Fu
lo spettacolo che rivoluzionò il vocabolario della scena italiana,
portando il linguaggio del sogno e della fantasia sui palcoscenici
paludati del solito teatro di giro: era l'Orlando Furioso
diretto da Luca Ronconi con un coraggioso e nuovissimo adattamento da
Ariosto curato da Edoardo Sanguineti. Lo spettacolo debuttò in
Umbria, nel Chiostro di San Nicolò a Spoleto, per il Festival dei
Due Mondi: era il 4 luglio del 1969. Avrebbe girato per tutta Europa
e se ne sarebbe discusso per molti anni. Per ricordare Ronconi, umbro
d'elezione, morto il mese scorso, riprendo la prima parte di
un'intervista rilasciata da Sanguineti a Simona Maggiorelli nel 2007.
(S.L.L.)
Sanguineti, quali
furono la novità e la forza di quell'Orlando furioso che poi
fu replicato in tutta Europa?
«Rappresentò
innanzitutto un grosso cambiamento nel modo di concepire lo spazio
teatrale. In quegli anni c'erano stati parecchi tentativi di
rinnovamento del teatro italiano, ma nessuno era andato a buon fine.
L'Orlando furioso
abolì la tradizionale separazione fra attori e pubblico,
trasformando lo spettacolo in una grande festa collettiva, facendo
delle piazze in cui andava in scena, luoghi di comunità festiva, con
un rimescolamento unico dei ruoli».
C'era anche un
originale mix di straniamento e di ironia?
«Sì,
fino a quel momento ironia e straniamento brechtiano erano sempre
stati considerati due termini antitetici. Per la prima volta
nell'Orlando furioso
si riusciva a ottenere un teatro che attraverso il distacco, faceva
pensare, e al tempo stesso, con questi modi da festa popolare, da
liturgia pagana, invitava al massimo dell'immedesimazione. Una
partecipazione totale che allora passava solo per i drammi di Artaud,
per il suo teatro della crudeltà».
Una traduzione in
festa popolare veicolata anche dalla musicalità e dall'ironia delle
ottave ariostesche?
«La
scelta dell'Ariosto non era casuale: le sue ottave si legano alla
tradizione dei cantari popolari, una forma poetica di piazza di cui
in Toscana restano ancora degli esempi e la cui invenzione si deve,
con ogni probabilità, al Boccaccio. Il perfido Ariosto ne fece un
uso dissacrante, per raccontare che certa cultura cavalleresca, certo
linguaggio di corte era ormai superato, ed era diventato la radice
della follia di Orlando. Ariosto canta la fine di un'epoca
cavalieresca. E' un po' il Cervantes italiano».
Oggi vede nella scena
italiana segni rivoluzionari e dirompenti?
«Ci
sono stati tanti spettacoli che ho amato molto ma mi sembra di poter
dire che non ci siano stati più progetti davvero nuovi. Del resto
anche l'Orlando furioso
non fu testa di serie di esperimenti, non ebbe epigoni».
Da
“La Nazione", 7 maggio 2006
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