“La Stampa” pubblicò,
non molti anni or sono, preceduta da un commento di Claudio Gorlier,
una pagina di Kipling inviato speciale sul fronte italiano nel corso
della Grande Guerra di cento anni fa. Posto l'una e l'altro. (S.L.L.)
Esiste un fascino,
travolgente ma non crudele, nel crepitare del fuoco di una
mitragliatrice in pieno combattimento? Leggete le poesie cosiddette
militari di Rudyard Kipling, come le celebrate Ballate della
caserma, e scoprirete di sì. Ma era in buona compagnia. Pensate
che il cattolico Chesterton definì la prima guerra mondiale «il
movimento più genuino e più popolare dai tempi dei cartismo
ottocentesco». Eppure, Kipling era tutt'altro che bellicista, nella
sua visione per così dire popolare dell'impero inglese. Gli
interessavano i soldati, soprattutto i più umili, anonimi. Nessuna
meraviglia, allora, che nelle sue peregrinazioni si sia spinto sul
fronte italiano nella prima guerra mondiale, a scoprire proprio i
soldati anonimi, generosi e insieme, in una prospettiva singolare, a
loro modo creativi, emblematici. Si uniscono così gli uomini, il
paesaggio, l'avventura, e ricordiamoci che in tutta la tradizione
letteraria inglese l'Italia occupa uno spazio privilegiato,
pittoresco, talora banale. Ma Kipling non lo vive in un'ottica
paternalistica; al contrario, i cappelli degli Alpini sono peculiari
di una speciale umanità. Il linguaggio finisce col crepitare come le
mitragliatrici di una delle sue poesie ormai classiche. La loro vita,
la loro energia - non la loro possibile morte, il loro sangue -
sostanziano una vissuta ammirazione. Badate: l'assenza di una
lievitazione epica ci consegna una simpatia partecipatoria
drammaticamente ambigua e al tempo stesso creativamente distante.
Kipling non combatte: non lo vorrebbe, non lo potrebbe. Gli interessa
vivere un mondo e, raccontandolo, reinventarlo. Nella fase successiva
della sua opera, l'ultima, sarà l'assurdo a trionfare. (Claudio
Gorlier)
Alpini delle Alpi Giulie e Carniche
“Gli Austriaci non
apprezzano”
di Rudyard Kipling
Questa è la strada
nuova» mi spiegarono i ragazzi pieni di entusiasmo. «Non l'abbiamo
ancora finita, quindi, se volete, vi accompagneremo a dorso di mulo
per gli ultimi passi, soltanto pochi passi più su». Alzai ancora
gli occhi sulle distese di neve che incombevano dall'alto. La parete
del monte non mostrava più le sue rugosità, ma soltanto guglie e
cuspidi di un disgustoso e uniforme color miele, incrostate come cera
disciolta attorno a una mole principale di viva roccia, una
costruzione imponente che si piegava verso di me. La strada era un
miscuglio di ghiaia e pietre su cui lavoravano squadre di genieri.
Nessuno aveva fretta, nessuno intralciava il vicino e i comandi erano
pochissimi; ma mentre il mulo s'inerpicava per il tracciato tortuoso,
la strada pareva prendere forma da sola. In Svizzera le piste da
slittino erano provviste di una funicolare, che per soli cinquanta
centesimi riportava in vetta gli sportivi e ai piedi della quale si
trovava talvolta una cabina macchine. E un casotto simile era appunto
costruito su una piattaforma ricavata dalla roccia; dentro si sentiva
lo stesso odore di legno grezzo, neve e benzina, e lo stesso
scricchiolio dei ramponi sulla poltiglia del terreno. Al posto della
cremagliera, però, c'era un cavo d'acciaio sorretto da fragili
puntoni, che trasportando un carrello di doppi fili intrecciati
risaliva la parete rocciosa con una pendenza imprecisata. Al
capolinea, 120 o 150 metri piu' in alto (ormai eravamo mezzo
chilometro sopra la mensa degli ufficiali), c'era un tracciato di
sentieri di neve calpestata e melmosa intervallati da cartelli
(simile ai segni lasciati sul muro da una vecchia pianta d'edera
quando viene strappata) che collegava i baraccamenti, la sala cucine,
la mensa degli ufficiali e quella che presumo fosse la piazza d'armi
della guarnigione. Se faceva cadere un secchio, il cuoco doveva
scendere di duecento metri per recuperarlo. E se un visitatore si
sporgeva troppo da un angolo, per ammirare lo splendido panorama, si
rendeva visibile agli austriaci, che non essendo notoriamente cultori
del bello sparavano all'istante una granata. Questo mondo a due
dimensioni, grande come un nido d'aquila, era popolato da giovani
energici e pieni di vitalità, che si affaccendavano intorno alle
tavole, alle putrelle e alle casse di materiale vario appena arrivate
con la funivia; e al di sopra di tutto questo fermento si sporgeva la
montagna imponente, la cui cima distava ancora centinaia di metri.
«Il lavoro vero e proprio si svolge un po' più in alto; soltanto
pochi passi più su» insistevano gli Alpini. Ma io ricordai che fu
Dante stesso ad affermare «come è duro calle lo scendere e 'l salir
per l'altrui scale». Per di più, la loro attività poteva
interessare soltanto il nemico, appostato nei dintorni, e non
consisteva in altro che nella semplice routine della postazione. Così
i soldati lo spiegarono sommariamente al visitatore. Ci si arrampica
su per la fenditura di un camino di roccia (un lavoro di spalle e di
ginocchia, come ben sanno gli alpinisti), preferibilmente di notte,
perché di giorno il nemico cerca di ostacolare l'avanzata
scaraventando pietre. Durante un inverno, una compagnia di Alpini
impiegò quindici notti per risalire uno di questi crepacci; ma del
resto doveva portare con se' mitragliatrici e altro materiale. Quando
si riemerge in cima, operazione che è meglio compiere quando tira un
forte vento o imperversa una bufera di neve, per camuffare il rumore
dei ramponi sulla roccia, ci si ritrova a dominare dall'alto la
postazione nemica; in tal caso la si distrugge, oppure la si isola
dalle vie di approvvigionamento bombardando l'unico sentiero che la
rifornisce; oppure ci si accorge che il nemico è in posizione più
elevata, sopra una cornice o una sporgenza rocciosa non previste. Al
che si ridiscende il crepaccio - sempre che ciò sia possibile - e
ritenta da un'altra parte. Ecco la procedura che si deve sempre
seguire lungo questo tratto di confine, dove il territorio non lascia
altra scelta. Le operazioni speciali vengono svolte con modalità ben
diverse. Si individua la sommità di un monte che si ha motivo di
credere occupato dal nemico e dalle sue strutture difensive. Con le
unghie, i denti e i ramponi si conquista una posizione stabile sotto
la vetta; dopodichè si trivella la viva roccia con le perforatrici
ad aria compressa, per la profondità ritenuta necessaria, pari anche
a centinaia di metri. Al termine, si riempiono i cunicoli con la
nitroglicerina e si fa saltare in aria la vetta. Dopodichè si prende
possesso del cratere il più rapidamente possibile, dislocandovi
uomini e mitragliatrici. Infine la postazione dominante, dalla quale
si possono conquistare altre posizioni con lo stesso metodo, viene
fortificata. «Ma senz'altro voi saprete già tutto. Avete visto il
Castelletto» commentò qualcuno. Il Castelletto si stagliava
illuminato dai raggi del sole, un torrione frastagliato con una
corona di vette simili alle radici di denti molari. La cima più
grossa era scomparsa, lasciando il posto a un baratro, un cratere e
un'ampia frana di pietre demolite. Sì, avevo visto il Castelletto,
ma volevo conoscere gli Alpini che l'avevano fatto saltare in aria.
«Ah, e' stato lui. Quell'uomo laggiù». «Adesso gradireste
ascoltare qualcosa suonato dalla nostra banda?». La banda degli
Alpini, mi dissero, risiedeva sulle cenge rocciose e aveva nel suo
repertorio la marcia del reggimento e quella della Compagnia. A
queste parole, uno di quei ragazzi entusiasti scosse il capo con aria
triste, e commentò: «Gli austriaci non apprezzano: non hanno
orecchio per la musica».
“La Stampa”, 5 maggio 2011
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