Gilleleje. La fuga organizzata degli ebrei |
L'8 settembre della
Danimarca fu inaugurato da un telegramma. Era il telegramma inviato a
Berlino da Werner Best, giovane ufficiale delle SS che Hitler aveva
nominato da poco, in quell'estate 1943, plenipotenziario del Reich a
Copenaghen. «Una coerente attuazione del nuovo corso in Danimarca
comporta adesso, a mio parere, una risoluzione della questione
ebraica nel paese»: così Best telegrafava a Berlino, e tutto
lasciava intendere che la risoluzione della faccenda coincidesse
anche lì con la “soluzione
finale”. Invece no. La storia prese tutt'altra piega. Per
gli ebrei locali - diversamente che in Italia - l'8 settembre '43
segnò l'inizio di una tragedia a lieto fine.
Ormai da tre anni e mezzo
la Danimarca era stata occupata dai tedeschi sotto uno strano regime
di compromesso, una specie di occupazione pacifica per cui il Reich
non aveva dichiarato lo stato di guerra né si era assunto la
responsabilità degli affari interni danesi. A differenza che in
Norvegia, dove la monarchia e il governo costituzionale erano stati
deposti con l'avvento del collaborazionista Quisling, in Danimarca il
re Cristiano X era rimasto sul trono e le istituzioni democratiche
avevano continuato a funzionare. I tedeschi avevano tenuto quasi
soltanto a garantirsi, attraverso il controllo dello stretto di
Oresund, la regolarità delle comunicazioni dal mar Baltico al mare
del Nord, e inoltre un accesso diretto alla produzione agricola
danese.
Ma nell'agosto 1943 il
precario equilibrio dell'occupazione pacifica si era infranto contro
un'ondata di sabotaggi, scioperi, sommosse, cui tedeschi avevano
risposto instaurando la legge marziale. E scatenando infine la caccia
- anche in Danimarca - contro il nemico per eccellenza, l'orrido
giudeo: contro i sette-ottomila ebrei presenti allora sul territorio
danese. Tremila circa di questi discendevano da famiglie insediate
fin dal Seicento e appartenevano a un'élite assimilata. Circa
altrettanti, i cosiddetti «ebrei russi», erano arrivati all'inizio
del Novecento fuggendo la povertà e i pogrom dell'Europa
orientale. Mille e passa erano giunti di recente: profughi tedeschi,
austriaci, boemi, in fuga dalla persecuzione nazista.
Uomo di fiducia di
Himmler, il «dottor Best» - come rispettosamente veniva qualificato
a Copenaghen - sapeva quel che il capo delle SS si aspettava da lui:
un personale contributo all'opera di disinfestazione razziale, la
liquidazione degli ebrei dalla Danimarca verso le terre di sangue
dello sterminio. Senonché Werner Best era un ufficiale nazista
particolarmente colto, sensibile, e scaltro. A fine settembre '43,
quando ricevette da Berlino l'ordine esplicito di procedere
all'arresto e alla deportazione di tutti gli ebrei «purosangue»,
Best ebbe l'intelligenza di capire che la Danimarca non era, agli
effetti della “soluzione finale”, un paese d'Europa come un
altro. Decise allora di intraprendere un temerario doppio gioco. In
apparenza, promosse l'operazione di pulizia etnica. In sostanza,
procurò di limitarne la riuscita.
Ciò che rendeva la
Danimarca un paese diverso era una diversa concezione del "noi"
e del "loro". Agli occhi dell'opinione pubblica, l'altro da
sé non era l'israelita, cittadino danese o profugo straniero, che
partecipava di una diaspora millenaria: l'alieno era il nazista,
tedesco o indigeno, che designava l'ebreo come un «sottouomo».
Così, proprio l'avvio dell'operazione antiebraica suscitò in
Danimarca - dopo tre anni e mezzo di attendismo, o di larvato
collaborazionismo - un movimento spontaneo di resistenza civile. E
generò, rispetto ad altri contesti di persecuzione degli ebrei
d'Europa durante la seconda guerra mondiale, una configurazione
originale del rapporto tra carnefici, vittime e spettatori.
Sapientemente ricostruita
ed efficacemente raccontata, è questa la storia che si legge nel
libro di Bo Lidegaard, Il popolo che disse no (Garzanti
2014): è l'avventurosa storia del salvataggio di massa di
quei sette o ottomila ebrei di Danimarca. Entro le prime due
settimane dell'ottobre 1943 la stragrande maggioranza di loro potè
traversare lo stretto di Oresund e raggiungere la Svezia, la cui
neutralità nella guerra equivaleva alla salvezza. Gli ebrei furono
indirettamente aiutati dagli uomini delle istituzioni, che
rifiutarono di prestare ai tedeschi qualunque tipo di assistenza
politica, militare, culturale. Furono indirettamente aiutati da
uomini di chiesa come il vescovo di Copenaghen, che contro la
violazione nazista del diritto fece appello alla libertà di
coscienza del suo gregge. Soprattutto, gli ebrei furono aiutati dal
soccorso diretto della gente comune. Inseguite dai carnefici, le
vittime vennero assistite dagli spettatori, che in Danimarca non
rimasero tali.
Si prenda un posto come
Gilleleje, villaggio di pescatori all'estremo nord dello stretto di
Oresund. Millesettecento anime che da un giorno all'altro si trovano
ad accogliere - a nascondere, a scaldare, a nutrire, infine a
imbarcare - diverse centinaia di ebrei sconosciuti, danesi o
stranieri, uomini donne vecchi bambini. Certo, per i pescatori di
Gilleleje la rotta degli ebrei braccati dalla Gestapo corrisponde a
una benvenuta opportunità economica: pur di salire su una barca e
arrivare in Svezia, i profughi sono pronti a sborsare fino all'ultima
corona che resti loro in tasca. Ma i soldi versati ai pescatori non
bastano per spiegare la nascita, a Gilleleje, di un Comitato ebraico
animato dal meccanico Petersen e dal droghiere Lassen insieme al
falegname del villaggio, al maestro di scuola, al medico condotto e
al presidente del consiglio parrocchiale. I soldi non spiegano la
mobilitazione di una comunità locale che, salvando la vita agli
ebrei fuggiaschi, intende salvarsi come comunità umana.
La notte del 6 ottobre
soldati della Gestapo avevano fatto irruzione nella chiesa di
Gilleleje, avevano arrestato ottantacinque ebrei precariamente
nascosti in quel luogo sacro, ne avevano disposto la deportazione
verso il ghetto boemo di Terezin, anticamera dei Lager. La nascita
del Comitato ebraico di Gilleleje costituiva una risposta a questo
schiaffo. Non rappresentava soltanto un gesto di solidarietà verso
sconosciuti ebrei in fuga: era anche un gesto di rivendicazione
dell'identità comunitaria. Era una mobilitazione in difesa dei
valori non negoziabili su cui tale identità si fondava.
Lungo le coste danesi
dell'Oresund si moltiplicarono esperienze collettive di salvataggio
come quella di Gilleleje. In totale, nei primi quindici giorni
dell'ottobre '43, le traversate in barca organizzate clandestinamente
furono circa settecento: e circa settemila furono gli ebrei che così
scamparono in Svezia ai colpi della “soluzione finale”. Mentre
nessuno dei settecento trasporti illegali (neanche uno!) fu
intercettato dalle pattuglie della Marina tedesca.
L'inefficacia dei
pattugliamenti navali si spiega, prima di tutto, con il sottile
doppiogioco del dottor Best. Il plenipotenziario germanico riuscì
allora a convincere perfino Adolf Eichmann, giunto in missione a
Copenaghen, che gli ebrei di Danimarca stavano meglio dispersi per le
città della Svezia che ammassati nei ghetti di Boemia o nelle camere
a gas di Polonia. Ma a un livello più profondo, l'improbabile
inefficacia dei pattugliamenti lungo l'Oresund - e l'inusuale
arrendevolezza di un uomo come Eichmann - si spiegano attraverso una
dinamica propriamente politica. In Danimarca, il Terzo Reich rinunciò
a realizzare la “soluzione finale” per una ragione molto
semplice, insopportabilmente semplice: perché fu posto di fronte
all'opposizione di un popolo intero.
«Il Sole 24 Ore», 12
gennaio 2014
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