L'articolo,
che prende le mosse dall'attualità, utilizza il Manzoni per un
sondaggio sulla “ideologia italiana”passata e presente. Il
risultato è sconfortante. (S.L.L.)
Indignatevi!: nel
corso del 2011 l'appello di un grande vecchio d'oltralpe, Stéphane
Hessel, non è rimasto confinato alla Francia, ha raggiunto l'Italia
e il mondo come un caso editoriale. Editoriale? Ben più di questo,
se è vero che cammin facendo l'imperativo di Hessel ha generato un
soggetto collettivo, ha battezzato un movimento esteso ormai a gran
parte dell'Occidente. Tradotta in spagnolo o in ebraico, in greco o
in americano, «indignazione» si è rivelata la parola decisiva - la
più risonante, la più importante, la più mobilitante - nella
creazione di un esperanto della protesta planetaria: si voglia poi
qualificare quest'ultima come una protesta essenzialmente civile o
intrinsecamente politica, prettamente ideale o fondamentalmente
sociale, genericamente democratica o esplicitamente
anticapitalistica.
Viviamo oggi circondati
dalla retorica dell'indignazione. Ma viviamo anche circondati dal
monito che l'indignazione non è tutto. Un altro grande vecchio,
italiano questo (Pietro Ingrao, n.d.r.), ce lo ha ricordato dalla
copertina di un suo libretto: Indignarsi non basta.
Quand'anche la parola «indignazione» sia valsa a raccogliere nelle
piazze del pianeta un movimento che si definisce, tra cartelli
scritti a mano e slogan lanciati a voce, come quello del «99%» - il
99% dei non privilegiati, un nuovo Terzo Stato riunito non già nella
Versailles del 1789 ma nell'Occidente del 2011 contro i privilegi di
una nuova aristocrazia e di un nuovo clero - risulta chiaro come
l'indignazione da sola non possa bastare. Tanto è vero che contro la
retorica dell'indignazione ha preso piede una retorica opposta, che
non è riuscita a riempire le piazze di Madrid né di Atene, di Roma
né di New York, ma che è riuscita a occupare larghi spazi politici
e mediatici: è la retorica dell'insufficienza dell'indignazione.
Impossibile provare qui a
sciogliere questo nodo, il nodo gordiano della necessità come
dell'insufficienza dell'indignazione. Più praticabile un obiettivo
altrimenti modesto, e più consono a chi di mestiere fa lo storico:
cercare nel passato - qui, nel passato italiano - tracce pregresse
del significato e del valore della parola, «indignazione», così
improvvisamente (e sorprendentemente) assurta agli onori delle nostre
cronache. E motivata la scelta di cercare tali tracce non in un libro
qualsiasi di un autore qualsiasi, ma nel libro più letto dell'autore
che autorevoli critici considerano lo scrittore più rappresentativo,
o comunque un interprete fra i più sensibili, di qualcosa come il
nostro carattere nazionale: nei Promessi sposi di Alessandro
Manzoni.
È una ricerchina
semplice semplice, per compiere la quale non occorre neppure
rileggersi tutto il romanzo, non occorre sciropparsene i trentotto
capitoli da cima a fondo. Compiici i database e i motori di ricerca,
una ricerca del genere ha bisogno appena di pochi clic sul mouse del
computer. Eppure l'esercizio può trascendere la soglia del
divertissement. Nella misura in cui Manzoni, il grande
scrittore, è stato anche un antropologo dilettante, che ha voluto
rappresentare nei personaggi principali del suo romanzo altrettanti
tipi umani (più esattamente: altrettanti tipi italiani); e nella
misura in cui il grande scrittore antropologo dilettante è stato
anche un ideologo, che ha voluto produrre un'interpretazione politica
dell'italianità, allora i pochi clic sopra un'edizione digitale dei
Promessi sposi promettono di riuscire discretamente
istruttivi.
Mi sono dunque preso la
briga di cercare nel romanzo italiano per antonomasia la parola
chiave del nostro tempo, «indignazione». Anzi, più precisamente:
«indegnazione». Perché in questo modo, con la «e», Manzoni
scrive la parola nei Promessi sposi. Scelta in se stessa
notevole, perché lo scrittore la fa entrare così in risonanza con
un'altra parola che, letteralmente, vale da suo contrario:
«degnazione». Beninteso, può anche darsi che Manzoni non ci abbia
pensato affatto. Può darsi che scrivendo «indegnazione» (mentre
«la gente colta - spiegava un suo contemporaneo, Niccolo Tommaseo,
nel Dizionario della lingua italiana - dice il più sovente
"indignazione"») Manzoni non abbia inteso far entrare in
risonanza un bel nulla, tanto più che nel romanzo entrambe i lemmi
sono presenti con il contagocce. Sia come sia, al computer le
ricerche di parole in automatico possono schiudere orizzonti non
intravisti in precedenza. Nel caso in questione, partire alla caccia
dell'«ind(e)gnazione» nei Promessi sposi mi ha portato
dritto dritto sulle tracce della «degnazione», che - a conti fatti
- si rivela essere nella semantica manzoniana una parola tutt'altro
che banale.
Il gioco della degnazione
e dell'indegnazione è forse un gioco a somma zero, dove il guadagno
dell'uno corrisponde aritmeticamente alla perdita dell'altro. Di
sicuro, al nostro orecchio di moderni la parola «degnazione» suona
relativamente rara, sicché vale la pena di evocarne qui il
significato. Nel suo famoso Dizionario Tommaseo la definiva come
segue: «Modo di riverenza più o meno sincera, e particolarmente
[verso] gl'inferiori». Cioè (leggendo Tommaseo fra le righe): la
«degnazione» come via di mezzo fra un omaggio sottolineato e una
malcelata compiacenza. Al giorno d'oggi, piuttosto che il sostantivo
noi usiamo il verbo: «degnare» qualcuno di uno sguardo, «degnarsi»
di fare qualcosa. Si tratti di sostantivi o di verbi, per capire
l'Italia di Manzoni - e soprattutto per capire l'Italia di oggi -
guardare al mondo della degnazione è altrettanto necessario che
guardare al mondo dell'indegnazione.
Nei Promessi sposi
la parola «indegnazione» compare sei volte, e rimanda spesso (tre
volte sulle sei) a quella che un lettore particolarmente acuto del
romanzo, Ezio Raimondi, ha definito «la morale di fra Cristoforo».
Nel capitolo IV, è l'«indegnazione santa» che Manzoni attribuisce
al padre cappuccino quando questi apprende del sopruso di don Rodrigo
ai danni della giovane Lucia. Nel capitolo VI, è l'indegnazione
«trattenuta a stento» e poi «traboccante» dello stesso fra
Cristoforo al cospetto di don Rodrigo, dopo che quest'ultimo ha osato
invitare il frate a porre Lucia sotto la sua protezione. Nel capitolo
IX, è l'indegnazione riflessa che Manzoni attribuisce al padre
guardiano del convento di Monza mentre legge il biglietto di fra
Cristoforo che lo prega di ospitare Lucia. Nel capitolo XXI, è
l'«indegnazione disperata» di Lucia stessa davanti all'Innominato,
prima della conversione di quest'ultimo. Nel capitolo XXV, è
l'indegnazione dell'opinione pubblica del territorio di Lecco verso
le malefatte di don Rodrigo, un'in degnazione resa timida dal calcolo
e muta dalla paura. Nel capitolo XXIX è l'indegnazione
dell'Innominato, dopo la conversione, verso le sue proprie colpe di
ex uomo malvagio.
Anche la parola
«degnazione» compare sei volte nei Promessi sposi (quasi a
confermarci nell'idea che questo sia un gioco a somma zero), e
appartiene essenzialmente a quello che Ezio Raimondi ha chiamato «il
codice di don Abbondio». In effetti, se pure Manzoni impiega il
lemma tre volte nella sua qualità di narratore - nel capitolo IV,
per definire l'atteggiamento del fratello di colui che Lodovico (il
futuro fra Cristoforo) aveva ucciso in una disputa; nel capitolo VII,
per qualificare la «degnazione contegnosa» degli altri signorotti
di Lecco verso la figura di don Rodrigo; nel capitolo XVIII, per
definire i riguardi del conte duca verso il conte zio - quando
sceglie di attribuire la parola «degnazione» al discorso diretto di
un personaggio, Manzoni la mette in bocca unicamente al suo curato, a
don Abbondio. E gliela mette in bocca in tre luoghi strategici del
romanzo.
Nel capitolo XXIV, è la
degnazione che don Abbondio riconosce all'Innominato dopo che questi
si è provvidenzialmente convertito, ha deciso di proteggere Lucia, e
aiuta il curato a salire sulla mula: «"Oh che degnazione!"
disse questo; e montò molto più lesto che non avesse fatto la prima
volta». Nel capitolo XXXVIII, è la degnazione che don Abbondio
imputa a don Rodrigo, dopo la morte di questi a causa della peste:
«Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con
quell'albagìa, con quell'aria, con quel palo in corpo, con quel
guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua
degnazione». E nel medesimo capitolo - l'ultimo del romanzo - è la
degnazione che don Abbondio riconosce sia all'inarrivabile cardinal
Federigo sia al «signor marchese» (l'erede del potere di don
Rodrigo), per averlo mandato a salutare: «Oh che degnazione di
tutt'e due!».
Non stupisce riscontrare
nei Promessi sposi una contrapposizione così netta tra il mondo
dell'indegnazione e il mondo della degnazione: riesce normale, dal
momento che la degnazione rappresenta - almeno lessicalmente - il
contrario dell'indegnazione. Piuttosto, colpiscono da un lato la
tonalità stilistica, dall'altro la cifra ideologica che Manzoni
riserva alle due parole. Quanto alla tonalità, è significativo il
fatto che la parola «indegnazione» risulti, in tutte e sei le sue
occorrenze, una parola del narratore; che non appartenga cioè al
discorso diretto di nessuno dei personaggi, ma sia sempre parola di
Manzoni come voce fuori campo. Sotto tali condizioni, peraltro,
l'indegnazione viene immancabilmente riferita a figure positive del
romanzo: il più delle volte, al personaggio ultrapositivo di fra'
Cristoforo. La parola «degnazione» risulta invece, nella metà dei
casi, un "virgolettato". E in ciascuno di tali casi è
parola diretta di don Abbondio, il quale (ha notato ancora Raimondi)
rappresenta il personaggio in assoluto più "dialettale"
dei Promessi sposi, cioè quello da cui il narratore tiene a prendere
un massimo di distanza critica.
Siccome il cuore di
Manzoni batte evidentemente per la figura di padre Cristoforo, non
certo per quella di don Abbondio, dovremmo forse concludere che il
cuore di Manzoni batte per l'indignazione e non per la degnazione?
Nulla di meno sicuro. Perché un conto è la tonalità stilistica dei
Promessi sposi, altro conto è la cifra ideologica. Senza dire
che l'intreccio del romanzo, il plot, conterà pur qualcosa...
Conterà pur qualcosa il fatto che alla fin fine padre Cristoforo
muore, mentre don Abbondio sopravvive. Come a suggerire - anche
questo è «sugo di tutta la storia» - che nella vita (o almeno
nella vita di quaggiù, nella vita terrena se non nella vita eterna)
l'indegnazione non premia, la degnazione sì. E lo scrittore
antropologo ideologo Alessandro Manzoni non ci trova, in ultima
istanza, niente da ridire. Che il gioco sia a somma zero, e che
l'indegnazione perda, sembra rientrare agevolmente nella sua
concezione provvidenzialistica del mondo e della storia.
Cattolicamente provvidenzialisti-ca, e politicamente conservatrice.
Così, se il mio piccolo
esercizio di lettura ha un senso, se la centralità ottocentesca di
Manzoni dice qualcosa dell'Italia di allora e annuncia qualcosa
dell'Italia di oggi, il gioco dell'indegnazione e della degnazione
nei Promessi sposi ci interpella: parla anche a noi, e di noi.
Appunto perché il criterio di giudizio di Manzoni è ancora il
nostro, o comunque è quello di tanti italiani intorno a noi. L'onore
delle armi a fra Cristoforo, l'onore della vittoria a don Abbondio. A
fra Cristoforo la parola accorata, a don Abbondio la parola finale.
Forse, l'Italia è il
paese in cui la morale di fra Cristoforo deve ancora e sempre cedere
il passo al codice di don Abbondio: un codice - un criterio - che
giudica in negativo la degnazione del potente verso gli inferiori
soltanto a corpo morto (soltanto quando don Rodrigo è stato
«scopato» via dalla peste), mentre la giudica in positivo finché
il potente è vivo: sia questo l'Innominato o l'arcivescovo o il
signor marchese. L'Italia è il paese in cui una minoranza più o
meno virtuosa risponde all'appello Indignatevi!, ma dove una
maggioranza più o meno silenziosa continua a chiedere ai potenti -
siano questi politici della Repubblica o presuli del Vaticano -
niente più che una parola di circostanza, o un gesto di etichetta.
Chiede insomma ai potenti un omaggio di maniera, che nasconde (o
piuttosto non nasconde) l'asimmetria della forza.
Degnatevi! L'Italia è il
paese di chi, come don Abbondio, pretende dai potenti giusto di
essere mandato a salutare, oppure - al massimo - di essere aiutato a
salire sulla mula.
«MicroMega», dicembre
2011 ora in Storia comune. Nuovi interventi,
manifestolibri, 2014
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