Nel giugno 2013, per la
ricorrenza dei 200 anni dalla nascita di Giuseppe Verdi (1813-2013),
il Festival del Maggio Musicale Fiorentino ripropose, con la regia di
Graham Vick e diretto da James Conlon, il Macbeth verdiano al
teatro della Pergola, che ne aveva ospitato la prima rappresentazione
assoluta in Italia, nel 1847.
Per l'occasione la
rivista on line “Drammaturgia” propose un documentato e
appassionante saggio di Siro Ferrone sulla fortuna italiana
dell'opera shakespeariana. Senza le note (puntualissime e
recuperabili nel sito originario del testo) al fine di una lettura
più sciolta, lo “posto” qui, pensando di fare cosa gradita a
qualchedun altro, oltre che a me stesso. (S.L.L.)
Adelaide Ristori |
In Italia le prime
significative rappresentazioni delle opere di Shakespeare sono
successive alle traduzioni di Michele Leoni (1819- 22, in 14 volumi)
e di Carlo Rusconi (1838, in 2 volumi). Nel 1841 una compagnia di
tutto rispetto – capeggiata da Achille Majeroni – allestì Otello
al teatro dei Fiorentini di Napoli. L’anno dopo la tragedia fu
ripresa, senza successo, dal maggiore attore italiano del tempo,
Gustavo Modena, al teatro Re di Milano. A partire dal 1843 (e fino al
1855) Giulio Carcano cominciò a pubblicare le traduzioni –
destinate a una notevole circolazione – di molte opere
shakespeariane.
Ma fu il felice esito del
Macbeth di Verdi al teatro della Pergola di Firenze, il 14
marzo 1847, a determinare il vero e proprio inizio della fortuna del
grande drammaturgo inglese. Il successo si riverberò ben presto
anche sulle scene del teatro di prosa. Proprio quell’anno Adelaide
Ristori e Tommaso Salvini recitarono insieme (la collaborazione
resterà praticamente un unicum nella carriera dei due divi)
in Giulietta e Romeo. Due anni dopo, a febbraio, fu Alamanno
Morelli a rappresentare il Macbeth, prima al teatro Carignano
di Torino e poi in altre città italiane, tra cui Milano, in
concomitanza con la ripresa dell’opera di Verdi alla Scala.
Adelaide Ristori, attrice shakespeariana
A dispetto della
crescente moda e nonostante la precedente e fortunata esperienza con
Salvini, consapevole dei limiti delle compagnie di cui poteva
disporre, Adelaide Ristori – all’inizio degli anni Cinquanta la
più acclamata delle attrici italiane – esitò a lungo prima di
affrontare da sola un’opera di Shakespeare, soprattutto in
considerazione della ridotta presenza di protagoniste femminili in
quel teatro. L’avvicinamento a Macbeth avvenne – secondo
quanto lei stessa ebbe a rivelare nei suoi scritti – in seguito ai
consigli degli impresari inglesi. Questi l’avrebbero incoraggiata,
spiegandole che loro stessi, per tradizione, «operando vari tagli,
adattavano la produzione non solo alla capacità ed al numero degli
attori e delle diverse Compagnie, ma pure al gusto ed alle esigenze
del pubblico».
Così il 3 luglio 1857,
al teatro Covent Garden di Londra, l’attrice mise scena un Macbeth
accorciato e adattato per l’occasione e a sua misura, sulla base
del testo tradotto da Carcano. A Parigi, un mese prima (il 6 giugno
1857), dopo i tre atti della Maria Stuarda di Schiller, la
Ristori aveva collaudato le sue forze interpretando una sola scena
della tragedia, quella del Sonnambulismo di Lady Macbeth, destinata a
rimanere una memorabile “aria” del suo repertorio e una tappa
significativa dello spettacolo italiano dell’Ottocento. La
messinscena londinese non ebbe tuttavia un’accoglienza trionfale,
complice la proverbiale diffidenza degli isolani nei confronti della
recitazione latina. E tuttavia le pose statuarie della protagonista
furono molto apprezzate. Alla conclusione di ogni atto infatti la
Ristori si compiaceva «to let the curtain fall on a sculptural
epigram» mentre la scena del sonnambulismo le consentiva di
esibirsi in un «pictorial monument» recitato «in an
under-tone, never once raising her voice». Insomma una
compiaciuta e applaudita galleria di «pose sceniche».
Dell’interpretazione
del Sonnambulismo della Ristori un ricordo nitido rimase anche nella
mente di Giuseppe Verdi che così la ricordò, scrivendo
all’impresario Léon Escudier, da Genova, l’11 marzo 1865: «chi
ha visto la Ristori sa che non si devono fare che pochissimi gesti,
anzi tutto si limita quasi ad un gesto solo, cioè cancellare una
macchia che crede aver sulla mano. I movimenti devono essere lenti, e
non bisogna vedere fare i passi; i piedi devono strisciare sul
terreno come se fosse una statua, od un’ombra che cammini. Gli
occhi fissi, la figura cadaverica; è in agonia e muore subito dopo.
La Ristori faceva un rantolo; il rantolo della morte. La musica non
si deve, né si può fare; come non si deve tossire nell’ultimo
atto della Traviata; né ridere nello Scherzo od è follia
del Ballo in maschera. Qui vi è un lamento del corno inglese
che supplisce benissimo al rantolo, e più poeticamente».
Non mancarono invece,
allora e in seguito, le riserve nei confronti dei protagonisti
maschili che affiancarono la Ristori, spesso ridotti al rango di
semplici comprimari. C’è da dubitare che la grande attrice si
attardasse nella ricerca di un partner alla sua altezza, di un
Macbeth degno della Lady che doveva comunque primeggiare. A
proposito del primo di questi Achille Majeroni – di cui conosciamo
le benemerenze shakespeariane, peraltro discretamente apprezzate
dalla critica – si limitò a dire: «Majeroni è un miserabile, è
un nulla, un borioso ignorante, è privo di criterio, non è neppure
un istrione perché manca di spirito, non mi fa una controscena, non
crea, non comprende, prova per forza. […] Non conosce che l’urlo,
null’altro». Majeroni restò con lei fino al 1861, sostituito poi
da Luigi Pezzana (fino al 1865), quindi da Giacomo Glech e poi ancora
da Michele Bozzo: tutti vittime del vampirismo della grande attrice.
A ristabilire (almeno in parte) la verità, può servire la lettura
di un breve stralcio di una recensione apparsa sulla «Gazzetta
Uffiziale di Venezia», giovedì 9 settembre 1858: «nel Macbeth
la parte fu più del Majeroni che sua; ella ebbe non di meno anche
qui momenti felicissimi; ma con tutto il rispetto, che noi al suo
gran nome e alla sua grand’arte portiamo, ad onta dei vivissimi
applausi, che le diedero ragione, crediamo ch’ella un tantino
esagerasse nella scena del sonnambulismo e col tuon della voce e col
gesto; né desse per altra parte tutto il colore ad alcune immagini,
come quella bellissima, che tutti i profumi d’Arabia non varrebbero
a levar l’odore del sangue a quella mano, benché tanto piccola.
L’effetto talora si perde per troppo volerlo. In questa parte del
Macbeth […] il Majeroni si mostrò quell’ottimo attore,
che altre volte conoscemmo e ammirammo».
Liberata dei suoi
partners maschili, per tutta la carriera Adelaide Ristori poté
invece conservare nelle sue serate speciali (le cosiddette
«beneficiate») la prediletta «aria da baule» del Sonnambulismo,
recitata anche in inglese nel 1873. Nella lingua originale la
versione integrale della tragedia fu affrontata dall’attrice
italiana solo nel 1882 a Londra; ma anche qui il partner protagonista
fu scelto badando a che non la disturbasse troppo: William Rignolt
era un bell’uomo «de belle taille» ma «d’une nature
un peu neutre», così privo di personalità («[il] n’a pas
trop individualité») che la sua interpretazione fu un disastro; né
andarono meglio i sostituti che subentrarono: ogni volta, dal
confronto, Adelaide doveva e poteva uscire vittoriosa. Sempre.
Gli eccessi di Ernesto Rossi
Se Lady Macbeth aveva
piegato al suo potere di mattatrice ogni pretendente partner maschile
ancor prima di entrare in scena e ancor prima di piegarlo alla sua
volontà omicida nella finzione, altrettanto avevano fatto, nei
confronti della regina sanguinaria, i mattatori maschili che si erano
vestiti dei panni del re usurpatore nel corso del secolo XIX. Così
era stato per Gustavo Modena, nel 1842, così sarà per Ernesto Rossi
che fu Macbeth nel 1858 al teatro Apollo di Venezia nella
prima di una lunga e fortunata serie di rappresentazioni: alcune di
queste si svolsero a Firenze il 4, 5 e 17 gennaio 1860 ed ebbero la
fortuna di incontrare le recensioni del grande Carlo Collodi che
sulle pagine de «La Nazione» mise a confronto Rossi e Shakespeare:
«uno ha completato l’altro: si sono intesi, indovinati: hanno
creato insieme una figura strana, insolita, un miscuglio bizzarro
d’ambizione e di crudeltà; di pentimenti e di disperazione; di
codardia e di coraggio»; Rossi apparve dotato di «un’intelligenza
finissima, un tatto squisito, una forza d’intuizione capace di
comprendere e d’indovinare le più ardite concezioni dell’arte».
Analoghi elogi l’attore
raccolse in occasione della tournée viennese del 1879: «com’era
impressionante […] la sua fatica nel dover varcare per la seconda
volta la soglia della stanza dell’assassinio, l’inciampo sui
gradini e infine il precipitarsi dentro a forza! Difficilmente un
processo psichico potrà essere restituito nella sua più chiara
evidenza sensibile di come è stato fatto qui». Ma sorprendentemente
il critico viennese parve elogiare, più che il protagonista, la
comprimaria Graziosa Glech: «un genio della raffigurazione di una
donna che della donna sembra non avere nulla e che in quanto a lucida
energia giganteggia sull’uomo. Figura tarchiata, tratti affilati,
sguardo che fulmina, demoniaco […]. Fa gelare il sangue il modo in
cui sussurra al proprio consorte i malvagi propositi; come gli si
avviticchia […]; come poi, dopo che Duncan è stato ucciso e
Macbeth non ce la fa a rientrare sul luogo del delitto, gli strappa i
pugnali di mano e come un turbine […] si precipita a sporcare di
sangue il volto delle guardie […] L’attrice è maestra nell’arte
del silenzio. Ciò che ella sogna nel sonnambulismo lo si capisce
ancor prima che abbia dato voce al suo sentire. E le parole che
confuse escono gementi dal petto hanno un suono così soffocato,
risuonano e si spengono in modo così profondamente triste».
A riequilibrare gli elogi
pensò bene il critico della «Neue Freie Presse», Ludwig Speidel
che apprezzò l’estensione sensuale e musicale della voce del
protagonista maschile, abile nel trascorrere dalla voce tenorile a
quella del basso: «tutto in lui parla e ci convince, e sebbene la
mimica facciale sia meno varia di quella del corpo, pure si rivela
ricca di stile e comprensibilissima nella sua semplicità. Tutte
doti, queste, che ce lo fanno riconoscere come figlio di quel popolo
in cui è nato il genio plastico e pittorico. Le sue mani sono piene
di virtù drammatiche; le dieci dita, un alfabeto capace di comporre
molte parole»: un elogio del temperamento latino che in realtà
avvalora – ai nostri occhi – quanto aveva osservato qualche anno
prima (1876), con sguardo ben più scettico, Henry James in occasione
delle recite londinesi: «sul palcoscenico Rossi possiede una figura
superba, e di quando in quando un suo grido, un movimento, uno
sguardo vanno direttamente al punto; ma, nell’insieme, penso che il
suo Macbeth sia un lavoro decisamente pasticciato. […] La
scena dell’assassinio di Duncan era sfigurata dai più assurdi
effetti di ventriloquio nella parte del tremante barone, che tentava
accuratamente di dare a sua moglie un’idea di come suonassero le
voci delle guardie addormentate. […] Quando lascia la stanza con la
moglie, dopo la partenza degli ospiti, Macbeth s’impiglia nel lungo
mantello, inciampa, cade e si rigira con i piedi in aria. […] È
una capriola ben fatta, senza dubbio, ma non penso che possa essere
chiamata recitare Shakespeare». Come il suo collega austriaco anche
il critico inglese aveva reso omaggio all’interprete di Lady
Macbeth, Graziosa Glech: «questa oscura artista meridionale è
superba. Dovreste vedere il gesto con cui, nella sua richiesta alla
natura di “strapparle il sesso”, pronuncia il grande “ferma,
ferma!” – o quelli in cui, per far tornare in sé Macbeth prima
che siano entrati gli ospiti che hanno bussato al portone, lo scuote
o lo afferra per il colletto».
Nessuno degli eccessi di
Rossi macchiò invece le interpretazioni del contemporaneo Tommaso
Salvini che superò indenne il severo giudizio degli inglesi, secondo
il resoconto di un critico d’eccezione come Robert Louis Stevenson
che parlò di «emphatic success» e paragonò quella ad altre
brillanti interpretazioni (Otello, Amleto) dello stesso
artista. Eppure non mancarono alcuni goffi incidenti: come quando,
«al termine della scena delle apparizioni l’adattamento italiano
ha fatto cadere Macbeth svenuto sulla scena» e – ancora peggio –
volendo colmare il vuoto di azione si è provveduto a far uscire «un
gruppo di ballerine vestite di verde che ha danzato sulle punte
attorno al re disteso per terra. Una danza di prelati religiosi o un
ballo di marinai […] non avrebbe stonato di più […]: in un
teatro di Londra una simile irruzione di fatine natalizie avrebbe
scatenato un’irrefrenabile risata dalla platea alla galleria».
Carmelo Bene e Vittorio Gassman
È, questo,
l’inconfondibile marchio di fabbrica del teatro mattatoriale
italiano, destinato a durare anche nell’epoca della regia
novecentesca fino al nostro contemporaneo Carmelo Bene che tra il
1961 e il 1997 ha interpretato numerose volte Shakespeare: oltre ad
Amleto (sei edizioni), Romeo e Giulietta (una
edizione), Otello (una edizione), Macbeth è stato
allestito due volte (nel 1982 e nel 1996). In entrambe le occasioni
l’attore pugliese curò anche il disegno delle scene e dei costumi,
oltre che la scelta dei brani musicali. Come si può vedere dai
copioni conservati e dalle registrazioni video, in quei casi il testo
venne triturato, smozzicato, a lungo deformato, fino a essere
ridotto, in alcuni luoghi, a puro fonema (l’attore parlò di
«variazione fonetica umorale»). Il sofisticato impianto di
amplificazione da una parte riecheggiava il caos mostruoso delle
streghe shakespeariane e dall’altra intendeva evocare il confronto
con il campione verdiano. Gran parte delle musiche di scena furono
infatti ‘cavate’ dal melodramma per enfatizzare l’estasi e il
tormento esibiti dall’attore che – con estenuate controscene e un
roteare d’occhi che avrebbe fatto invidia a Rossi, Salvini e
Ristori messi insieme – se ne serviva per mostrare la sua
inadeguatezza di epigono ultimo di quella tradizione. Era il
controcanto del melodramma, il congedo, l’ammissione di un
fallimento, ovviamente compiaciuto, secondo la poetica postmoderna.
Alla miserevole e catastrofica ambizione dei due sovrani parvenus
corrispondevano i conati del primo attore abusivo. Il suo delirio non
era solo dettato dal rimorso per l’omicidio, ma anche dall’angoscia
di chi, invano, insieme alla partitura verdiana, inseguiva i fantasmi
dei grandi attori ottocenteschi; senza riuscire a replicarli,
disegnando semmai l’inevitabile parodia di una tradizione
irripetibile.
Alla stessa tradizione si
era accostato, aspirando a imitarla, ovviamente a modo suo, in un
sottaciuto spirito di competizione – se non di antagonismo – nei
confronti di Carmelo Bene, un altro grande attore, Vittorio Gassman.
Nella produzione realizzata in occasione del 46° Maggio Musicale
Fiorentino del 1983, il principe dei «mattatori», oltre che
protagonista, fu anche traduttore del testo e regista. La prima
analogia con la prova di Bene, ovviamente anche sollecitata dal
contesto del Maggio, riguardò l’impianto sonoro. Gassman
predispose – con la collaborazione del musicista Gianandrea Gazzola
– un «fiume di irrazionalità fonica» – sono parole del
migliore critico teatrale del secondo Novecento, Roberto De
Monticelli – orchestrato in maniera tale che la voce di Macbeth e
delle streghe arrivasse «da diversi punti della sala, contratta e
come sintetizzata in fonemi, misti a percussione (…) un fiume
oscuro (…) che [continuava] a lampeggiare, a tratti, per tutta la
durata dello spettacolo, con riprese di battute, voci misteriose
provenienti da zone remote dello spazio in cui siamo immersi,
percussioni, musicalità e ritmi anomali». La seconda analogia
riguarda la messa in rilievo e l’isolamento dei grandi pezzi «per
attore solista» che anche Gassman volle sottolineare in forma di
«arie». Non mancò neppure l’esplicito omaggio al teatro della
tradizione ottocentesca: come quando Macbeth «ormai privo di vita,
manichino grottesco, viene in qualche modo recuperato dalle streghe
come un reperto macabro e inabissato in un crepaccio della terra tra
fumi infernali».
Questa e altre scene
parvero avvicinarsi agli effetti di un teatro di grana grossa, da
grand guignol: come la grottesca apparizione di Banquo,
l’inabissarsi in un crepaccio del cadavere del tragico eroe o la
trasformazione a vista di re Duncan che, una volta ucciso, risorgeva
e si trasformava nella figura del Portiere del Castello. Ma
l’interesse maggiore dello spettacolo fu forse la prova di Anna
Maria Guarnieri come Lady Macbeth, capace di recuperare e innovare la
lezione della Ristori: oltre che nella scena del sonnambulismo, anche
nel resto della sua interpretazione, fu straordinariamente moderna
perché passionale e sincopata, viscerale e mentale a un tempo,
elettrica e nevrotica. Eppure, a dispetto di queste qualità, non
essendo più il tempo di Adelaide Ristori, allora non si parlò altro
che del «mattatore» che pure rispetto a Carmelo Bene aveva
concesso, se non le «pari opportunità» un certo maggior rilievo
alla partner femminile.
Il Macbetto di Testori per la regia di Franco Parenti (il primo a destra) |
Nuove messe in scena
Pretese di collocarsi
piuttosto dalla parte di Carmelo Bene, Gabriele Lavia avendo al suo
fianco – come Lady Macbeth – nel 1987 Monica Guerritore e poi,
nel 2009, la più giovane Giovanna Di Rauso, in un’altra
reincarnazione della tradizione «grand’attorica». Qui Lavia fu
infatti ridondante, fluviale e barocco come Bene, disponendo, dentro
una cornice musicale incessante (solita allusione al melodramma),
tutto il trovarobato di quinta, camerino compreso. Ma fu anche
epigono di Gassman, alludendo alla figura del protagonista come a un
mattatore teatrale (etimo, del resto, derivato dallo spagnolo
matador: assassino) pronto ad esibire tutte le pose sceniche
previste dal prontuario ottocentesco, dall’inizio alla sequenza
delittuosa fino alla narcisistica catastrofe, celebrata in gloria.
Emulo della stessa
tradizione fu anche Glauco Mauri (la prima volta nel 1971, poi nel
1981), che non a caso apparve – come scrisse un critico in
occasione della prima rappresentazione – «spaventosamente solo».
La sua prova venne assottigliando lo spessore di tutti gli altri
personaggi, a cominciare da Lady Macbeth (interpretata la prima volta
da Valeria Moriconi per la regia di Franco Enriques; la seconda volta
da Maddalena Crippa per la regia di Egisto Marcucci): conseguenza, in
entrambi i casi, di una debole direzione dell’ensembe
rispetto al primo attore. Mauri attirava su di sé tutto il fuoco
dello spettacolo mediante una tecnica “in levare”: una follia
teatralizzata dal viso esageratamente sbiancato dal trucco faceva
esplicito richiamo alla più ingenua convenzione ottocentesca; e
tuttavia, rispetto a questa, una voce ostentatamente agra, quasi
“stonata”, apriva un baratro di lontananza, con un’accentuazione
nevrotica opposta a quella ottenuta da Carmelo Bene.
La lettura
antimelodrammatica venne spinta alle estreme conseguenze nel 1974 dal
protagonista Franco Parenti al salone Pier Lombardo di Milano
nell’interpretazione del Macbetto di Giovanni Testori,
traduzione e adattamento del testo shakespeariano in un bizzarro e
fantastico linguaggio in cui risuonano le parlate della Lombardia
orientale. A pareggiare i “soprusi” del mattatore maschile –
nel Novecento troppo spesso indisturbato protagonista scenico
rispetto alla complice sanguinaria – la regia fu di una donna
(Andrée Ruth Shammah) la quale volle enfatizzare «con forti blocchi
narrativi il lungo duello tra la femmina-maschio e il
maschio-femmina: Francesca Benedetti, fulva e torva», apparve
«animata dalla forza di un elemento sradicatore» ma anche
contrassegnata da tratti parodici («immagine parodistica di una
furia»), mentre Franco Parenti «in un travestimento grottesco»
colmava da par suo la scena con «una valanga di parole, di volta in
volta ossessiva, ritmica, spezzata, secondo i canoni di una fanatica
musicalità sofferente» ancora in linea, quest’ultima, con la
tradizione italiana inaugurata dai grandi dell’Ottocento.
La coloritura italiana
delle riletture shakespeariane è ancora più evidente se la si
confronta con i risultati di spettacoli allestiti in Italia da
registi e attori stranieri. Si tratta spesso di visioni del tutto
antitetiche rispetto alla cultura del grande attore. Può bastare
osservare quanto fatto, più di recente, dal regista lituano Eimuntas
Nekrosius operando tanto sul testo shakespeariano (Macbetas è andato
in scena prima a Vilnius in Lituania e poi al teatro Biondo di
Palermo, nel 1999) quanto sul libretto e sulla musica di Verdi
(allestimento del Maggio Musicale Fiorentino del 2002). Nella
versione recitata, in coerenza con la sua poetica in azione, il
regista dava forma alla tensione drammatica mediante uno stile
plastico (e coreutico) notevolmente alleggerito dei toni cupi e
sanguinari di cui la tradizione circonda i crimini dell’usurpatore
scozzese. Alla versione light collaboravano non poco le tre
attrici che – a differenza del costume abituale che le vuole
vecchie e laide – incarnavano tre streghe giovani e belle
incaricate di preannunciare il tragico destino al protagonista:
comparivano perciò non solo le due volte previste da Shakespeare, ma
più di frequente, con una funzione di vere e proprie «serve di
scena», tracciando un filo conduttore dell’azione nient’affatto
lugubre o lamentoso – come spesso è dato di vedere –,
annacquando la densità sanguinaria del testo, peraltro così
abilmente tagliuzzato da assumere i caratteri di uno svelto libretto
d’opera.
La successiva regìa
lirica dello stesso Nekrosius al Teatro del Maggio Musicale ricalcò
gli stilemi dello spettacolo di prosa anche se con una vistosa
dilatazione degli effetti scenografici: due colline costituite di
corda di canapa di lunghezza spropositata, mille metri di cavi di
metallo contro un fondale nero sfregiato da uno squarcio luminoso.
© drammaturgia.it
Pubblicazione sul web 14 giugno 2013
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