Nel sito di Alberto Soave
ho trovato il racconto qui postato, che Soave considera esempio
tangibile della “diversità comunista”.
Il libro da cui è tratto, In auto con Berlinguer. Quindici anni con il segretario del Pci, è di Alberto Menichelli, che fu per lungo tempo autista e accompagnatore di Enrico Berlinguer, ma l’episodio non riguarda il segretario del Pci, ma Umberto Terracini (Genova 1895 – Roma 1983), uno dei fondatori del partito, imprigionato insieme a Gramsci e, dopo undici anni di carcere, confinato a Ponza e Santo Stefano; poi, dopo la Liberazione, presidente dell’Assemblea Costituente, parlamentare e dirigente comunista di primo piano. (S.L.L.)
Il libro da cui è tratto, In auto con Berlinguer. Quindici anni con il segretario del Pci, è di Alberto Menichelli, che fu per lungo tempo autista e accompagnatore di Enrico Berlinguer, ma l’episodio non riguarda il segretario del Pci, ma Umberto Terracini (Genova 1895 – Roma 1983), uno dei fondatori del partito, imprigionato insieme a Gramsci e, dopo undici anni di carcere, confinato a Ponza e Santo Stefano; poi, dopo la Liberazione, presidente dell’Assemblea Costituente, parlamentare e dirigente comunista di primo piano. (S.L.L.)
Molto presto assunsi un
altro ruolo. Subentrai, infatti, all’autista di Umberto Terracini,
Mario Gramaccini, che era stato vittima di un incidente d’auto al
ritorno da Genzano. Durante gli accertamenti riguardo la dinamica
dello scontro nel quale aveva perso la vita una persona, gli
ritirarono la patente, mettendolo in difficoltà al lavoro. Noi della
vigilanza non eravamo dei veri autisti, ma fummo comunque tenuti in
considerazione nella valutazione del possibile sostituto. Alla fine
venni scelto io, che accettai con un pizzico di incoscienza. A
pensarci bene, al tempo, ma anche ora, a sentir nominare Terracini mi
venivano i brividi, provavo un senso di soggezione di fronte a un
uomo di quel calibro, che era stato relatore e firmatario della
Costituzione, eroe della Resistenza e dell’antifascismo oltre che
dirigente del Pci. Mi spettava, dunque, un compito molto importante
che mi rendeva responsabile di fronte a Terracini e all’intero
partito.
Il primo impatto con lui
fu positivo. Non era solo un gran politico ma anche un grande
signore, distinto ed elegante, che sapeva mettere a proprio agio chi
gli stava davanti. La nostra prima uscita fu a Firenze nel 1966. La
città era stata colpita da un’alluvione e l’Italia intera si era
mobilitata per salvare le opere d’arte. Partimmo da Roma e
arrivammo in tarda mattinata, dove ad attenderci al casello
autostradale c’era il segretario regionale della Toscana che lo
mise al corrente della drammaticità della situazione. A causa delle
pessime condizioni in cui verteva la città pernottammo a Fiesole,
dove i compagni toscani ci avevano riservato una stanza.
Il problema fu il letto:
era matrimoniale. Io mi sentivo imbarazzatissimo e allo stesso tempo
terrorizzato dall’idea di condividerlo con Terracini: temevo di
disturbarlo durante la notte, e di non farlo riposare perché, devo
ammetterlo, russo.
Quella sera arrivammo
tardi in albergo per via dei numerosi incontri in Prefettura e in
altri luoghi, fu una giornata davvero pesante, eravamo stanchi e
affaticati. Nonostante ciò non credevo di potermi addormentare, o
almeno di poterlo fare così velocemente. Nel giro di qualche minuto
invece, dopo aver indossato il pigiama ed essermi raggomitolato
sull’orlo del letto, caddi in un sonno profondo.
La mattina seguente,
prima ancora di aprire gli occhi, sentii un profumo di caffè. Mi
svegliai con un colpettino sulla spalla che mi fece sobbalzare, mi
alzai di scatto e mi trovai davanti Terracini che mi disse:
“Buongiorno Alberto, ti ho portato il caffè”. Rimasi senza
parole, avevo davanti un eroe dell’antifascismo che mi portava il
caffè a letto. Quando raccontai questo episodio a mio padre per poco
piangeva dall’emozione perché lo ammirava e stimava moltissimo.
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