Il testo che segue è
parte di una conferenza che Luciano Canfora tenne in francese a
Parigi all'École des Hautes Études il 16 giugno 1988. La traduzione
in italiano è di Sylvie Coyaud. (S.L.L.)
Un disegno che ricostruisce l'antica biblioteca di Alessandria |
Nel mondo ellenico,
l'alfabetizzazione generalizzata è un programma da utopisti. Nelle
misteriose e incantevoli isole del Sole che, secondo Diodoro, lambulo
avrebbe visitato in epoca imprecisata, la conoscenza dei segni
alfabetici e dell'astrologia era oggetto della massima attenzione.
Pare si fosse adottata una scrittura artificiale basata su sette
lettere soltanto, ognuna con quattro usi diversi. Diodoro aggiunge un
dettaglio curioso: si usava scrivere verticalmente, dall'alto in
basso. Nelle isole del Sole l'ordine è palesemente sottosopra: il
lavoro non esiste, il cibo è abbondante e cresce spontaneo, la morte
è dolce quanto la vita, la scrittura è verticale.
L'alfabetizzazione universalmente diffusa non è quindi che un
aspetto di questo capovolgimento utopico.
Anche Platone, per parte
sua. ha abbozzato nel libro VII delle Leggi una "utopia"
che comprende un programma di alfabetizzazione illustrato
dall'interlocutore ateniese. Il programma prevede che si fatichi
sulle lettere "quanto basta per saper leggere e scrivere",
la durata dell'istruzione deve essere di "circa tre anni",
e Platone aggiunge che "quanto a raggiungere, in quel numero
fisso di anni, una velocità o un'eleganza perfette [...] è una
preoccupazione da trascurare" (VII, 810 A-B).
L'ideale platonico come
appare nel dialogo dell'estrema vecchiaia è un ideale da
"irregimentazione": "né le pecore — scrive — né
altro bestiame potrebbero vivere senza pastore, non più dei bambini
senza pedagogo o degli schiavi senza padrone" (808 D). Eppure in
tale "irregimentazione", molto simile all'educazione
statale immaginata da Senofonte in un'altra utopia, la Ciropedia,
l'insegnamento dell'alfabeto dà risultati assai modesti. È il
modello "spartano" a funzionare sia in Piatone sia in
Senofonte. In realtà era stato il semimitico legislatore Licurgo a
raccomandare agli Spartani d'imparare a conoscere i segni alfabetici
ma entro precisi limiti: "soltanto per l'utilità pratica"
(Plut., Lyc., 16.10).
La questione non è molto
diversa nell'Occidente greco. Si conosce, grazie alla credulità di
Diodoro Siculo, la cosiddetta legge di Caronda sull'istruzione
pubblica. Stando a questa legge, tutti i figli dei cittadini dovevano
imparare a leggere, e la città avrebbe pagato gli insegnanti (XII,
12, 4). Infatti, dice Diodoro, "il legislatore poneva le lettere
al di sopra di ogni altra disciplina; grazie a esse, egli pensava,
saranno realizzate la maggior parte delle opere più favorevoli alla
vita [...]".
"I suoi predecessori
— aggiunge — che avevano statalizzato la medicina, erano stati
superati; si erano preoccupati delle cure da dare ai corpi, egli curò
lo spirito paralizzato dall'ignoranza".
Non dimentichiamo
d'altronde che il Caronda di Diodoro, ben più utopistico del Caronda
della Politica di Aristotele, sembra mirare più in alto
dell'ateniese delle Leggi di Platone. Nel suo progetto, le
lettere dell'alfabeto sono lo strumento che permette a tutti di
accedere "alla filosofia e a tutta la cultura” ; e soprattutto
ci si deve preoccupare dei poveri, onde evitare che "se non
hanno di che pagare, vengano privati delle occupazioni più belle".
Ma se la diffusione delle
lettere dell'alfabeto è considerata sia dall'ateniese delle Leggi
sia dal Caronda di Diodoro come uno scopo tra i più alti benché di
difficile conseguimento, forse ancor più della statalizzazione del
sistema sanitario, ciò dipende tra l'altro dal fatto che si tratta
di una tecnica assai ardua da padroneggiare. Consideriamo per esempio
uno dei "libri" più antichi che ci siano giunti, il papiro
scoperto all'inizio del secolo ad Abusir in Egitto, e che contiene I
Persi del poeta lirico Timoteo, amico e in una certa misura
"allievo" di Euripide: il libro — un esemplare molto
curato, un vero e proprio libro, non una copia privata su carta
scadente — si presenta senza divisione delle parole, senza segni
per la lettura o l'esecuzione. In queste condizioni la difficoltà di
lettura è ovvia.
"Sprovvista dei
segni di lettura, una pagina di un dialogo di Piatone o di un'opera
teatrale doveva esser ardua da decifrare; in generale, si può dire
che le opere dell'Antichità erano poco adatte alla lettura ed è per
questo che ci furono lettori di professione, almeno a partire dal
momento in cui il gusto della lettura cominciò a svilupparsi"
(A. Dain, Les manuscrits, Paris, 1964, p. 99).
Ma quale momento? È
difficile da definire, tanto più che la lettura privata, solitaaria,
"intima" come quella di Dioniso all'inizio delle Rane
di Aristofane ("sulla nave leggevo per me l'Andromeda")
e la lettura più o meno collettiva di cui Plinio il Giovane descrive
la decadenza (I. 13) sono coesistite per secoli in Grecia e a Roma.
Precisiamo però
ulteriormente ciò che significa "leggere". Persino il
lettore solitario come il Dioniso delle Rane non è
silenzioso; legge probabilmente sottovoce, il che riduce le distanze
tra lettura individuale e lettura collettiva. Non si legge mai
solamente con gli occhi, neppure nelle biblioteche dove il rumore
doveva essere assordante. Neppure quando si era del tutto soli: come
si vede nella commedia, allorquando un personaggio che riceve una
lettera ne dà lettura non soltanto perché è necessario farne
conoscere il contenuto al pubblico, ma perché questa era l'usanza.
Ora la lettura sottovoce
è in un certo senso la conseguenza della difficoltà a decifrare il
testo. Infatti il verbo greco anagignoskein indica al contempo
l'atto di leggere e quello di riconoscere, e "leggere"
sembra esserne un significato derivato e più recente. In Erodoto, la
parola figura ventun volte e significa sempre "riconoscere"
oppure "persuadere"; in Tucidide quattro volte, in Isocrate
trentatré volte, sempre nel senso di "leggere". D'altra
parte il verbo legein, cioè parlare, significa anche leggere,
e precisamente "leggere davanti a un pubblico". Gli oratori
attici dicono solitamente al cancelliere "leggi a voce alta la
prescrizione" e anche Platone nel Teeteto: "prendi
il papiro e leggi a voce alta" (143 C). E nella Terza
Filippica (§ 41) Demostene annuncia che sta leggendo
un'iscrizione con un giro di frase — ("Non pronuncerò parole
mie, leggerò invece le lettere degli antenati") — in cui il
verbo legein regge sia logoi (le parole che si
pronunciano) sia grammata (le lettere che si leggono).
Leggere è quindi uno
sforzo che richiede delle competenze, competenze neanche tanto
diffuse. Leggere correntemente testi più o meno lunghi è infatti
ben altro dal "riconoscere" i segni alfabetici. Se torniamo
ancora una volta al già citato passo delle Leggi di Platone,
constatiamo che l'insegnamento di cui si parla mira semplicemente a
ottenere che si diventi "capaci di riconoscere i segni
alfabetici" rinunciando sin dall'inizio a qualsiasi "velocità"
di lettura salvo nel caso di bambini particolarmente dotati.
Non si dovrebbe tuttavia
parlare in modo astratto e generale della capacità di lettura e di
scrittura "in epoca classica". Sarebbe meglio distinguere
ad esempio tra città e campagna, tra cittadini liberi e schiavi.
Infatti nel mondo ellenico e nel mondo romano, i contadini
rappresentano la grande maggioranza della popolazione e sono
praticamente analfabeti. Nello studiare il problema
dell'alfabetizzazione, nell'epoca classica, occorre quindi sapere che
si parla essenzialmente di una popolazione urbana e, lo dico senza
esitare, addirittura di una minoranza all'interno della popolazione
urbana.
D'altronde una delle
ragioni della durevole stabilità sociale di cui ha goduto, tra gli
altri, lo Stato romano, è appunto l'assenza di alfabetizzazione
delle masse. Assenza di alfabetizzazione certo strettamente in
rapporto con la rarità della documentazione pubblica, per quanto
riguarda in particolare le decisioni del Senato. Non voglio negare
che la Roma classica abbia conosciuto quell'"onnipresenza dello
scritto" che la rende del tutto diversa dalla Roma del Medioevo.
Voglio dire piuttosto che la diffusione pubblica dei decreti "del
popolo e del senato", tipica di una comunità come quella
ateniese, appunto non avviene nella Roma repubblicana (Cicerone, Pro
Sulla, 41-42).
Con il passaggio
all'epoca imperiale, poi, un cambiamento profondo investe l'intera
società. Negli stessi strati superiori, infatti, si va ora
modificando radicalmente il modo di vivere nel suo complesso, e in
particolare il rapporto con i libri. Le dimore di lusso sovraccariche
di libri per puro esibizionismo, di cui parla il filosofo Seneca in
un celebre passo del trattato Sulla tranquillità dell'anima
(IX, 5-7), sono soltanto la brutta copia delle biblioteche private
dei vari Lucullo, Silla, Cicerone, Attico.
Stessa decadenza nel
campo delle letture pubbliche. Ce ne informa Plinio il Giovane, che
se ne duole e al contempo esalta "il tempo dei nostri padri",
e cioè l'epoca dell'imperatore Claudio (a sua volta, secondo Seneca,
epoca di decadenza). "Le cose andavano ben altrimenti —
sostiene Plinio — ai tempi dei nostri padri. Si racconta che un
giorno l'imperatore Claudio, passeggiando nel proprio palazzo, udisse
un gran rumore. E che chiestane la causa venisse informato che
Noniano [lo storico di cui parla Quintiliano] stava leggendo in
pubblico una delle proprie opere. Il principe lasciò ogni impegno e
colse piacevolmente di sorpresa l'assemblea con la sua presenza";
al contrario oggi "i più, seduti nelle pubbliche piazze,
sprecano nel dir sciocchezze il tempo che dovrebbero dedicare ad
ascoltare; mandano ogni tanto a chiedere se il lettore è entrato, se
la prefazione è terminata, se si è avanti nella lettura. Allora li
si vede comparire lentamente, quasi con rimpianto. E non aspettano
neppure la fine per andarsene; uno si sottrae con destrezza, l'altro,
meno vergognoso, esce a testa alta, senza tanti complimenti..."
(Ep. I, 13).
Si tratta di una velenosa
caricatura di quella che ai tempi di Cornelio e di Attico era stata
una vera e propria aristocrazia di lettori. Ora invece si sbadiglia —
come dice Seneca — davanti ai corpora dei grandi scrittori
del passato, e l'interesse dei lettori si orienta verso ciò che
Svetonio chiamava la "storia favolosa" (historia
fabularis) di cui lo stesso imperatore Tiberio era un
appassionato lettore (Tib., 70-2-5). Probabilmente quegli
autori di mirabilia di cui Aulo Gellio afferma aver trovato,
durante un viaggio dalla Grecia in Italia, numerose copie in vendita
nel porto di Brindisi (fasces librorum expositos): "Erano
— scrive — tutti libri greci, riempiti di fatti meravigliosi e
favolosi, di fenomeni inauditi, incredibili" (IX, 4.1-3).
Cosa accadeva intanto
alle grandi biblioteche di Roma? Sappiamo che durante il regno di
Tito la biblioteca del portico d'Ottavia era stata distrutta da un
incendio (Dione Cassio, 66.24), e che Domiziano l'aveva ricostituita
grazie alla (ancor viva) biblioteca di Alessandria, della quale aveva
fatto ricopiare i tesori (Svet., Domit., 20).
Due secoli dopo, il
disastro era totale: "Le biblioteche della città di Roma —
dice Ammiano Marcellino — sono chiuse per sempre, a guisa di
sepolcri" (XIV, 6, 18). Ammiano esprime un profondo disgusto per
lo spettacolo offerto all'epoca dalla città di Roma: "si è
giunti — dice — a un punto di disonore tale che quando gli
stranieri furono scacciati dalla città minacciata dalla carestia e i
primi a esser scacciati furono gli scienziati stranieri, l'unica
eccezione che si consentì fu a favore delle ballerine e dei loro
impresari". Del resto, Ammiano si adira anche contro la nuova
realtà antagonista dello Stato romano che era venuta sviluppandosi
attorno alla Chiesa. Eppure, dobbiamo ammetterlo, fu proprio grazie a
questa nuova realtà che si produsse una rivoluzione: una rivoluzione
che poggiava appunto sulla diffusione d'un libro; un libro che fu tra
l'altro della massima importanza per la storia dei testi; un libro la
cui diffusione ha comportato anche una modificazione materiale ben
nota (il codex) e la nascita del libro moderno. Si tratta del
Nuovo Testamento, che si rivelò capace di toccare i più ampi strati
sociali, e che era nato come il libro dei poveri.
L'ironia della storia
volle che questa alfabetizzazione, inattesa a dire il vero, e
strettamente legata alla diffusione della nuova religione, avesse
conseguenze radicali, addirittura rivoluzionarie, sulla stabilità
sociale dell'impero romano. Ma come spesso accade, quanto si
ve-rificò non ebbe nulla o quasi a che fare con le utopie sociali
del passato (da Piatone a lambulo). Come spesso accade, il
cambiamento, anzi diciamo meglio, la rivoluzione, quando si produce,
ama mostrare un volto inedito, imprevisto, un volto che i suoi
profeti non avrebbero saputo prevedere, né soltanto intravedere.
Rispetto al livello di
quella che era stata la cultura pagana, l'alfabetizzazione elementare
delle masse cristianizzate ha in sé, dobbiamo riconoscerlo, un
elemento di "barbarie” i contadini, i coloni, i barbari che
hanno conosciuto il libro e l'alfabeto grazie alla diffusione del
Nuovo Testamento ci appaiono come una realtà inquietante, del tutto
al disotto del livello intellettuale di quegli Eliopoliti, savissimi
e dolcemente filosofici, presenti nell'Utopia di lambulo. Ma si sa,
il cammino della storia non ha certo il dovere di conformarsi alle
previsioni dei filosofi.
Da “Leggere” n.6,
novembre 1988
2 commenti:
Buona sera, La ringrazio innanzitutto per aver contribuito a diffondere questo testo e Le chiedo anche se e dove sarebbe possibile trovare il testo dell'intera conferenza.
La mia fonte, la rivista diretta da Rosellina Archinto che ho indicato in coda al post, contiene solo la parte qui ripresa. Io proverei a cercare, per il testo integrale, gli Annali della École des Hautes Études di Parigi, ove la conferenza fu tenuta in lingua francese, ma non è detto che non ci abbia già pensato lei.
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