Quello di Cartesio era il
secolo delle lettere, che attraversavano l’Europa e tenevano in
costante collegamento gli individui facendo fluire idee, scoperte e
riflessioni. La vita intellettuale si alimentava pienamente di quegli
scritti organizzati e stilati con perizia tecnica e varietà di
registri oggi difficilmente eguagliabili. Cosicché quando Raffaele
Simone ha messo mano alla stesura del suo primo romanzo (Le
passioni dell’anima, Garzanti), ha trovato nell’epistolario
cartesiano magnifici tasselli da incastonare in una storia che fa
luce sugli ultimi mesi di vita dell’autore del Discorso sul
metodo, e lo fa con un linguaggio finemente lavorato, in grado di
restituire tanto l’ampiezza delle campate del pensiero cartesiano
quanto la sottigliezza ammirabile delle sue analisi.
Dopo essere stato
lungamente blandito dalla regina Cristina, il 1° settembre del 1649
Cartesio lascia l’Olanda diretto in Svezia, dove l’11 febbraio
successivo troverà la morte. La storia si costruisce per
intreccio di documenti e
invenzione: lettere autentiche interpolate con testo che l’autore
forgia in forma di pagine di diario, minute di lettere o relazioni,
espediente che vale a rendere più esplicito ciò che accadde in quei
mesi in una Stoccolma assediata da uno dei suoi inverni più rigidi.
Nella finzione narrativa il filosofo acconsente a quel viaggio che si
rivelerà fatale per un atto di vanità. Ma come in un quadro
eseguito con la tecnica del pointillisme, l’occhio di chi si
avvicina è sorpreso da una fitta rete di sgranature. La corte
svedese appare dapprima (e da lontano) come un angolo di paradiso,
nel quale si coltivano la dottrina e l’amore per la cultura, le
lingue antiche e moderne, la filosofia, l’arte. Tuttavia man mano
che l’occhio dell’osservatore si approssima, il castello reale si
rivela luogo della doppiezza e dell’insidia, dove tutto viene
ascoltato, duplicato, falsificato, e la regina che appare dotta e
amante della filosofia svela un profilo imprevedibile: non tratta
Cartesio come un precettore, ma come una preda catturata da esibire.
Sullo sfondo la Guerra dei Trent’anni, la Guerra Interminabile, in
cui spicca il ricordo del saccheggio di Praga e della Wunderkammer
appartenuta a Rodolfo II.
Nel romanzo l’episodio
assume un significato emblematico: la regina ha ordinato e
pianificato quella spoliazione per adornare di quei cimeli e di quei
capolavori la propria reggia. I Correggio assumono anch’essi lo
statuto di prede esemplari e le loro velature un elaborato artificio
efficace in pittura e in politica. Questa la scoperta sconcertante
che amareggia il filosofo che aveva fatto proprio l’ovidiano bene
vixit qui bene latuit: aver lasciato la tranquillità dei propri
studi per finire nel novero delle meraviglie esibite da un sovrano
con il penchant e i furori del collezionista.
Raffaele Simone come un
ebanista ha collocato le varie tarsie in modo da costruire un testo
sfaccettato sul quale la luce andasse a rifrangersi così da rilevare
le diverse angolature che l’intreccio delle relazioni umane va a
configurare. Queste tarsie concorrono a realizzare un oggetto
complesso che si comporta come un meccanismo nel quale agisce un
elaborato sistema di ingranaggi. Prima di partire Cartesio aveva
consegnato al tipografo Le passioni dell’anima, un trattato
dedicato alla sua più fine interlocutrice, la principessa Elisabetta
di Boemia; egli lascia gli studi per affrontare un viaggio lungo e
disagevole che lo porta in un paese dal clima artico, dove gli
uccelli cadono stecchiti sui davanzali delle finestre, dove le più
morbide pellicce non impediscono l’insinuarsi astuto del freddo e
dove aprire una finestra vuol dire farsi trafiggere da una lama di
gelo. Il viaggio mette in moto una serie di conseguenze,
rappresentate dall’autore sotto forma appunto di passioni. Passioni
varie che vengono a insorgere, oltre che nel filosofo stesso (che
deve modificare alcune precedenti asserzioni sull’anima), nella
famiglia che lo ospita (la moglie dell’ambasciatore francese si
innamora di lui), nei cortigiani di Cristina (assaliti da invidia e
gelosia, in primis l’infido Saumaise). Nel romanzo aleggia
il sospetto che Cartesio sia stato assassinato perché la sua fama
oscurava gli uomini dell’entourage regale. Quattro anni dopo quella
morte, Cristina abdica e intraprende un viaggio la cui meta finale
sarà la Roma di Alessandro VII.
Insomma Cartesio,
‘uscito’ da una condizione meridiana che gli ha consentito
l’elaborazione di opere in cui vengono contemplate le ragioni dei
fenomeni, si avventura in un territorio che gli risulta evidentemente
poco familiare, quello ben più concreto della materia, della
politica e della pratica. L’impatto è traumatico e l’estrema
difficoltà nel fronteggiare le asprezze del clima che lo porteranno
alla polmonite e alla morte diventa il segnale eloquente di una
drammatica insufficienza a fronteggiare le prove che la materia e la
politica pongono al matematico. Come se la limpidezza del suo sguardo
si fosse improvvisamente congelata, alla sua mente si ripresentano
ricordi lontani, mentre sui suoi pensieri soffia un nuovo alito
sentimentale. Di fatto Cartesio a Stoccolma non riesce
ad applicarsi ai suoi
studi. Le idee disertano le sue pagine e nelle lettere si affacciano
echi di quanto acquisito in precedenza. Su tutto regna una sorta di
stupore malinconico.
Della nettezza del suo
pensiero è rimasta una struttura vuota, resa percepibile dalla cura
e dal decoro con cui mantiene la propria persona. Un profumo floreale
e un lindore contraddistinguono la sua figura all’interno della
corte, alla quale egli resta profondamente estraneo. Con l’amico
Antonio Machado, pittore e poeta, per la prima volta apprezza il Don
Chisciotte, eppure da quando ha messo piede in Svezia si è
sentito prigioniero. La servitù alla quale si è deliberatamente
assoggettato coincide con il suo ingresso nella ‘polpa’ del mondo
che gli è alieno, quando si è lasciato alle spalle il suo mondo,
sul quale aveva dominato in piena libertà, quello dei punti, delle
linee e delle figure geometriche, mondo infinito e infinitamente
contemplabile.
Questo viaggio insomma
vale come estensione del trattato sulle passioni e la ragione del
romanzo consiste nel mettere in evidenza la portata intellettuale di
quello che è stato un evento biografico. L’invenzione letteraria
di fatto induce a intendere nella scelta del viaggio il passaggio
necessario che porta a sviluppo e compimento un procedimento fino ad
allora restato sul piano teoretico. Il viaggio dal cuore tiepido
dell’Europa cristiana fino alla luteranissima Svezia è allegoria
di un processo sperimentale che Cartesio conduce con un intento non
meno filosofico che morale. Educare una regnante desiderosa di
accostarsi ai principi della filosofia è un’occasione irripetibile
per condurre quei principi astratti sul piano della concreta realtà
politica. Ciò apre la strada alle eventuali implicazioni di questo
testo, il cui autore, linguista e saggista, è intervenuto
pubblicamente su questioni attuali e scottanti relative alla
trasmissione del sapere e al ruolo della cultura nello stato, nonché
sui costumi dell’Italia del pressappoco.
Ma se il romanzo può
essere letto secondo questa direttrice, e dunque inteso come il
frutto di una riflessione sul ruolo pubblico dell’intellettuale e
sulle possibilità che gli studiosi hanno di intervenire
positivamente nei confronti della politica, la conclusione disegnata
dall’autore sembra essere sostanzialmente pessimistica e priva di
speranze concrete. Il sovrano resta lontanissimo, intento com’è al
perseguimento di fini puramente particolari e insofferente ai
richiami dei filosofi e dei loro ammonimenti volti alla
considerazione di prospettive di natura più generale.
ALIAS N. 40 - 22 OTTOBRE
2011
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