Il
testo che segue è un ampio stralcio della prefazione di Camilleri al
libro di Enrico Falconcini Cinque mesi di prefettura in Sicilia
(Sellerio 2002),
ripubblicata con il titolo Il
primo prefetto di Girgenti in
Come la penso (Chiare
lettere, 2013), una gustosa e interessante raccolta di scritti
d'occasione dello scrittore siciliano, la cui lettura vivamente si
consiglia. (S.L.L.)
Quando
il nuovo prefetto di Girgenti, cavalier Enrico Falconcini, mise
piede, alle 10 di mattina del 13 agosto 1862, sulla banchina del Molo
di Girgenti (o Porto Empedocle) per pigliare possesso della
prefettura che gli era stata assegnata, c’erano ad aspettarlo i
comandanti militari, le autorità, i notabili e l’immancabile banda
musicale. Il maestro sollevò la bacchetta per dare il via all’inno
nazionale e in quel preciso momento, sotto gli occhi sbarracati del
nuovo venuto, tutti si lanciarono, gridando in una fuitina generale,
lasciando solo l’esterrefatto Falconcini. Il quale, non avendo
ancora del tutto ricuperato l’equilibrio a causa della navigazione
che non era stata facile, non si rese subito conto che c’era stata
una scossa di «novello tremuoto» come scrissero le gazzette
dell’epoca. Il tremuoto a Girgenti dal 1859 pareva essercisi
affezionato: ogni tanto passava, faceva cadere qualche casa, ma non
procurava né morti né feriti. Ora bisogna dire che Falconcini era
uomo del Nord: perciò pigliò il tremuoto per quello che era, vale a
dire una leggera scossa sismica.
Ma
io mi domando e dico: benedetto uomo, come hai fatto a non capire
quello che era subito apparso evidente agli occhi di tutti: che non
si trattava di un semplice tremuoto, ma di un lampante avvertimento?
Stare in questo paese per te non è cosa, diceva il tremuoto, l’unica
cosa per te è risalire a bordo e scappartene il più lontano
possibile. Falconcini, invece, non capì e restò.
Bisogna
dire che nei cinque mesi che Falconcini fu prefetto di Girgenti
capitò tutto quello che poteva capitare. Da tempo la situazione in
Sicilia era assai tesa. Garibaldi insisteva col suo «O Roma o
morte», il re protestava contro l’intenzione del Generalissimo, il
partito garibaldino cominciava a formare campi militari, si armava,
reclutava seguaci entusiasti e violenti un po’ dovunque. Poi
c’erano i renitenti alla leva che si erano dati alla latitanza. Poi
c’erano i briganti sempre più numerosi che mandavano ai ricchi
tante di quelle terrorizzanti lettere di «scrocco» da intasare la
distribuzione della posta. L’8 agosto, al molo di Girgenti erano
sbarcati duemila uomini di truppa, il 10 nel capoluogo s’accampava
un battaglione di bersaglieri. Il pomeriggio stesso dell’arrivo del
nuovo prefetto giunge un generale con truppa e artiglieria di
campagna. In serata, la città viene completamente circondata dalle
truppe regolari. Ma numerosi soldati disertano per unirsi ai
volontari garibaldini. Insomma, possiamo essere certi che in quella
sua prima nottata girgentana Falconcini non pigliò sonno.
Le
cose stavano a questo punto quando il 21 dello stesso mese Cuggia,
prefetto di Palermo con autorità sugli altri prefetti dell’isola,
proclamò lo stato d’assedio. Scoppiano rivolte, sparatorie,
incendi di case. L’unica buona notizia Falconcini la riceve
diciotto giorni appresso il suo insediamento: Garibaldi, ferito, è
stato disfatto in Aspromonte. Ma la notizia non significa
tranquillità, il partito garibaldino organizza una strepitosa
manifestazione contro il governo, Racalmuto insorge, sbarcano altri
cinquecento bersaglieri di rinforzo. Ma capita anche un fatto
inaudito, unico nella storia d’Italia: ben quarantatré impiegati
statali firmano le loro dimissioni come segno di solidarietà a
Garibaldi. Di fronte a un fatto simile (paragonabile forse
all’apparizione di un’Idra a sette teste nella centralissima via
Atenea) e cioè con la burocrazia girgentana che si schierava a
favore di un rivoluzionario, Falconcini come minimo avrebbe dovuto
domandare asilo politico in Svizzera. S’arrabattava, povirazzo,
spedendo a dritta e a mancina circolari, proclami, ordini che o
cadono nell’indifferenza generale o ricevono risposte di formale
adesione.
In
più, è un uomo molto riservato, non ha amicizie locali, non si fa
vedere nei due circoli importanti della città, a molti sta
antipatico. [...] Sempre più frequenti compaiono scritte sui muri:
«Abbasso Falconcini!». Il quale intanto dimostra ogni giorno che è
un uomo che non «sa vivere». Si mette contro i preti per una
questione di decime, allontana dalla prefettura e dagli uffici i
faccendieri, desidera l’applicazione rigorosa di un’ordinanza del
famigerato Eberhardt che proibisce la detenzione di armi, pena la
fucilazione sul posto. E gli capita tra capo e collo, il 26 ottobre,
lo stivale di Garibaldi. Stivale insanguinato portato a Girgenti
dall’avvocato Ricci-Gramitto, luogotenente del generale ad
Aspromonte, e venerato come una reliquia. Il partito garibaldino
girgentano reclama l’autorizzazione di una grande manifestazione in
onore del reduce Ricci-Gramitto e dello stivale. Dopo averci a lungo
ragionato, il prefetto concede l’autorizzazione, «onde evitare
ulteriore
turbativa», ma si attira l’inimicizia della borghesia
conservatrice e della nobiltà. Di questa autorizzazione però noi
italiani dobbiamo essere grati a Falconcini. Fu infatti in occasione
di quella manifestazione che Caterina Ricci-Gramitto, sorella di
Rocco, conobbe un garibaldino compagno d’armi del fratello, tale
Stefano Pirandello». I due si piacquero e si sposarono: dalla loro
unione nacque Luigi Pirandello.
Ai
primi di novembre, il prefetto decide di andare a dare un’occhiata
al carcere, che era il castello di Agrigento, dal quale i 127 reclusi
sarebbero stati poi trasferiti nel piccolo ex convento di San Vito.
Rimane allibito per la sporcizia e il degrado. Soprattutto lo
colpisce il fatto che nel cortile razzolino delle galline, la metà
delle quali sono dei carcerati e l’altra metà appartengono al capo
delle guardie di custodia. Falconcini lo fa destituire e chiama al
suo posto un capoguardia settentrionale il quale, a sua volta, manda
a spasso le altre guardie, sicché i custodi, come annota nel suo
diario l’avvocato Picone, «sono tutti continentali», fatta
eccezione di un calabrese. Ai primi di dicembre, il prefetto riceve
una lettera anonima che lo mette in guardia circa una possibile
evasione di alcuni carcerati. Falconcini ordina un’ispezione che
viene effettuata il 22 dicembre. Il delegato centrale Francesco
Gaudio, coadiuvato da una compagnia del 37° reggimento, da una
decina di carabinieri e da «tutte» le guardie di Ps di Girgenti,
mette sottosopra il carcere, fa battere spranghe di ferro contro
pavimenti, soffitti, pareti allo scopo di sentire eventuali vuoti. Le
pareti e il suolo delle celle e dei cameroni «si trovaron del tutto
ignudi». Le povere cose dei detenuti e i detenuti stessi vengono
perquisiti. Non si trova niente di sospetto. Nessun preparativo di
fuga, garantisce nel suo rapporto al prefetto il delegato centrale.
Nel corso della sera di Natale, i detenuti hanno il permesso di
scambiarsi abbracci e auguri sotto gli occhi dei custodi
«continentali».
La
mattina del 25, giorno di Natale, uno strano silenzio regna nel
carcere. Infatti non c’è più manco un detenuto: tutti i 127 sono
evasi attraverso uno scavo effettuato proprio sotto a uno di quei
cameroni pigliati a sprangate di ferro per sentire se suonava qualche
tratto vuoto. Il custode di guardia di quella notte, guarda caso il
calabrese, non ha visto né sentito niente. Falconcini, in sua
difesa, allega ai rapporti un «dettaglio dei modi e mezzi usati»
dai carcerati per evadere redatto a cura del Genio civile: un
documento particolareggiato che dimostra come tra i carcerati c’era
chi aveva ingegno e conoscenze tecniche di scavo non comuni.
Falconcini azzarda l’ipotesi che si sia trattato di una raffinata
vendetta del capoguardia e degli altri custodi licenziati per far
posto ai «continentali»; crediamo che sia un’ipotesi plausibile.
A nulla valgono le difese di Falconcini: da Torino, 1’11 gennaio
1863 un telegramma del ministro gli comunica che «in data d’oggi è
stato dispensato dalla carica di prefetto di codesta provincia». Non
sarà mai più prefetto di nessun’altra provincia, la sua carriera
terminerà qui. Salutato con una fuga, il suo soggiorno girgentano
terminerà con un’altra fuga. Questo libro, un’autodifesa
corredata da un centinaio di documenti, ha un suo rilevante valore
storico per meglio capire le condizioni della Sicilia nel periodo
immediatamente successivo all’Unità. Credo però che abbia valore
anche e soprattutto come patetica e involontariamente umoristica
testimonianza della vana lotta di uno sventurato contro un destino
avverso o, più prosaicamente se volete, contro una jella di rara
implacabilità.
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