Nel
2011, per i 150 anni del Regno d'Italia, “il manifesto” pubblicò
tre inserti sotto il titolo comune La conquista. 1815 – 1870:
l'unità italiana nell'era della borghesia. Ognuno
degli inserti, curati da Gabriele Polo, si apriva con il saggio di
uno storico, cui seguivano schede e documenti grafici e iconografici
a cura della redazione. Questa scheda sulle riviste e gli
intellettuali nel tempo della Restaurazione può tornare utile ai
ragazzi che vanno al liceo e non soltanto a loro. (S.L.L.)
Il Congresso di Vienna in una incisione/caricatura di H.Delius (1815). In prima fila sovrani, ufficiali, usurai. |
Al centro del confronto
tra i governi della Restaurazione e l’opinione pubblica c’erano i
giornali e le riviste (di carattere politico o letterario) che
nascevano numerosi nei primi decenni del XIX secolo. Il problema
della libertà di stampa divenne una delle questioni centrali nel
dibattito politico degli anni della Restaurazione. I regimi
assolutisti vedevano nella circolazione di giornali e riviste un
pericolo mortale per il proprio potere e la sua stabilità, fino a
considerarla fonte di possibili movimenti insurrezionali: quei fogli
diffondevano e amplificavano idee considerate pericolose e la loro
stessa esistenza, se incontrollata, costituiva di per sé un reato di
«lesa maestà» per una concezione della politica e della vita
pubblica accentratrice e assolutista, violando il monopolio
dell’informazione e della formazione culturale e politica. Mentre i
liberali consideravano la libera circolazione delle idee una delle
principali risorse per il miglioramento della società e dello stesso
sistema politico, i governi della Restaurazione, e le loro polizie,
accentuavano il ruolo della censura (spesso preventiva) e si
sforzavano di limitare al massimo la circolazione di giornali e
riviste che erano soprattutto di ispirazione liberale e democratica.
Quando non venivano chiuse (come - tra gli altri - accadde, dopo
appena un anno di esistenza, nel 1819, al milanese Conciliatore
e, nel 1833, alla rivista fiorentina Antologia) o quando non
erano costrette a far vagliare preventivamente i propri articoli agli
uffici di censura per ottenerne il nulla osta per la pubblicazione,
le riviste erano sottoposte a una tassazione preventiva (un bollo da
pagare per ogni copia distribuita) che ne limitava fortemente la
libera circolazione.
Anche i libri non
godevano di maggior libertà e lunghe erano le liste dei volumi
all’indice di cui era proibita la vendita e la lettura. La
pressione cui veniva sottoposta l’editoria (una prerogativa non
solo dei regimi più oscurantisti, ma molto diffusa anche nella
liberale Inghilterra, soprattutto nei confronti della stampa radicale
e operaia) finì per costituire ben presto uno dei principali terreni
di battaglia politica per le opposizioni ai governi della
Restaurazione: la completa abolizione di ogni forma di censura fu,
nei primi decenni dell’Ottocento, una delle principali richieste
dei movimenti liberali e costituzionalisti.
Protagonista della
diffusione di conoscenze e idee che dava vita a riviste, libri e
giornali, era una nuova figura d’intellettuale, profondamente
diversa dal passato. La nascita di un vasto pubblico a cui si poteva
rivolgere aveva «emancipato» l’intellettuale dalla dipendenza dal
potere, dandogli la possibilità di rivolgersi direttamente
all’opinione pubblica di cui diventava, allo stesso tempo,
strumento e punto di riferimento. Il pubblico si rivolgeva
all’intellettuale per avere maggiori informazioni, ampliare le
proprie conoscenze tecniche e scientifiche, divertirsi e svagarsi (fu
a partire da allora che il teatro e il romanzo conobbero una
diffusione di massa).
Contemporaneamente, gli
intellettuali esercitavano un’opera d’indirizzo e di sviluppo
delle idee su sempre più larghi strati della popolazione. Non più
«consigliere del principe» (e suo «dipendente») l’intellettuale
dell’Ottocento si avviava ad assumere un ruolo pubblico
importantissimo e una rilevante funzione politica che si sarebbe poi
sviluppata pienamente nei partiti di massa. Espressione della società
del suo tempo (e, quindi, restìo a ogni tipo di censura),
l’intellettuale svolgeva sempre più una funzione critica sulla
realtà, ne denunciava deformazioni ed errori. Era quasi inevitabile
che, nell’epoca della Restaurazione, la gran parte degli
intellettuali svolgesse un rilevante lavoro d’opposizione, finendo
spesso col rappresentarne la componente più radicale e visibile. Il
romanticismo fu la corrente culturale in cui si raccolsero e
svilupparono il proprio lavoro queste nuove figure d’intellettuali,
che erano soprattutto degli artisti: essi consideravano l’arte
l’espressione dei sentimenti più veri della società, la forma
che, in contrapposizione alla tecnica, riesce a dar conto nella
maniera più chiara delle passioni e dei pensieri di tutti.
Diversificati per tradizione culturale e anche per idee politiche,
gli intellettuali romantici erano unificati da una comune concezione
del rapporto tra arte e popolo: ciò che, per i romantici, accomunava
un popolo era l’identità culturale, in primo luogo quella
linguistica, e la sua tradizione. In tal senso l’artista romantico
era spesso un letterato (da Manzoni a Berchet in Italia, da Hugo a de
Stael in Francia, da Scott e Byron a Shel1ey in Inghilterra, da
Fichte a Heine e Holderlin in Germania), ma, soprattutto, attraverso
il suo lavoro difendeva i valori nazionali in funzione d’educazione
del popolo, rinnovando la memoria del suo passato. L’incitazione a
liberarsi di ogni schiavitù, diventava compendio naturale della sua
opera. Il romanticismo, e l’idealismo in filosofia, diedero
l’impronta culturale ai primi decenni dell’Ottocento: in quanto
ideologie di gruppo, consideravano l’uomo non come individuo
razionale isolato ma come membro di un gruppo etnico tradizionale,
cioè - in questa
concezione - di una
nazione, con una sua eredità storica e intellettuale. Il fatto che
per l’idealismo (si pensi ad uno dei suoi massimi esponenti, Hegel)
l’essenza reale dell’individuo non si eserciti nel suo isolamento
ma nell’accettazione del suo ruolo in un universo morale
identificato con lo Stato (anche con lo stato assoluto), determinava
una posizione politicamente conservatrice, ma non contraddiceva alla
centralità della tradizione nazionale. Così, in un primo tempo,
molti artisti romantici reagirono negativamente alla rivoluzione
politica e a quella industriale (sempre in nome della tradizione) e
assunsero posizioni reazionarie; ma altri, in seguito, si trovarono
in aperta rotta di collisione con la Restaurazione dove questa
annullava l’identità nazionale e si schierarono su posizioni
liberali. La ricerca della lingua originaria di un popolo, del suo
carattere nazionale, dell’intimo della sua personalità in grado di
stimolare nuove forme artistiche (in primo luogo poetiche), spinsero
i romantici a opporsi prima al dispotismo illuminato, poi al governo
giacobino e poi napoleonico, infine a Metternich e al suo sistema
degli stati europei; senza mai diventare un movimento politico, gli
intellettuali romantici finirono sempre per svolgere un importante
ruolo sulla scena pubblica e, in alcuni paesi come l’Italia, per
costituire un punto di riferimento per l’opposizione alla
Restaurazione e per costruire le basi per la cultura risorgimentale
attraverso cui verrà poi riletta la storia d’Italia di quel
periodo, a volte anche con eccessiva enfasi e retorica. È da questa
lettura romantica della tradizione che nell’Ottocento si sviluppa
un’idea che con l’ordinamento politico uscito dal Congresso di
Vienna era apertamente contraddittoria: l’idea di nazione.
Sviluppatasi durante la
Rivoluzione francese, l’idea di nazione rimane a tutt’oggi una
delle più indefinite e ambigue nel vocabolario politico. Possiamo
dire che all’epoca della Restaurazione essa era comunemente
definita come una «comunità di persone unite dalla storia e dalla
lingua»; coerentemente con lo spirito romantico, la nazione era così
il frutto della tradizione. Quest’ideologia nazionale si poneva, in
alcune aree geografiche come l’Italia, la Polonia, la Germania, in
aperto contrasto con l’opera dei restauratori. Se le entità
statali dovevano essere coerenti con quelle nazionali, se erano la
storia e la lingua a dover definire i confini di una nazione, allora
il legittimismo della restaurazione non aveva più alcun senso
d’esistere.
L’idea di nazione
affermava che era l’unità linguistica e storica a dover definire i
confini di uno stato, mentre a Vienna era stato sancito che fosse la
soggezione a uno stesso sovrano ad unire popoli diversi e stabilire i
confini politici. Così, pur essendo un concetto ambiguo e caro ad
alcuni pensatori conservatori, l’idea di nazione finì per essere
combattuta dai regimi assolutistici, diventando patrimonio dei
movimenti liberali, il cui nazionalismo era unito dalla comune
avversione per gli assetti del Congresso di Vienna, ma conteneva in
sé un elemento reciprocamente conflittuale che avrebbe generato un
nazionalismo ben diverso che, nella seconda metà del secolo, avrebbe
dato il proprio contributo alle guerre tra le nazioni europee. Una
volta consumato il proprio ruolo «liberatore», una volta ricomposta
quell’unità territoriale indispensabile alla nascita di una
nazione e di un capitalismo moderni, l’idea di nazione sarebbe
diventata patrimonio delle forze più reazionarie rischiando, come
avvertiva già Mazzini, di trasformare l’Europa in un campo di
guerra tra «nazionalismi gretti, gelosi e ostili».
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