Quando il re Artù sta
per morire ordina che la sua spada magica Excalibur sia gettata in
fondo a un lago, perché nessuna mano indegna se ne impossessi. Il
fedele Girflet non se la sente di perdere la spada reale: per due
volle fa finta di gettarla nel lago, ma in realtà la nasconde e
butta in acqua prima la propria spada, poi il fodero. Entrambe le
volte Artù comprende l'inganno, perché Girflet non dice d'aver
visto qualcosa di speciale. Finalmente Girflet si decide a obbedire,
ma prima che la spada tocchi l'acqua, dal lago esce una mano, un
braccio (ma il corpo cui appartengono non si mostra), e la mano
afferra la spada per l'impugnatura, la brandisce in aria, e con essa
scompare nel profondo del lago.
Questo è il finale del
Lancillotto in prosa. Anche nel finale della Ricerca
del Santo Graal appare una mano senza che si veda a chi
appartiene, ma questa scende dal cielo per afferrare il Graal e
portarlo con sé sopra le nubi. Le due mani, quella celeste e quella
che emerge dal profondo,l'una che rientra nell'iconografia religiosa
più nota, l'altra bel più sorprendente e suggestiva, sembrano
rappresentare i due aspetti delle leggende del ciclo bretone, quello
della simbologia cristiana e quello del paganesimo druidico: le due
chiavi con cui oggi leggiamo le avventure della Tavola Rotonda.
Secondo la definizione di
Leo Spitzer «l'avventura è una situazione singolare, straordinaria,
imprevista, che viene dal di fuori dell'uomo, che "avviene"
e deve essere da lui superata con coraggio e acume, in una vittoria
che rappresenta una prova morale di se stesso». Nel romanzo
cavalleresco medievale il termine «avventura» si presenta
continuamente e talora con significati più vasti ancora, che
esorbitano dal vissuto individuale per diventare situazione
eccezionale d'un luogo, o d'un oggetto, o d'un seguito di fenomeni,
deroga dalle norme della natura, incantesimo. E' «avventura» la
desolazione che ha colpito la Terre Gaste, la sterile e
selvatica landa in cui si svolgono le imprese di Perceval.
La proposta del
falegname
«Dopo la morte del re
Uterpendragon padre del buon re Artù, gli uomini prodi furono
impoveriti, diseredali, rovinati a torto, le loro terre
devastate...». Questo senso di vita larvale e precaria d'una
cavalleria raminga per contrade deserte e ostili, con l'imperativo di
restaurare un passato dei cui splendori s'è cancellata ormai ogni
memoria, accompagna tutto il ciclo dei romanzi arturiani.
La poesia epica, a ben
guardare, si nutre più del pathos della sconfitta che di quello
della vittoria (neanche l'Iliade fa eccezione, raccontando un
momento d'impasse e di crisi degli Achei) e questo
confermerebbe le ipotesi sulle remote origini storiche delle leggende
sul re Artù. Sia lo si voglia collegare alle lotte dei Britanni del
VI secolo contro i Sassoni sia a quelle dei Brètoni del X secolo
contro i Normanni, questo ciclo sarebbe la celebrazione d'un'ultima
stagione gloriosa dei Celti e la promessa d'una riscossa (col ritorno
di Artù dall'isola beata in cui egli viene accolto dopo la morte).
Quanto alle origini della
Tavola Rotonda in quanto oggetto, la tradizione sia gallese che
irlandese e anche bretone vuole che Artù la facesse costruire perché
nessuno dei suoi baroni potesse vantare un posto privilegiato sugli
altri. (Ricordiamo le discussioni sulla forma del tavolo prima
dell'inizio della trattativa di pace tra americani e vietnamiti a
Parigi). Un simbolo d'eguaglianza, dunque: in un poema inglese del
XIII secolo ma riferentesi certo a tradizioni molto più antiche, è
un falegname della Cornovaglia che propone a Artù (per metter fine
alle contese che infierivano tra i cavalieri) di fabbricargli una
tavola in cui potessero sedere milleseicento uomini senza che vi
fossero dispute per i posti d' onore. La più grande tavola rotonda
medievale che si sia conservata è quella di Winchester, alla quale
possono sedere venticinque persone. Le tradizioni cristiane invece
fissano a dodici il numero dei posti, più uno vacante: la Tavola
Rotonda come replica di quella dell'Ultima Cena e della prima mensa
eucaristica di Giuseppe d'Arimatea.
Ingenuità
selvaggia
Ma il cerchio è anche
simbolo di totalità cosmica, legato al culto solare (e lunare):
nella civiltà celtica primitiva è caratteristico non solo degli
oggetti magici ma anche dell'architettura. Un commentatore di oggi
identifica la Tavola Rotonda con la forma circolare di Stonehenge.
Ciò che conta comunque —
qualsiasi ne siano le origini — è che la fortuna del ciclo
romanzesco comincia con un poeta del secolo XII di grande freschezza
in ogni dettaglio e finezza psicologica e grazia nella versificazione
a rime baciate e fascino nell'evocazione d'un passato misterioso:
Chrétien de Troyes. Trovarne sul mercato buone edizioni nel testo
originale è difficile, perché si direbbe che in Francia oggi il
francese medievale, ispido ma pieno di sapore, lo leggano solo gli
specialisti: nelle collezioni più diffuse di «livres de poche»
Chrétien si trova solo in trascrizioni in prosa in francese moderno.
(E' un po' come se noi traducessimo in italiano moderno Dante e
Boccaccio).
In italiano è uscita
proprio ora una buona traduzione in prosa di Angela Bianchini di due
romanzi di Chretien e di parecchi altri testi del ciclo bretone nel
volume Romanzi medievali d'amore e d'avventura (Garzanti, «I
Grandi Libri»). Il volume ripete, aggiornandolo nell'ampia
introduzione, un'edizione Casini di parecchi anni fa. Dalla
prefazione che Spitzer aveva scritto apposta per questo lavoro della
sua ex-allieva Bianchini, proviene la citazione che ho fatto più
sopra.
Il capolavoro di Chrétien
è, sebbene incompiuto, il Perceval, in cui il personaggio
fanciullesco è tratteggiato con un humour sorprendente nei
dialoghi e nel comportamento, nella ingenuità selvaggia che lo rende
invincibile, e seguito nel suo sviluppo attraverso un vero e proprio
percorso d'iniziazione. La cavalleria da cui sua madre invano ha
voluto tenerlo lontano è scoperta da lui come una realtà dai
contorni di sogno; possiamo dire che l'avventura cavalleresca fa il
suo ingresso nella letteratura già con quest'aura di mito. E anche
con una punta di parodia, dato che le imprese dei cavalieri le
vediamo miniate dallo spirito innocente di questo ragazzo cresciuto
nei boschi. Possiamo dunque dire che la letteratura cavalieresca
nasce e muore con due casi di follia sublime; Perceval e Don
Chisciotte.
Perceval prende tutto
alla lettera: prima i consigli della madre, poi quelli del valentuomo
che lo arma cavaliere: è insieme un gaffeur e una forza della
natura, ma è anche un puro, un illuminato, quasi un monaco zen.
Lancia insanguinata
La sua visita al castello
del Re Pescatore è piena di misteri: qual è il segreto del re
invalido? cosa significano i tre oggetti portati in processione: la
lancia insanguinata, il piatto e la scodella detta «graal»? Perché
Perceval non domanda spiegazioni? E perché il non aver posto domande
e una colpa che avrà gravi conseguenze? lì romanzo incompiuto non
ci spiega nulla e da questa incertezza nasce tutta una biblioteca di
«continuazioni» in varie lingue (quella tedesca sarà poi ripresa
felicemente da Wagner nel suo Parsifal), dove s'intrecciano le
avventure di Perceval e di Gauvain e di Lancillotto (il cui adulterio
con la regina Ginevra, moglie di Artù, è un'altra colpa dalle
funeste conseguenze). Sarà Galaad, il cavaliere vergine, a porre
fine all'incantesimo del Graal, e non Perceval che è un felice
fornicatore, sia pur in tutta innocenza.
La continuazione più
elaborata è quella mistica di Robert de Boron in cui il graal
diventa il Santo Graal, il calice in cui bevve Gesù nell'Ultima Cena
e in cui il suo sangue fu raccolto da Giuseppe d'Arimatea. Tutto
questo in Chrétien de Troyes non c'era, ma già egli sembra mettere
sulla strada della simbologia cristiana, dicendo (per bocca del Re
Eremita) che il graal contiene un'ostia che da sola basta a nutrire
il Re Pescatore. Qualsiasi fossero le intenzioni di Chrétien, è
probabile che la simbologia del Graal si colleghi anche a riti
celtici sul ciclo della vegetazione e della fecondità, come molti
studiosi moderni hanno voluto vedere. (La ferita del Re Pescatore è
testualmente «in mezzo alle gambe»).
Ma i misteri del romanzo
incompiuto non si fermano lì. Il defunto padre di Perceval aveva
subito una ferita simile a quella del Re Pescatore (o dei Re
Pescatori, perché anche costui ha un padre invalido). Poi Perceval
incontra una cugina che gli rivela un legame di parentela con quella
dinastia sfortunata. Ma da parte di padre o da parte di madre? Tutte
le possibili genealogie che si ricavano dalle indicazioni di Chrétien
sono ingarbugliate e contraddittorie.
Una sene di incesti
Solo negli ultimi anni,
un poeta che è anche un matematico, Jacques Roubaud, è riuscito a
formulare una proposta d'albero genealogico che collega Perceval al
Re Pescatore, anzi alle varie generazioni di Re Pescatori. Così si
rivela .un'ipotesi inedita di spiegazione del segreto attorno a cui
ruota tutto il ciclo. C'è di mezzo un incesto, anzi una serie
d'incesti, figlio-madre e padre-figlia (mentre un incesto
fratello-sorella è alle origini dei guai nella famiglia del re
Artù).
L'interpretazione
incestuosa non contrasta con quella mistica. Tutt'altro. Lo schema
genealogico della famiglia dei Re Pescatori sarebbe lo stesso di
quello della famiglia d'Adamo, non solo ma, perfino di quello della
famiglia di Gesù, così come (secondo Roubaud) vennero ricostruiti
da Gioacchino da Fiore!
Non solo questo si trova
nel libro che mi duole di non aver qui spazio per riassumere più
ampiamente (Jacques Roubaud, Graal fiction, Gallimard, 1978),
traboccante d'immaginazione e d'erudizione, e d'idee che vanno
dall'interpretazione d'un indovinello gallese in cui ai cacciatori
(nobiltà guerriera sconfitta) succedono i pescatori (guerriglia
popolare), a quella del graal come libro.
L'idea centrale è
questa: attraverso Bleddri o Blaise, bardo gallese dell'XI secolo che
dal Galles invaso dai Normanni si sposta in Francia alla corte di
Poitiers, la cultura celtica ormai dispersa nelle foreste e nelle
brughiere trova la via della sua sopravvivenza immettendo proprio
nella culla della poesia provenzale, dell'amor cortese,
dell'idealismo cavalleresco, la passione carnale e bruciante delle
storie di Tristano e Isotta e di Lancillotto e Ginevra. E' carica di
questo fermento sovvertitore che la «materia di Bretagna» arriva
fino a Dante, per il quale il romanzo dell'adulterio alla corte di Re
Artù è quello che sospinge gli occhi e scolora il viso di Paolo e
Francesca, fino al bacio della bocca tutta tremante che decide le
sorti future della letteratura occidentale.
La Repubblica, 31 maggio
1981
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