Ci sono libri che sfidano
il lettore, proponendogli diversi possibili livelli di lettura. Non è
frutto del caso: l'autore consapevole del mestiere usa mezzi atti a
concedere al lettore questa libertà interpretativa e cooperativa,
oppure, per condurlo obbligatamente dove lui vuole, sceglie una
strada opposta. Questo Via Ripetta 155
di Clara Sereni, la scrittrice perugina d'elezione che è stata
vicesindaco nel capoluogo umbro, uscito a gennaio per Giunti, rientra
nella categoria delle “opere aperte”, per cui può accadere che
si cominci a leggere un libro e si finisca con il leggerne un altro.
La
fascetta parla di un romanzo “tra autobiografia e diario di una
generazione”, sottolineando la relazione, non necessariamente
armoniosa tra individuale e collettivo, tra “personale e politico”,
come si diceva una volta. E tuttavia nel libro non c'è propriamente
autobiografia, visto che è assente la monumentalità che
caratterizza il genere, il progetto cioè di sottrarre il vissuto al
casuale e all'effimero, ricomponendolo e fermandolo in un disegno dai
contorni definiti. E non c'è diario: manca il lirismo che fa quasi
sempre capolino in una scrittura che si finge quotidiana. Tra il
“continuo” della biografia e il “discreto” del diario Sereni
opta per la “tranche de vie”
dell'antico naturalismo, con la mediazione del racconto
cinematografico novecentesco.
Il
ritaglio di vita esposto al lettore riguarda gli anni 1968-1977;
l'ambiente è la gioventù intellettuale del lungo Sessantotto
italiano, denso di eventi e progetti, di assalti e contraccolpi. Il
testo, in prima persona, riguarda esperienze vissute, fa nomi e
cognomi, rievoca momenti e situazioni reali, e tuttavia non è solo o
soprattutto libro di memorie, è nientemeno che un romanzo.
Romanzo-romanzo intendo, capace di sussumere contenuti e linguaggi da
altre forme di comunicazione sottomettendoli alle esigenze del
genere.
Che
razza di romanzo è Via Ripetta?
Vediamo la trama. Per affermare un suo sogno d'arte e d'amore, la
giovanissima protagonista, figlia di una borghesia ebraica che vanta
antico progressismo (il padre è senatore nel partito d'opposizione)
ma è ora chiusa in ristretti orizzonti, va a vivere per suo conto in
una vecchia abitazione in pessimo stato di conservazione, nel cuore
della grande città. Mentre coltiva come progetto di vita la passione
della scrittura, per guadagnarsi il pane quotidiano canta nelle
feste popolari, non senza coinvolgimento ma senza grande talento. Per
arrotondare funge anche da segretaria per una associazione di
cineasti e, all'occasione, da efficiente dattilografa bilingue. E
intanto (beata gioventù!) trova il tempo per la politica,
manifestazioni, assemblee, contestazioni: una vita quotidiana un po'
intasata e con tanta promiscuità, anche sessuale. La casa, con
l'andirivieni e con la fame che la caratterizza, segnala un desiderio
di comunità che difficilmente può giungere ad effetto e per di più
la protagonista cerca l'amore, con tutte le difficoltà del caso. Via
Ripetta è dunque un “romanzo
di formazione”, ed è “centrista” come il Wilhelm
Meister goethiano: il desiderio
non viene né condannato né represso, ma dovrà prima o poi
conciliarsi con il principio di realtà. La ragazza, alla fine,
troverà un modus vivendi
con il padre e la famiglia di origine, al punto di diventarne punto
di riferimento e di equilibrio dopo la morte di costui. Così, dopo
un sogno d'amore impossibile, vivrà una storia finalmente matura e
costruirà una coppia senza matrimonio. Il romanzo si chiude con il
trasloco dalla mini-comune di via Ripetta verso l'appartamento
ereditato in un palazzo nuovo. Il lieto fine non manca anche nel caso
in cui si metta in primo piano l'uccisione simbolica di quel padre
che giudica un romanzo la psicanalisi, e poi quella del maturo
regista di cui la giovane s'è infatuata e che ne costituisce il
doppio. Alla fine di un percorso doloroso il rapporto con il passato
apparirà meno traumatico e la nevrosi più controllabile.
Come
“romanzo politico-sociale”, il libro racconta una delusione, se
non un fallimento. L'assalto al cielo della generazione del
Sessantotto si conclude con una ritirata: l'idea della fratellanza
universale, cui il turbinoso agitarsi dei frequentatori di via
Ripetta sembra tendere, non si realizza, lo Stato non si abbatte e
non si cambia ma continua ad esprimere la sua forza ottusa, il
ricatto del terrorismo funziona e il “gruppo” scoppia come una
coppia: la tensione esplode nella divisione del modesto raccolto di
un ciliegio, che diventa una guerra.
Leggendo
il finale di Via Ripetta mi
sono venuti in mente Germinal di
Zola e Il
clandestino di Tobino;
raccontano, anch'essi, qualcosa che somiglia a una sconfitta. Nel
libro di Tobino, sulla Resistenza, l'epigrafe in poesia recita: “Fu
un amore, amici, /che doveva finire; / credemmo che gli uomini
fossero santi, / i cattivi uccisi da noi.... / Con pena, con lunga
ritrosia, / ci ricredemmo. / Rimane in noi il giglio di quell'amore”.
In Germinal lo
sciopero dei minatori fallisce, ma il giovane agitatore lascia la
città mineraria convinto che la terra è “incinta” della forza
operaia, la quale ben presto “esploderà alla luce”. Il giglio di
Tobino è consolatorio, la “luce” di Zola messianica. Sereni è
più prosaica: “Tutto era pronto per un nuovo passo in avanti. Con
tutte le speranze e utopie ancora – colpevolmente – intatte”.
Finale “riformista”, ma irriducibile: la lotta continua con altri
mezzi.
Io
ho preferito leggere Via Ripetta 155 come
romanzo, privilegiando la costruzione rispetto alla testimonianza, ma
anche chi segue il percorso inverso troverà soddisfazione: ci sono
pagine che ben figurerebbero tra i documenti storici.
Resta una domanda: come fa Sereni a tenere dentro un libro tanta roba senza schiacciare il lettore? Donde viene la “leggerezza” di cui ragionano i critici? Ci vorrebbe un intero saggio per rispondere. Qui mi limiterò ai titoli dei capitoli: “candore” nell'approccio alla realtà, “ironia” nella rappresentazione. E un altro capitolo dedicherei all'arte della digressione: il dramma in poche righe della tossicodipendente Anna, il bozzetto caricaturale (Zavattini a Venezia), la commedia borghese (il pranzo di non-fidanzamento), la pantomima dei cinesi al festival di Cavriago e la tragedia del terrorismo che si fa farsa, proprio a via Ripetta. E c'è poi il nitore della scrittura, precisa, senza svolazzi e trucchi. I primi nomi che mi vengono in mente sono Calvino e Sciascia, subito dopo (dio mi perdoni!) Manzoni. Dipendesse da me metterei Sereni nel canone dei classici. Da viva.
Resta una domanda: come fa Sereni a tenere dentro un libro tanta roba senza schiacciare il lettore? Donde viene la “leggerezza” di cui ragionano i critici? Ci vorrebbe un intero saggio per rispondere. Qui mi limiterò ai titoli dei capitoli: “candore” nell'approccio alla realtà, “ironia” nella rappresentazione. E un altro capitolo dedicherei all'arte della digressione: il dramma in poche righe della tossicodipendente Anna, il bozzetto caricaturale (Zavattini a Venezia), la commedia borghese (il pranzo di non-fidanzamento), la pantomima dei cinesi al festival di Cavriago e la tragedia del terrorismo che si fa farsa, proprio a via Ripetta. E c'è poi il nitore della scrittura, precisa, senza svolazzi e trucchi. I primi nomi che mi vengono in mente sono Calvino e Sciascia, subito dopo (dio mi perdoni!) Manzoni. Dipendesse da me metterei Sereni nel canone dei classici. Da viva.
micropolis, febbraio 2015
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