La morte di Luciano
Gallino ci permette di ricordare, oltre all’importante studioso,
anche la grande impresa piemontese per la quale egli aveva lavorato
per un certo periodo e nella quale aveva svolto almeno una parte del
suo apprendistato; l’evento ci serve, inoltre, per avanzare alcune
considerazioni generali sulla situazione attuale del sistema
industriale del nostro paese.
Bisogna intanto mettere
in rilievo, insieme alla chiusura della Olivetti, la liquidazione del
gruppo Iri, per mano dei governi di centro-sinistra, nonché il
sostanziale tramonto del modello cooperativo nazionale, per
quest’ultimo in particolare con le evidenze dello scandalo Mafia
Capitale. Tali eventi hanno posto termine, almeno per un lungo
periodo di tempo a venire, alle speranze dell’avvio di una
prospettiva di crescita su basi nuove dell’economia italiana,
speranze che tali esempi, per molti versi originali, avevano a lungo,
sia pure per strade diverse, alimentato.
Oggi non ci restano più
che il ghigno di Marchionne e quello di vari componenti della
famiglia Berlusconi, mentre peraltro, più in generale, stiamo
assistendo al pratico dissolvimento della grande impresa nazionale,
tra chiusure, fughe all’estero, ridimensionamenti, acquisizioni di
molti complessi da parte del capitale straniero. Così il sistema
paese appare incapace, almeno per la sua gran parte, di adattarsi ai
mutamenti del contesto economico mondiale, mentre è in corso
nell’ultimo periodo una gigantesca asta tra americani, cinesi,
giapponesi, francesi, per vedere chi si assicura i pezzi residui
della vostra economia; e questo in assenza di una qualche attenzione
da parte dei capitalisti nostrani e del nostro amabile governo.
Ci resta ancora ormai
soltanto qualche scampolo residuo da esitare, dalla Telecom, forse
già passata peraltro definitivamente al nemico, all’Ilva, alla
Saipem, alla Finmeccanica. Poi sarà praticamente la fine.
Ma torniamo a Luciano
Gallino e alla Olivetti. Lo studioso, assunto da Adriano Olivetti in
persona nel 1956, diresse poi, con molta serietà, passione e
competenza e per diversi anni, il centro di sociologia dell’azienda,
di cui restò a capo sino al 1971; continuò a collaborare con la
società per qualche anno anche dopo, ma in forma ridotta. Ma tale
ufficio rappresentava in ogni caso solo una parte, anche se
importante, del grande sforzo fatto con tenacia dall’impresa
piemontese in direzione di un contributo, certamente molto rilevante,
al rinnovamento della cultura e dell’industria nazionale e della
parallela ricerca di un rapporto nuovo e non prevaricante tra impresa
e società. Un modello certamente e totalmente contrapposto a quello
portato avanti negli stessi anni dal gruppo Fiat nella vicina Torino,
tra l’altro con le sue forsennate catene di montaggio, i suoi
reparti confino, il tentativo, a lungo riuscito, di piegare la
politica nazionale e quella locale ai suoi interessi più gretti.
L’azienda di Ivrea è
stata così un centro nodale di elaborazione nel nostro paese non
solo, anche con Gallino, nel campo della sociologia industriale, ma
anche della psicologia, dell’urbanistica, del design,
dell’architettura, della medicina del lavoro, della programmazione
industriale. Sono parallelamente transitati dagli uffici di Ivrea e
di Milano molti eminenti rappresentanti della cultura italiana
dell’epoca, tra cui, tra l’altro, Musatti, Fortini, Volponi,
Momigliano, Zorzi, Giudici e così via.
Intanto la società
eporediese indicava delle possibili nuove vie di crescita per le
nostre imprese; in particolare, da una parte, quella
dell’internazionalizzazione, peraltro mantenendo e anzi accrescendo
contemporaneamente delle solide radici in patria, dall’altra quella
dell’innovazione tecnologica di prodotto e di processo, in
particolare con l’ingresso nel settore dell’elettronica, infine
quella dell’insediamento produttivo nel Mezzogiorno, ciò che fece
edificando con il tempo due stabilimenti di avanguardia, a Pozzuoli e
a Marcianise.
Ma forse il merito più
importante dell’azienda e dei suoi centri di elaborazione è stato
quello di trattare tutte le persone che operavano nel gruppo, ed
erano veramente tanti, decine di migliaia, come degli esseri umani e
non come delle cose, al massimo dei sudditi, situazione invece
corrente nelle organizzazioni di ogni tipo del nostro paese ancora
oggi.
Va, peraltro, ricordato
come, dopo la morte di Adriano Olivetti, la situazione dell’azienda
si sia, lentamente, ma progressivamente, deteriorata; gli
intellettuali, compreso Gallino, ridimensionarono progressivamente i
loro rapporti con Ivrea, i centri studi furono mano a mano
rimpiccioliti e poi chiusi.
Bisogna sottolineare, a
questo proposito, come giocassero nel senso di creare delle
difficoltà non solo l’ostilità palese della politica e del resto
dell’economia verso l’esperienza di Ivrea, ma anche alcune
questioni interne al gruppo. In effetti, accanto ai grandi meriti,
Adriano Olivetti aveva, come tutti, anche dei difetti, almeno come
capo azienda. Tra l’altro, egli non riuscì a circondarsi di
manager capaci, ma solo di buoni tecnici specialisti, mentre tenne
parallelamente in scarsa cura i conti e la finanza. Così, dopo di
lui, nessuno riuscì a prenderne veramente l’eredità e le
difficoltà finanziarie contribuirono a rendere la vita del complesso
sempre più precaria, con tutte le vicende che sono seguite e che
risultano abbastanza note.
Forse non a caso, forse
proprio per un riflesso freudiano, negli ultimi anni Gallino si era
messo a studiare il sistema finanziario e a spiegarne le malefatte,
con i suoi libri che hanno riscosso notevole successo di vendite. Tra
le sue opere dedicate al tema ricordiamo così “Finanzcapitalismo”,
del 2011 e “Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai
nostri nipoti”, uscito in libreria poco prima della sua morte.
Gallino pensava ancora e
sino all’ultimo che le cose avrebbero potuto cambiare. Speriamo
avesse ragione.
Da “Sbilanciamoci!”,
11 novembre 2015
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