"Pupi di zuccaru", tradizionale dono dei morti ai bambini siciliani |
Marcel
Mauss, agli inizi del Novecento, scoprì che tra gli eschimesi
esistevano due periodi stagionali con tratti molto differenti da un
punto di vista sociologico: «Durante l'estate sembrano dimenticati
tutti quei miti che riempiono la coscienza degli Eschimesi durante
l'inverno. La vita è laicizzata. (...) Al contrario durante
l'inverno l'aggruppamento umano vive per così dire in stato di
esaltazione religiosa continua (...). È l'epoca in cui i miti e le
leggende vengono tramandati dagli anziani ai più giovani».
D'estate, quando i gruppi familiari erano dispersi tra le lande
ghiacciate a caccia di foche, cetacei e selvaggina, la vita sociale e
le feste erano come sospese in attesa del periodo invernale, epoca in
cui i momenti celebrativi si sarebbero seguiti l'uno all'altro quasi
senza soluzione di continuità.
A
distanza di più di un secolo e di tantissimi chilometri, anche in
Italia a novembre si può dire cominci un lungo periodo festivo,
antropologicamente e sociologicamente denso, al cui centro sembra
esserci quello scambio di doni studiato sempre da Mauss nel suo
celebre Saggio sul dono
(1923). L'avvio di questo «ciclo» è rappresentato (simbolicamente)
dalla caccia alla grossa e succosa zucca, la cui prima apparizione
«ufficiale» è a san Martino (11 novembre), giorno che fa un po' da
spartiacque tra la fine di quella particolare estate detta appunto
«di san Martino» e il vero periodo invernale.
Il
santo-soldato sembra essere stato posto lì infatti a separare l'anno
in due fasi distinte, come compendia la leggenda del mantello
tagliato in due per coprirne con una metà un uomo povero,
infreddolito dai rigori invernali. Ed è proprio nel giorno dedicato
al «piccolo Marte» che «un'accozzaglia di monelli (...) con
qualche tamburo vecchio, campanacce, padelle, cannelli di canna da
urlarvi dentro, e altri strumenti di simil fatta, portando lumi
dentro delle zucche vuote, vanno in giro e strepitano più che mai»,
scriveva Gaetano Finamore per l'Abruzzo di fine Ottocento.
Il rumore dei
defunti
Orde
di chiassosi ragazzini armati di barattoli e altri oggetti produttori
di rumore si ritrovano anche in altre parti d'Italia e in periodi
vicini, come a Latera e in alcuni paesi del viterbese, la sera del 30
novembre, in occasione di quella che viene chiamata «Scampanata di
sant'Andrea» («Sant'Andrea giù pe' le mura / a tutte le fije je
mette paura», recita la filastrocca che l'accompagna).
Quando
non erano i bambini in prima persona a «fare l'inferno», un tempo
si credeva fossero gli stessi morti: in Val d'Aosta, scriveva Estella
Canziani durante la prima guerra mondiale, si attendeva il ritorno
dei morti nelle case e, per propiziarsene il favore, si offriva loro
del cibo sulle tavole imbandite. I morti, si sa, sono vendicativi e
quindi se non avessero trovato nulla per loro avrebbero punito gli
abitanti della casa con un terribile e fragorosissimo tzarivàri, un
rituale di rumorosa riprovazione.
Analogo
atteggiamento in Sicilia, dove a Palermo i morti portano ancora oggi,
sì, dolci di marzapane e colorati bambolotti di zucchero ai bambini
buoni, ma con quelli cattivi possono essere molto spietati, punendoli
con doni sgraditi come scarpe rotte, carbone e corone d'aglio.
Ignazio
Buttitta, sempre per la Sicilia, ci informa che dopo la mezzanotte i
bambini si coprivano con lenzuola bianche e, presentandosi
esplicitamente come «i morti», a lume di lanterna andavano in giro
per le abitazioni chiedendo dolcetti e alimenti.
Sono
tante le culture dove, sul doppio binario del rito e del mito, i
defunti e i più piccoli sono al centro di complesse transazioni sia
alimentari sia propiziatorie: i dolci sembrano essere valuta di
scambio. Diamo dolcetti ai bambini che bussano alla nostra porta un
po' come ci insegnò a fare Enea quando portò a Cerbero una focaccia
di miele.
Gli zombie antichi
Vampiri,
streghe e soprattutto zombie sono le maschere con cui amano
travestirsi oggi i ragazzini, soprattutto nella vigilia di Halloween,
sera in cui, come orde furiose, vanno in giro con la loro parola
d'ordine «dolcetto o scherzetto?». Come i non-morti del cinema
hollywoodiano vagano per le strade notturne alla ricerca di qualcosa
da «cacciare», da richiedere in questua. Sono vere e proprie
giocose e colorate bande se non direttamente eredi, almeno molto
simili a quelle che hanno dato filo da torcere a contadini e
cittadini delle società preindustriali fino al Novecento inoltrato.
Di
queste Societates iuvenum,
Abbazie della gioventù, gassen knaben gesellschaften
(«società di ragazzi di strada») lamenta, tra i tanti, anche il
sinodo svizzero di Glarona del 1767: giovani che compiono veri e
propri saccheggi con la scusa della questua e, laddove qualcuno
gliela nega «allora per le genti oneste non c'è più nessuna
sicurezza e si devono aspettare le peggiori ingiurie o addirittura
offese. Se gli si paga qualcosa, se lo scialacquano tutto, e spesso
si tratta qui di grosse somme ogni anno, insieme con molte
spavalderie, dissolutezze grande imprecazioni, risse, botte e
altripeccati».
Erano
quelle bande giovanili che, nei modi in cui la consuetudine concedeva
loro, garantivano la stabilità dell'ordine sociale, ridistribuendo
attraverso le questue i beni in eccesso («ciò che vi avanza date in
elemosina», predicava il Vangelo), ma anche dell'ordine cosmico,
regolando in qualche modo il flusso dei morti dall'aldilà al mondo
degli uomini. Più che limitarsi a plagiare i morti, sembra quasi che
questi ragazzini di ieri e di oggi abbiano un'omologia strutturale
con loro: se i primi sconfinano nel mondo dei vivi, trasgredendo le
ferree regole delle leggi biologiche, i secondi trasgrediscono la
giurisprudenza umana, compiendo ogni tipo di misfatto e, facendo
abuso di carnevaleschi travestimenti, aboliscono così di fatto
quelle fondamentali distinzioni dettate dall'antropologia cristiana
tra uomo e bestia, uomo e demoni, vivi e morti.
Dall'ultimo
decennio del secolo scorso, le modalità di queste adolescenziali
processioni sembrano essere state guidate dagli sceneggiatori
americani. Fino al 1979, epoca dell'uscita del film Halloween, la
notte delle streghe di John Carpenter, quasi nessuno in Italia sapeva
cosa fossero le questue di Halloween e lo stesso Linus, il
personaggio dei Peanuts dell'omonima rivista, quando volle mostrare
al pubblico italiano il suo strano culto per il Great
Pumpkin («Grande Zucca»), un
essere misterioso che appariva la vigilia di Ognissanti a portare
doni a bimbi buoni, consapevole (il suo traduttore, almeno) che non
sarebbe stato capito, traduceva il suo nome con «Grande Cocomero»,
anziché il più corretto «Grande Zucca», forse perché all'epoca -
siamo negli anni Sessanta - la zucca non era (più, o ancora) legata
a quei notturni cerimonialismi legati ai defunti.
Gusto macabro
Dal
film di Carpenter, un filone cinematografico ancora non esaurito
continua a essere ambientato nella notte di Halloween, mostrando al
resto del mondo i modi e le forme di tale festività e condendo il
tutto con i pesanti tratti del cinema horror. Un horror che, in
fondo, non sembra essere solo una «salsa» in cui vengono condite le
pellicole di zombi, vampiri e mostri, i personaggi preferiti dei
travestimenti infantili, ma qualcosa di più. Interessante è in
proposito la teoria del sociologo canadese Douglas Cowan (Sacred
Terror. Reìigion and Horror on the Siìver Screen) che individua nel
piacere che si prova a vedere i film horror un mai estinto fascino
verso il mysterium, che rimanda comunque al sacro, e quindi alla
religione. Questo genere di film «giocherebbe» con diversi tipi di
paure, o sociofobie, che restano comunque legate alla presenza di un
qualche tipo di religiosità, a dispetto di ogni «desacralizzazione»
occidentale.
Allora,
in quest'ottica, avrebbero torto i detrattori della festa di
Halloween, quelli che si preoccupano della «salute dello spirito»
dei nostri fanciulli mascherati: costoro ritengono Halloween non solo
estraneo alla nostra «tradizione religiosa», ma anche colpevole di
esaltare il macabro e di spingere i nostri fanciulli «sulla via
dell'occultismo e della paganizzazione», come ha spiegato il vescovo
di Caltagirone qualche anno fa al quotidiano “La Sicilia”.
Inoltre, è stato avvertito più volte il «pericolo» di un'adesione
acritica ai valori irrazionalisti e pagani di cui è intrisa la
festa. Valori che tuttavia fanno da sfondo, o da lubrificante, a ogni
religione storica conosciuta e ai suoi miti, a cominciare da quello
che fonderebbe la nostra comune umanità: il Diluvio universale.
Stiamo
dunque attenti a criticare troppo i ragazzini mascherati:
involontariamente potremmo invalidare le stesse credenze, le stesse
categorie da cui nasce il nostro (pre)giudizio.
“il
manifesto”, 29.10.2015
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