Luca Ronconi e Mariangela Melato |
Nel 2003, nel suo ufficio al Piccolo Teatro di Milano ove dirigeva la scuola per attori, Luca Ronconi rilasciò alla rivista “Drammaturgia” una intervista, dopo la messa in scena, qualche mese prima, di Amor nello specchio (1622), una Commedia di Giovan Battista Andreini, già attore e capocomico della commedia dell'arte e, poi, poeta e autore di scenari e testi teatrali. L'allestimento era stato curato da Ronconi per il Teatro Stabile di Ferrara e per il Centro teatrale Santacristina, fondato dal regista von Roberta Carlotto, appunto in Santa Cristina, frazione di Gubbio. La rappresentazione si svolse a Ferrara per strada, nel Quadrivio degli Angeli di Corso Ercole d'Este, non lontano dal “Palazzo dei Diamanti” ed ebbe come protagonista, nel ruolo di Florinda innamorata della propria immagine nello specchio, la più grande attrice “ronconiana”, Mariangela Melato. L'intervista, qui postata, affronta tutta la tematica dei luoghi della rappresentazione teatrale in Ronconi a partire dall'indimenticato Orlando Furioso che il regista sceneggiò in combutta con Edoardo Sanguineti. (S.L.L.)
Per le strade di Ferrara. La rappresentazione di Amor nello specchio (2002) |
Il
teatro all’aperto offre maggiore o minore libertà d’azione? Vi
possono essere strutture preesistenti che costituiscono altrettanti
vincoli all’allestimento scenico…
Non si può
generalizzare. Dipende dallo spazio. Ci possono essere degli spazi
che sono estremamente vincolanti e degli altri che permettono una
maggiore libertà. Per esempio, nel caso dell’Amor nello
specchio da un punto di vista topografico lo spazio era
estremamente vincolante. Per dare chiarezza era necessario seguire
percorsi obbligati. Siccome, però, il luogo – non lo spazio –,
l’ambiente sembrava estremamente pertinente al carattere che
volevamo dare al testo, ecco che allora proprio i vincoli si
rivelavano molto utili; proprio perché non sempre un eccesso di
libertà aiuta la chiarezza della comunicazione.
La
scelta di corso Ercole d’Este è stata anche dettata dalla volontà
di avvicinarsi all’idea di Commedia dell’Arte come forma
spettacolare in parte nata “sulla strada”?
Assolutamente no. Anzi,
nella realizzazione scenica dello spettacolo non c’era nessun
riferimento alla Commedia dell’Arte, così come non c’era nessun
riferimento a un luogo urbano. Gli interventi scenografici che erano
stati fatti nello spazio erano stati eseguiti proprio per togliergli
qualsiasi carattere concreto e dargli un’astrazione maggiore.
Non
solo l’espediente di lastricare il corso con gli specchi con il
facile rimando al titolo della commedia, ma un progetto scenico più
ampio di cui questo è l’aspetto più evidente ma, in fondo, il
meno significativo. È stato così?
Sì, esattamente.
A
proposito, invece, delle sue precedenti messe in scena di commedie di
Andreini realizzate, a differenza di quest’ultimo spettacolo, in
spazi “chiusi” [ndr. La
Centaura, saggio dell’Accademia nazionale d’arte
drammatica, Roma, Cinecittà, 29 aprile 1972; Due
commedie in commedia, La Biennale-XXXII Festival
internazionale del teatro, Venezia, teatro Malibran, 18 ottobre 1984;
Amor nello specchio,
saggio dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, Roma, teatro
dei Documenti, 19 giugno 1987]. Qual è lo “spazio” di Andreini?
Come si concretizza visivamente la sua drammaturgia?
Ogni testo, o meglio
ancora ogni particolare interpretazione di qualsiasi testo,
presuppone o ricerca un suo spazio precipuo, non generico. Mi è
capitato di fare tutte e tre le opere di Andreini in situazioni
anomale rispetto al palcoscenico. Effettivamente non so quanto
Andreini possa portare l’attenzione del pubblico all’interno del
palcoscenico secondo le abitudini del nostro pubblico.
Parlando ancora di
luoghi all’aperto, il suo spettacolo forse più famoso, l’Orlando
furioso, fu riallestito in piazze diverse: con quali
cambiamenti e operati secondo quale logica?
Originariamente l’Orlando
furioso è stato realizzato in uno spazio non teatrale ma al
chiuso, la chiesa di san Nicolò a Spoleto. Poi dopo è stato portato
in varie piazze e devo anche dire che di volta in volta a seconda
degli spazi in cui andava pur rimanendo la struttura la stessa – si
trattava di una struttura molto forte –, alla sua invariabilità
corrispondeva inevitabilmente una variazione del carattere. Lo
spettacolo fatto in piazza sembrava uno spettacolo popolare. Lo
spettacolo com’è nato era tutt’altro che uno spettacolo
popolare.
E il cambiamento di
carattere… ?
Il cambiamento di
carattere era determinato solamente dallo spostamento perché la
struttura dello spettacolo, ripeto, era molto forte e molto rigida e
non è mai cambiata.
Era dunque una
questione di percezione?
Indubbiamente. Uno spazio
differente in qualche modo determina una diversa percezione dello
spettacolo da parte del pubblico, qualunque sia il carattere
originario dello spettacolo.
E questo non
diminuisce in qualche misura il controllo del regista sul proprio
spettacolo?
No, ma mi permette di
fare un’ipotesi sulle diverse possibilità di percezione da parte
del pubblico e dunque qualcosa imparo. Anzi è sicuramente un
elemento fondante di qualsiasi tipo di drammaturgia.
Continuando la nostra
riflessione sugli spazi all’aperto, vorrei parlare del teatro greco
di Siracusa. Come si tratta uno spazio preesistente, con
caratteristiche tanto particolari e con un sostrato storico e
culturale talmente ricco? Trasformare, occultandone la storia, oppure
sottolineare ed evidenziare la tradizione che lo pervade?
Il teatro di Siracusa è
una specie di ricordo, una memoria del teatro greco perché
strutturalmente di esso non ha più assolutamente nulla tranne la
gradinata. Neanche le dimensioni, perché il teatro
greco era infinitamente
più piccolo di quanto lo sia oggi. Il teatro di Siracusa può essere
utilizzato come uno spazio tutto sommato molto generico.
E non si sente
l’eredità del passato?
L’eredità la senti
nella memoria, nelle aspettative del pubblico. La senti per esempio
molto più nel clima; la senti molto più nella luce invece che nello
spazio, come dire topografico o architettonico
propriamente detto.
Quello architettonico praticamente non esiste.
Si tratta dunque di
uno spazio molto malleabile.
Sì, sicuramente.
Parlando ancora di
spazi preesistenti in possesso però di una storia rilevante e forse
vincolante, mi viene in mente l’archeologia industriale. Quali
problemi pongono spazi quali il Lingotto o la Bovisa in cui lei ha
allestito due spettacoli come Gli
ultimi giorni dell’umanità nel 1990 e, nella primavera
del 2002, Infinities?
Veramente certi spazi i
problemi più che porli li risolvono.
E non pongono nessun
vincolo?
Premetto che i vincoli
sono provvidenziali, perché c’è molta più libertà quando
esistono dei vincoli forti che non quando c’è una totale
discrezionalità e possibilità di agire. Indubbiamente per un tipo
di drammaturgia come quella di Infinities, che
programmaticamente salta alcune figure, funzioni, strutture della
drammaturgia tradizionale come il dialogo, il personaggio, il
racconto, ecc. ecc., un luogo fatto per far risaltare queste
strutture e queste figure è improprio. Quindi ritengo che per
qualsiasi figura esista uno spazio specifico – ma questo lo dico a
proposito di Barrow come potrei dirlo a proposito di Beckett. Non mi
dice niente a vederlo su un palcoscenico, anche se dal punto di vista
letterario penso sia un grande autore e penso che il luogo ideale di
rappresentazione di Beckett non sia affatto il vuoto del
palcoscenico.
Lo penso anch’io.
Credo sia sempre stato sottovalutato il lato “comico” di Beckett…
Certo. Quindi, secondo me
ogni tipo di drammaturgia presuppone il proprio spazio ideale.
Ripeto, il palcoscenico beckettiano è sempre stato una specie di
passepartout ma in qualche modo si è costituito più per l’uditorio
che per l’opera. Un luogo di comodo per gli spettatori.
Tornando a Infinities,
mi piacerebbe riflettere sulla posizione del pubblico: esso è
spodestato del suo spazio canonico, la platea, e magari costretto a
stringersi in strette panche oppure, addirittura, a stare in piedi.
Lo spazio disorienta e smuove dalla passività. Gli spettatori sono
costretti a muoversi e con le innumerevoli combinazioni possibili
derivanti dalla posizione da essi scelta concorrono alla stessa
definizione dello spazio.
Io il pubblico non lo
costringo. In Infinities specialmente. Anzi, il pubblico una
volta seduto in un posto potrebbe anche rimanere lì. Essendo
Infinities una cosa sul tempo, sembrerebbe una specie di tempo
ciclico, per cui lo spettatore vedrebbe la stessa cosa fatta in un
modo diverso, quindi con delle funzioni diverse e anche dei
significati diversi. Ecco, abbiamo parlato di Beckett; se il pubblico
si mettesse nelle condizioni di un personaggio beckettiano, ossia di
non muoversi mai, avrebbe di fronte un dramma di Beckett in cui le
cose vengono continuamente ripetute sia pure in forma diversa.
Forse è sbagliato il
verbo “costringere” o forse no, nel senso che lei costringe il
pubblico a crearsi un proprio percorso all’interno dello spazio
scenico…
Anzi, mi piace. E questo
mi piace perfino quando faccio uno spettacolo in teatro. L’obiettivo
non è quello di prendere il pubblico per la cavezza e obbligarlo a
seguire quello che voglio io ma di costruire dei fatti teatrali per
cui lo spettatore possa essere abbastanza libero di rimontarseli
nella mente, nella fantasia, mentre si svolgono, in quello stesso
tempo.
Per raggiungere questo
obiettivo lei ricorre a espedienti scenografici? Mi viene in mente il
costante utilizzo di pedane mobili nei suoi spettacoli…
Sì, probabilmente sì.
Secondo me, sono molto portato a cercare di strutturare in
palcoscenico quella attitudine alla discontinuità che c’è nella
percezione dello spettatore. Per fare un esempio, sono straconvinto
che, oltre che presuntuoso, sia anche illusorio pretendere
un’attenzione costante da parte dello spettatore.
È impossibile, credo…
È impossibile, però la
maggior parte degli spettacoli presuppone un rischio. Quello che
adombra è la duplicità di un’opera che di fronte a sé ha
l’obbligo di essere coerente ma rispetto alla percezione deve avere
anche la civiltà di poter essere frammentaria.
Dunque, come lei crea
il “suo” spazio così il pubblico può ricreare per se stesso
quel medesimo spazio, rimontandolo…
Certo. Tuttavia, questo è
possibile soprattutto in uno spazio non così coercitivo come è
invece quello del teatro “all’italiana” – che poi deriva
dalla tragédie-classique francese, per cui presuppone quasi
ostinatamente una focalizzazione, una messa a fuoco attraverso l’arco
scenico. Il teatro “all’italiana” già nelle sue forme, in cui
molto spesso i due lati, nel ferro di cavallo, sono privilegiati
rispetto al palcoscenico perché è uno spazio nato soprattutto come
un luogo di incontro per gli spettatori, esplicita questa specie di
contraddizione nettissima che è destinata a venire sempre più fuori
man mano che cambia la necessità sociale del teatro.
Lei però si è
trovato spesso a dover lavorare in un teatro “all’italiana”…
Sì, sì, fa parte del
mio lavoro e lo faccio, però, ripeto, quasi sempre faccio fatica ad
accettare le regole del palcoscenico, proprio perché mi sembrano
delle regole oramai, non direi logore, ma che soffrono di
un’imprecisione all’origine.
E nel caso delle regie
di spettacoli lirici, nella maggior parte dei casi realizzati in
teatri “all’italiana”?
Ma la regia lirica è
tutt’altro. Fino a quando – speriamo presto – non verrà in
qualche modo codificato un diverso modo di intendere il teatro
musicale – dico codificato perché solo attraverso le codificazioni
si può arrivare a una diversa drammaturgia dello spazio, che non sia
precaria, che non sia occasionale, una volta e via – non cambierà
neanche il suo spazio precipuo. D’altra parte ritengo che in buona
parte è il vincolo dato da altri spazi l’elemento capace di
determinare una diversa drammaturgia.
Lei ha messo in scena
quattro drammi di Ibsen – L’anitra
selvatica, il Borkman,
Spettri e scene tratte
dal Peer Gynt. Mi
interessava saperne di più proprio per le peculiarità della
drammaturgia del norvegese che, semplificando, potremmo definire
“psicologica” e dunque assai lontana dalla poetica ronconiana che
rifugge ogni psicologismo. Il particolare trattamento dello spazio
poteva essere un mezzo per superare questa presunta incompatibilità?
Ogni testo teatrale, che
è scritto per essere rappresentato, è scritto per essere
rappresentato secondo le convenzioni teatrali del proprio tempo. Ma
molti testi presentano una sorta di “nocciolo” che,
viceversa, eccede le
convenzioni teatrali del proprio tempo. Un classico è soprattutto
questo. Ora un testo di Ibsen è provvidenzialmente ambiguo, e
qualche volta confuso, fra una volontà di naturalismo e un elemento
assolutamente fantastico. C’è sempre, in tutto il suo teatro, un
conflitto fra l’angustia delle possibilità di rappresentazione e
l’impulso verso un’uscita. Il personaggio tende sempre a evadere.
A partire da Nora…
Sì. C’è nel teatro di
Ibsen un’identificazione fra palcoscenico e Casa di bambola.
Il personaggio di Nora, ma anche il personaggio di Peer, come
Borkman, ecc., cerca continuamente di uscire e di evadere dalla sua
realtà. Come capita per esempio nell’Anitra selvatica, si
tratta di ritrovare una coerenza nella drammaturgia “sconocchiando”,
scardinando completamente i canoni della rappresentazione
tradizionale.
E realizzando così il
desiderio nascosto di Ibsen di uscire dal palcoscenico tradizionale…
In qualche modo sì.
Lei ha lavorato spesso
con architetti: quali sono state le caratteristiche di queste
collaborazioni? Si è forse verificato un prevalere del regista
sull’architetto, oppure il contrario?
Non saprei dire.
Generalmente quando ho lavorato o con degli architetti o anche con
degli artisti, ho chiesto loro la libertà di utilizzo dei loro
materiali. Ossia, più che la definizione di una continuità
stilistica – a un architetto non chiedi di fare lo scenografo tanto
lo so che non è capace di farlo –posso chiedergli di utilizzare in
senso scenografico alcuni dei suoi elaborati preesistenti.
Non ha mai chiesto
nulla di specifico per un particolare spettacolo?
Mai nulla di specifico.
Prendiamo come esempio
il nuovo auditorium di Roma progettato da Renzo Piano: quanto un
architetto di oggi può aiutare il teatro a sostituire con nuove
convenzioni quelle vecchie? Ed è la persona adatta?
L’auditorium di Piano
l’ho visto quando era ancora in cantiere e dentro non ci sono mai
entrato, quindi non posso dare un giudizio. Secondo me la
funzionalità è un elemento fondamentale. Per un auditorium, come
per un teatro, un esito infelice è dato dall’acustica cattiva e
dalla visibilità mediocre. Un teatro è legato a un modello di
drammaturgia. Molto spesso, invece, tende a diventare un monumento o
a far parte della storia di un architetto. Prioritariamente, invece,
ci devono essere dei canoni drammaturgici tali da imporre delle
regole, altrimenti si hanno risultati come, per esempio, il teatro
Regio di Torino, che può anche essere un bell’oggetto ma è un
assurdo teatro. Dal punto di vista architettonico non è una cosa
spregevole, anzi è una cosa interessante.
Ma risulta
interessante per la storia dell’architettura, non per quella del
teatro…
Questo perché
quell’accordo fra committenza, società e artisti che è in qualche
modo il patto fondante della drammaturgia in questo momento non c’è.
E questo rende assolutamente improbabile la possibilità di
un’architettura teatrale che in qualche modo superi la pura e mera
funzionalità – l’acustica e la visibilità.
Non è possibile nulla
di più?
In questo momento non è
possibile niente di più. Se, facciamo conto, un modello tipo quello
dell’Orlando furioso oppure il più recente Infinities
o quello de Gli ultimi giorni dell’umanità – tre
spettacoli che in qualche modo hanno inciso notevolmente nella storia
scenica contemporanea – diventa il modello dominante per il
prossimo decennio, ne consegue che la molteplicità degli spazi
diviene un elemento fondante dell’architettura in quanto lo è
della drammaturgia. E la risoluzione di problemi di sicurezza,
praticabilità, insonorizzazione, visibilità, ecc., verrà come
conseguenza secondaria.
Quegli spettacoli
forse sono già diventati modelli, dato il frequente riutilizzo di
spazi industriali, malgrado la sensazione sia quella che si tratti
soprattutto di una moda senza sostanza concreta…
Infatti bisogna stare
attenti, perché io sto parlando di necessità drammaturgiche e non
di contenitori. Nel momento in cui il teatro diventa un contenitore
perde la sua funzione, poiché deve sempre essere in rapporto a una
drammaturgia. Un esempio riguardante il teatro musicale: fare
un’opera barocca alla Scala è un inferno, non viene mai bene,
perché è uno spazio costruito per un altro tipo di spettacolo.
I molti allestimenti
in aree industriali fanno tuttavia pensare che l’esigenza di nuovi
spazi sia particolarmente sentita…
La necessità di altri
spazi è sentita ma sarà sempre una fuga senza approdo se non
cambieranno le esigenze della drammaturgia. Mi è capitato molto
spesso di dire che la mia insofferenza verso alcune forme di teatro
belle, necessarie e importanti nasce non da una loro valutazione
negativa ma dagli equivoci che creano. Per esempio, abbiamo parlato
di Beckett: ecco che un teatro che in realtà nasce per creare dei
problemi diventa invece il vessillo dei teatranti che i problemi non
se li vogliono porre, perché si può fare dappertutto, ecc. ecc.
Questa è una trivializzazione di un modello che era nato in
opposizione a un modello già logoro. Al contrario, alcuni spettacoli
che ho fatto e in particolare i tre che ho già citato, hanno
dimostrato di essere un modo di fare teatro estremamente reciproco,
diretto e in cui il pubblico di oggi si riconosce. Ma, per motivi
molto precisi, stentano a diventare dei modelli canonici. Non sono
suscettibili non dico della, ma di una canonizzazione. Ciò per una
ragione molto semplice: è che Infinities incide perché chi scrive
sa, conosce la materia di cui sta scrivendo. Scrive di ciò di cui
sa. Non è un teatro della scienza, ma un teatro della sapienza,
ossia l’autore non è un drammaturgo ma sa di che cosa scrive. Non
si è andato a documentare per scrivere di scienza. La stessa cosa
vale per Karl Kraus che scrive di ciò che sa. È un concetto di
autore drammatico che non riguarda la letteratura. Sarebbe possibile
fare un grande teatro di letteratura – Beckett lo è – ma
resterebbe in primo luogo letteratura.
da “drammaturgia.it”
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