12.3.15

La lettura nel mondo antico (Luciano Canfora)

Il testo che segue è parte di una conferenza che Luciano Canfora tenne in francese a Parigi all'École des Hautes Études il 16 giugno 1988. La traduzione in italiano è di Sylvie Coyaud. (S.L.L.)
Un disegno che ricostruisce l'antica biblioteca di Alessandria
Nel mondo ellenico, l'alfabetizzazione generalizzata è un programma da utopisti. Nelle misteriose e incantevoli isole del Sole che, secondo Diodoro, lambulo avrebbe visitato in epoca imprecisata, la conoscenza dei segni alfabetici e dell'astrologia era oggetto della massima attenzione. Pare si fosse adottata una scrittura artificiale basata su sette lettere soltanto, ognuna con quattro usi diversi. Diodoro aggiunge un dettaglio curioso: si usava scrivere verticalmente, dall'alto in basso. Nelle isole del Sole l'ordine è palesemente sottosopra: il lavoro non esiste, il cibo è abbondante e cresce spontaneo, la morte è dolce quanto la vita, la scrittura è verticale. L'alfabetizzazione universalmente diffusa non è quindi che un aspetto di questo capovolgimento utopico.
Anche Platone, per parte sua. ha abbozzato nel libro VII delle Leggi una "utopia" che comprende un programma di alfabetizzazione illustrato dall'interlocutore ateniese. Il programma prevede che si fatichi sulle lettere "quanto basta per saper leggere e scrivere", la durata dell'istruzione deve essere di "circa tre anni", e Platone aggiunge che "quanto a raggiungere, in quel numero fisso di anni, una velocità o un'eleganza perfette [...] è una preoccupazione da trascurare" (VII, 810 A-B).
L'ideale platonico come appare nel dialogo dell'estrema vecchiaia è un ideale da "irregimentazione": "né le pecore — scrive — né altro bestiame potrebbero vivere senza pastore, non più dei bambini senza pedagogo o degli schiavi senza padrone" (808 D). Eppure in tale "irregimentazione", molto simile all'educazione statale immaginata da Senofonte in un'altra utopia, la Ciropedia, l'insegnamento dell'alfabeto dà risultati assai modesti. È il modello "spartano" a funzionare sia in Piatone sia in Senofonte. In realtà era stato il semimitico legislatore Licurgo a raccomandare agli Spartani d'imparare a conoscere i segni alfabetici ma entro precisi limiti: "soltanto per l'utilità pratica" (Plut., Lyc., 16.10).
La questione non è molto diversa nell'Occidente greco. Si conosce, grazie alla credulità di Diodoro Siculo, la cosiddetta legge di Caronda sull'istruzione pubblica. Stando a questa legge, tutti i figli dei cittadini dovevano imparare a leggere, e la città avrebbe pagato gli insegnanti (XII, 12, 4). Infatti, dice Diodoro, "il legislatore poneva le lettere al di sopra di ogni altra disciplina; grazie a esse, egli pensava, saranno realizzate la maggior parte delle opere più favorevoli alla vita [...]".
"I suoi predecessori — aggiunge — che avevano statalizzato la medicina, erano stati superati; si erano preoccupati delle cure da dare ai corpi, egli curò lo spirito paralizzato dall'ignoranza".
Non dimentichiamo d'altronde che il Caronda di Diodoro, ben più utopistico del Caronda della Politica di Aristotele, sembra mirare più in alto dell'ateniese delle Leggi di Platone. Nel suo progetto, le lettere dell'alfabeto sono lo strumento che permette a tutti di accedere "alla filosofia e a tutta la cultura” ; e soprattutto ci si deve preoccupare dei poveri, onde evitare che "se non hanno di che pagare, vengano privati delle occupazioni più belle".
Ma se la diffusione delle lettere dell'alfabeto è considerata sia dall'ateniese delle Leggi sia dal Caronda di Diodoro come uno scopo tra i più alti benché di difficile conseguimento, forse ancor più della statalizzazione del sistema sanitario, ciò dipende tra l'altro dal fatto che si tratta di una tecnica assai ardua da padroneggiare. Consideriamo per esempio uno dei "libri" più antichi che ci siano giunti, il papiro scoperto all'inizio del secolo ad Abusir in Egitto, e che contiene I Persi del poeta lirico Timoteo, amico e in una certa misura "allievo" di Euripide: il libro — un esemplare molto curato, un vero e proprio libro, non una copia privata su carta scadente — si presenta senza divisione delle parole, senza segni per la lettura o l'esecuzione. In queste condizioni la difficoltà di lettura è ovvia.
"Sprovvista dei segni di lettura, una pagina di un dialogo di Piatone o di un'opera teatrale doveva esser ardua da decifrare; in generale, si può dire che le opere dell'Antichità erano poco adatte alla lettura ed è per questo che ci furono lettori di professione, almeno a partire dal momento in cui il gusto della lettura cominciò a svilupparsi" (A. Dain, Les manuscrits, Paris, 1964, p. 99).
Ma quale momento? È difficile da definire, tanto più che la lettura privata, solitaaria, "intima" come quella di Dioniso all'inizio delle Rane di Aristofane ("sulla nave leggevo per me l'Andromeda") e la lettura più o meno collettiva di cui Plinio il Giovane descrive la decadenza (I. 13) sono coesistite per secoli in Grecia e a Roma.
Precisiamo però ulteriormente ciò che significa "leggere". Persino il lettore solitario come il Dioniso delle Rane non è silenzioso; legge probabilmente sottovoce, il che riduce le distanze tra lettura individuale e lettura collettiva. Non si legge mai solamente con gli occhi, neppure nelle biblioteche dove il rumore doveva essere assordante. Neppure quando si era del tutto soli: come si vede nella commedia, allorquando un personaggio che riceve una lettera ne dà lettura non soltanto perché è necessario farne conoscere il contenuto al pubblico, ma perché questa era l'usanza.
Ora la lettura sottovoce è in un certo senso la conseguenza della difficoltà a decifrare il testo. Infatti il verbo greco anagignoskein indica al contempo l'atto di leggere e quello di riconoscere, e "leggere" sembra esserne un significato derivato e più recente. In Erodoto, la parola figura ventun volte e significa sempre "riconoscere" oppure "persuadere"; in Tucidide quattro volte, in Isocrate trentatré volte, sempre nel senso di "leggere". D'altra parte il verbo legein, cioè parlare, significa anche leggere, e precisamente "leggere davanti a un pubblico". Gli oratori attici dicono solitamente al cancelliere "leggi a voce alta la prescrizione" e anche Platone nel Teeteto: "prendi il papiro e leggi a voce alta" (143 C). E nella Terza Filippica (§ 41) Demostene annuncia che sta leggendo un'iscrizione con un giro di frase — ("Non pronuncerò parole mie, leggerò invece le lettere degli antenati") — in cui il verbo legein regge sia logoi (le parole che si pronunciano) sia grammata (le lettere che si leggono).
Leggere è quindi uno sforzo che richiede delle competenze, competenze neanche tanto diffuse. Leggere correntemente testi più o meno lunghi è infatti ben altro dal "riconoscere" i segni alfabetici. Se torniamo ancora una volta al già citato passo delle Leggi di Platone, constatiamo che l'insegnamento di cui si parla mira semplicemente a ottenere che si diventi "capaci di riconoscere i segni alfabetici" rinunciando sin dall'inizio a qualsiasi "velocità" di lettura salvo nel caso di bambini particolarmente dotati.
Non si dovrebbe tuttavia parlare in modo astratto e generale della capacità di lettura e di scrittura "in epoca classica". Sarebbe meglio distinguere ad esempio tra città e campagna, tra cittadini liberi e schiavi. Infatti nel mondo ellenico e nel mondo romano, i contadini rappresentano la grande maggioranza della popolazione e sono praticamente analfabeti. Nello studiare il problema dell'alfabetizzazione, nell'epoca classica, occorre quindi sapere che si parla essenzialmente di una popolazione urbana e, lo dico senza esitare, addirittura di una minoranza all'interno della popolazione urbana.
D'altronde una delle ragioni della durevole stabilità sociale di cui ha goduto, tra gli altri, lo Stato romano, è appunto l'assenza di alfabetizzazione delle masse. Assenza di alfabetizzazione certo strettamente in rapporto con la rarità della documentazione pubblica, per quanto riguarda in particolare le decisioni del Senato. Non voglio negare che la Roma classica abbia conosciuto quell'"onnipresenza dello scritto" che la rende del tutto diversa dalla Roma del Medioevo. Voglio dire piuttosto che la diffusione pubblica dei decreti "del popolo e del senato", tipica di una comunità come quella ateniese, appunto non avviene nella Roma repubblicana (Cicerone, Pro Sulla, 41-42).
Con il passaggio all'epoca imperiale, poi, un cambiamento profondo investe l'intera società. Negli stessi strati superiori, infatti, si va ora modificando radicalmente il modo di vivere nel suo complesso, e in particolare il rapporto con i libri. Le dimore di lusso sovraccariche di libri per puro esibizionismo, di cui parla il filosofo Seneca in un celebre passo del trattato Sulla tranquillità dell'anima (IX, 5-7), sono soltanto la brutta copia delle biblioteche private dei vari Lucullo, Silla, Cicerone, Attico.
Stessa decadenza nel campo delle letture pubbliche. Ce ne informa Plinio il Giovane, che se ne duole e al contempo esalta "il tempo dei nostri padri", e cioè l'epoca dell'imperatore Claudio (a sua volta, secondo Seneca, epoca di decadenza). "Le cose andavano ben altrimenti — sostiene Plinio — ai tempi dei nostri padri. Si racconta che un giorno l'imperatore Claudio, passeggiando nel proprio palazzo, udisse un gran rumore. E che chiestane la causa venisse informato che Noniano [lo storico di cui parla Quintiliano] stava leggendo in pubblico una delle proprie opere. Il principe lasciò ogni impegno e colse piacevolmente di sorpresa l'assemblea con la sua presenza"; al contrario oggi "i più, seduti nelle pubbliche piazze, sprecano nel dir sciocchezze il tempo che dovrebbero dedicare ad ascoltare; mandano ogni tanto a chiedere se il lettore è entrato, se la prefazione è terminata, se si è avanti nella lettura. Allora li si vede comparire lentamente, quasi con rimpianto. E non aspettano neppure la fine per andarsene; uno si sottrae con destrezza, l'altro, meno vergognoso, esce a testa alta, senza tanti complimenti..." (Ep. I, 13).
Si tratta di una velenosa caricatura di quella che ai tempi di Cornelio e di Attico era stata una vera e propria aristocrazia di lettori. Ora invece si sbadiglia — come dice Seneca — davanti ai corpora dei grandi scrittori del passato, e l'interesse dei lettori si orienta verso ciò che Svetonio chiamava la "storia favolosa" (historia fabularis) di cui lo stesso imperatore Tiberio era un appassionato lettore (Tib., 70-2-5). Probabilmente quegli autori di mirabilia di cui Aulo Gellio afferma aver trovato, durante un viaggio dalla Grecia in Italia, numerose copie in vendita nel porto di Brindisi (fasces librorum expositos): "Erano — scrive — tutti libri greci, riempiti di fatti meravigliosi e favolosi, di fenomeni inauditi, incredibili" (IX, 4.1-3).
Cosa accadeva intanto alle grandi biblioteche di Roma? Sappiamo che durante il regno di Tito la biblioteca del portico d'Ottavia era stata distrutta da un incendio (Dione Cassio, 66.24), e che Domiziano l'aveva ricostituita grazie alla (ancor viva) biblioteca di Alessandria, della quale aveva fatto ricopiare i tesori (Svet., Domit., 20).
Due secoli dopo, il disastro era totale: "Le biblioteche della città di Roma — dice Ammiano Marcellino — sono chiuse per sempre, a guisa di sepolcri" (XIV, 6, 18). Ammiano esprime un profondo disgusto per lo spettacolo offerto all'epoca dalla città di Roma: "si è giunti — dice — a un punto di disonore tale che quando gli stranieri furono scacciati dalla città minacciata dalla carestia e i primi a esser scacciati furono gli scienziati stranieri, l'unica eccezione che si consentì fu a favore delle ballerine e dei loro impresari". Del resto, Ammiano si adira anche contro la nuova realtà antagonista dello Stato romano che era venuta sviluppandosi attorno alla Chiesa. Eppure, dobbiamo ammetterlo, fu proprio grazie a questa nuova realtà che si produsse una rivoluzione: una rivoluzione che poggiava appunto sulla diffusione d'un libro; un libro che fu tra l'altro della massima importanza per la storia dei testi; un libro la cui diffusione ha comportato anche una modificazione materiale ben nota (il codex) e la nascita del libro moderno. Si tratta del Nuovo Testamento, che si rivelò capace di toccare i più ampi strati sociali, e che era nato come il libro dei poveri.
L'ironia della storia volle che questa alfabetizzazione, inattesa a dire il vero, e strettamente legata alla diffusione della nuova religione, avesse conseguenze radicali, addirittura rivoluzionarie, sulla stabilità sociale dell'impero romano. Ma come spesso accade, quanto si ve-rificò non ebbe nulla o quasi a che fare con le utopie sociali del passato (da Piatone a lambulo). Come spesso accade, il cambiamento, anzi diciamo meglio, la rivoluzione, quando si produce, ama mostrare un volto inedito, imprevisto, un volto che i suoi profeti non avrebbero saputo prevedere, né soltanto intravedere.
Rispetto al livello di quella che era stata la cultura pagana, l'alfabetizzazione elementare delle masse cristianizzate ha in sé, dobbiamo riconoscerlo, un elemento di "barbarie” i contadini, i coloni, i barbari che hanno conosciuto il libro e l'alfabeto grazie alla diffusione del Nuovo Testamento ci appaiono come una realtà inquietante, del tutto al disotto del livello intellettuale di quegli Eliopoliti, savissimi e dolcemente filosofici, presenti nell'Utopia di lambulo. Ma si sa, il cammino della storia non ha certo il dovere di conformarsi alle previsioni dei filosofi.


Da “Leggere” n.6, novembre 1988

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Buona sera, La ringrazio innanzitutto per aver contribuito a diffondere questo testo e Le chiedo anche se e dove sarebbe possibile trovare il testo dell'intera conferenza.

Salvatore Lo Leggio ha detto...

La mia fonte, la rivista diretta da Rosellina Archinto che ho indicato in coda al post, contiene solo la parte qui ripresa. Io proverei a cercare, per il testo integrale, gli Annali della École des Hautes Études di Parigi, ove la conferenza fu tenuta in lingua francese, ma non è detto che non ci abbia già pensato lei.

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