di affaristi e
imbroglioni, così come non si curò che le sue idee degradassero
verso le codificazioni più grottesche del determinismo biologico.
Tutto era bene per raggiungere il fine supremo del successo.
Lo raggiunse, ma una
serie di catastrofi familiari ed economiche si abbattè infine su di
lui. Il suo stesso fisico, che egli amò e descrisse come esempio
inimitabile di virilità, si ammalò, ingrassò, invecchiò
precocemente. Si trovò solo, impoverito: il terrore di svegliarsi un
mattino senza un soldo in tasca e privo della forza creativa avuta in
giovinezza lo spinse a uccidersi il 22 novembre 1916, a quarant'anni.
Il poeta si era destato
in lui soltanto nel rappresentare l'ululato disperato dei cani da
muta, nell'afferrare attraverso parole lo slancio delle belve feroci.
Egli, da ultimo, dovette capire che tutta la sua carriera rovinava
nel nulla, nella ciarlataneria: non resse alla verità.
Un interprete autorizzato
come Jorge Luis Borges lo ha paragonato a Hemingway. In entrambi il
piacere e il rito della vitalità si sono consumati fino in fondo. Ma
London, a differenza di Hemingway, non provò la sofferta vertigine
che dà lo stile: fu piuttosto vittima d'una confusa e maldigerita
cultura, d'una società avida.
"Tuttolibri La Stampa", 24 gennaio 1976
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